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Caravaggio a Halloween

di Miguel Martinez - 03/11/2013


In questi giorni, l’autore del blog latita.

Il primo motivo è un improvviso sovraccarico di lavoro: l’ultima sgradevole novità è che una banca ha minacciato di mandarmi centinaia di pagine da tradurre.

Il secondo motivo è più complesso da spiegare, e riguarda l’Oltrarno, il suo cuore che è il rione di San Frediano, e il cuore del cuore, che è il grande isolato in cui cresce il giardino che cerchiamo di gestire.

A prima vista, il problema è che c’è una quantità incredibile di cose da fare, che vanno dall’andare all’Agenzia delle Entrate a far registrare la Onlus (dove scopro un impiegato che a vent’anni, essendosi lasciato con la ragazza, girò tutto il Messico in autostop), al cercare di capire come si fa a far entrare un’arpa per la rampa di ingresso di una ludoteca.

Ma c’è qualcos’altro. Più fai, e meno capisci del mondo.

Prendete questo giardino, pochi metri quadrati, in fondo solo un gran cortile in un quartiere senza verde, in una stradina tutta storta con i marciapiedi dove non ci stanno due gatti insieme.

Che è un po’ come l’ultimo granello di sabbia di cui parla Michael Ende, o se preferite, come guardare il mondo in una goccia d’acqua.

Venerdì sera, la nostra Francesca vi ha organizzato la festa di Halloween – attaccando locandine sui muri con un figlio che corre davanti e un altro nel passeggino – e anche questo mi fa ripensare tante certezze.

Cioè, Halloween c’entra con l’Italia, figuriamoci con l’Oltrarno, come le patate lesse a colazione. Eppure ti rendi conto come una cosa del tutto inventata, e magari con le peggiori intenzioni, improvvisamente si infila nei canali naturali della vita, come una volta fecero i santi astutamente imposti dai cristiani. Persino quando sbagli giorno, come abbiamo fatto noi, organizzando Halloween il 1 novembre, i riti funzionano.

E funzionano esattamente nella misura in cui le cose vanno male. La festa di Halloween nella ludoteca che c’era una volta, non sarebbe stata nulla, una banalità che piove dall’alto.

Questa volta, c’era la rete che ha eretto chi ci ha rubato mezzo giardino, che prima nemmeno ci rendevamo conto che era nostro. Il ladro ci ha rubato anche l’acqua, e quindi  abbiamo dovuto portarla noi.

E non c’era nemmeno la luce.

Così, per la prima  volta in vita loro, i bambini hanno potuto giocare a nascondino, vestiti da diavoli e streghe, al buio, nascondendosi in un bosco. Senza che nessuno avesso costruito qualcosa per loro – tutto è venuto da sé.

I bambini lo raccontano, e lo racconteranno per molto tempo, in modo completamente diverso da come raccontano una qualunque bella festa. I doni dei genitori, per quanto graditi, non valgono mai quanto i doni degli dèi.

Mentre la luce scompariva, i genitori improvvisamente si trovavano l’uno accanto all’altro sulle panchine, senza vedere più nulla. E a ridere e raccontarsi storie.

Ma sul tavolo di legno che avevamo trovato abbandonato per strada, steso sopra il grande bidone dei rifiuti all’ingresso, qualche bambino ha voluto continuare a disegnare lo stesso, e così i genitori si sono improvvisati generatori. E nemmeno Caravaggio avrebbe potuto dipingere una scena di tanta bellezza, con sullo sfondo, oltre la rete, una betoniera.

Ma dove eravamo?

Cosa vogliono dire privato e pubblico?

Da una parte, c’è qualcuno che ha rubato un giardino ai bambini, non c’è dubbio; e questo qualcuno rappresenta un intero aspetto della nostra specie, che di cose ne ha fatte ben di peggio.

In questo senso, la lotta di  classe, la capisci subito. “Destra” e “sinistra” sono concetti assai sfuggenti, sfruttatore e sfruttato, molto di meno.

Che poi il nostro di sfruttatore sarebbe questo signore qui in mezzo a due amiche, e ti chiedi se il male è solo banale, oppure anche ridicolo.

Ma cosa c’è dall’altra parte? Dall’altra parte, intanto, ci siamo noi, che abbiamo le chiavi. Abbiamo le chiavi, perché uno Stato in fuga ce le ha gettate prima di scappare. Direte, finché è un giardino dell’Oltrarno, chi se ne frega… ma è la stessa fuga da tutto l’insieme, dalla scuola alla sanità, e dovrete essere lesti come noi a raccoglierle, se non vorrete fare una brutta fine.

Ma chi è poi che fugge? E’ una strana idolatria quella che attribuisce personalità a ciò che chiamiamo Stato.

Io non vedo alcuno Stato.

Vedo piccole persone.

E qui non posso raccontarvi molto, un po’ per non infierire, un po’ perché non mi conviene, e anche questo spiega qualcosa del mio silenzio in questi giorni. Ci sono storie fantastiche e assurde, che non potrò mai mettere per iscritto.

Considerate solo che su questo pugno di giardino, dove le foglie d’autunno svolazzano libere, pretendono di esercitare sovranità tre, quattro, cinque uffici, della cui esistenza non sospettavi nemmeno.

Ti muovi tra di loro, sentendo la paura che provano, il timore del collasso che li aspetta e il timore ancora maggiore dell’ufficio rivale, il sospetto e l’astio, e provi compassione, persino quando sai che qualcuno di loro ti potrà pungere con l’ultimo veleno che gli resta in corpo. E qualcuno invece no, perché la gente di Stato non è migliore dell’altra, ma nemmeno peggiore.

Ma di quanta di questa compassione avremo bisogno, a mano a mano che tutto ciò che chiamavamo mondo esploderà.

Fu a una notte di luna, a una luna di notte, che Daniel Viglietti dedicò le parole fondamentali:

“Yo descubrí que el combatiente
es más honrado y más valiente
cuando no olvida la ternura
bajo la piel de su armadura,
lo comprendí ante la hermosura
del lado claro de la luna,
sí.”

Ho scoperto che il combattente è più onorato e coraggioso, quando non dimentica la tenerezza sotto la pelle dell’armatura, l’ho capito davanti alla bellezza del lato chiaro della luna, sì”.