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Il paradosso della conoscenza è che l’uomo non può pensare il reale astraendo da se stesso

di Francesco Lamendola - 05/11/2013

 

 

 

 

È possibile che l’uomo sappia e conosca veramente qualcosa della realtà, qualcosa del “mondo”, pur essendo parte di quella realtà e di quel “mondo”? È possibile, cioè, che egli riesca a vedere e giudicare il mondo nella sua totalità, come se la vedesse e la giudicasse dall’esterno, mentre invece egli è immerso in essa, è parte di essa, è tutt’uno con essa?

Possiamo tentar di chiarire il senso della domanda facendo un confronto con delle situazioni che, per quanto immaginarie, presentano qualche analogia con la condizione umana e hanno con essa un preciso elemento in comune: la paradossalità. La formica che si muove sulle pietre della montagna, potrà mai vedere e giudicare la montagna nel suo insieme, riuscirà mai a farsene un’idea realistica? Il pesce che vive nel mare, che non ha altra dimora che il mare, che non possiede altro orizzonte che il mare, beninteso esperito dall’interno e cioè da sotto la superficie, potrebbe mai arrivare a comprendere che cosa sia, in realtà, il mare, distinguendolo così da ciò che esso non è – il cielo, la terra, tutta la realtà che si trova al di fuori e al di sopra di esso?

Tale è il paradosso della nostra condizione: l’uomo è sia l’oggetto, sia il soggetto della propria ricerca; è colui che pone le domande, ma è anche colui al quale le domande vengono rivolte, colui il cui mistero vorrebbe indagare. Ma il suo doppio ruolo lo pone in una situazione contraddittoria: per conoscere veramente un oggetto, bisogna essere qualcosa di distinto da esso: si può conoscere ciò che è altro, perché lo si coglie con un solo sguardo; ma come si può abbracciare se stessi con lo sguardo? Perfino lo specchio non ci rimanda una immagine veritiera di noi stessi: se strizziamo l’occhio destro, l’immagine che vediamo nello specchio strizza davanti a noi l’occhio sinistro. Senza contare che non possiamo vederci da dietro, o dall’alto, o dal basso; insomma non potremo mai, in nessun modo, coglierci in maniera completa, esaustiva, simultanea: qualche cosa ci sfuggirà sempre, qualsiasi strategia adottiamo per tentar di superare la difficoltà.

Ora, se questo è vero per il suo corpo fisico, non c’è quasi bisogno di dire quanto sia difficile, per non dire impossibile, che l’uomo riesca a cogliere la propria interiorità, dal momento che colui che si pone la domanda è precisamente quella interiorità: e l’interiorità può, sì, abbracciare se stessa, ma non in maniera oggettiva, non come se fosse altro da sé, ma solo per come essa è, vale a dire soggettivamente.

Il mondo che noi vediamo, è il mondo che vede il nostro sguardo, che colgono i nostri sensi, su cui riflette la nostra mente; non è il mondo esterno, del quale – a rigore - nulla sappiamo, ma una realtà interiore: quella che si riflette nei nostri organi di senso e nella nostra coscienza. E questo vale, a maggior ragione, per noi stessi: ciò che sappiamo di noi stessi non corrisponde a un “io” del quale possiamo mai dire: «Eccoti, ti ho preso!», ma sempre e soltanto a quell’io dentro il quale ci muoviamo, con il quale ci identifichiamo, con cui facciamo tutt’uno.

Ma che cosa sappiamo veramente di noi stessi? In effetti, sappiamo – o crediamo di sapere – che cosa non siamo: non siamo il “tu”, non siamo l’altro, non siamo le cose che ci stanno attorno. In realtà questa convinzione è non solo opinabile (forse l’io non è solo se stesso, dopotutto), ma profondamente fuorviante (ci dà l’illusione della separatezza); per adesso, comunque, assumiamola come la posizione tipica del “senso comune”. Alla domanda: «Che cosa sai tu di te stesso?», noi generalmente crediamo di sapere, almeno, di essere altro da colui che ci fa la domanda; ma se a farci la domanda siamo noi stessi, allora le cose si complicano. Ci domandiamo: chi è che ha fatto in me questa domanda, rivolta a me stesso? Ci sono forse in me due “io”, uno che interroga, l’altro che viene interrogato? O magari ce ne sono tre, quattro, dieci, innumerevoli – e, forse, infiniti? Ma, se è così, chi sono gli altri; chi sono quelli che domandano e che rispondono e che mi mettono, per così dire, davanti al fatto sconcertante di una vita brulicante che si agita e s’interroga, là dove io credevo regnassero l’ordine e, soprattutto, la coesione di quel me stesso che ritenevo di conoscere e che pensavo di essere?

Forse che il mio sdoppiamento incomincia solo quando mi pongo la domanda su me stesso, mentre, fino a che non me la ponevo, godevo beato della mia unità, della mia coesione, della mia essenza? Allora farsi domande è deleterio, è un atto che mette in crisi la mia organicità e l’idea chiara e distinta che ho di me stesso; un atto, insomma, che non dovrei compiere, una domanda dalla quale sarebbe meglio che mi astenessi?

Osservo gli animali: in apparenza (ma, in realtà, che ne sappiamo?), essi godono della loro vita senza interrogarsi, senza farsi domande: accettano la vita così com’è, non riflettono su di essa, dunque non si sdoppiano in un “io” che interroga e in un “io” che viene interpellato. Qualcuno potrebbe invidiarli: qualcuno potrebbe invidiare la loro pace, la loro naturalezza, il loro vivere la vita così come viene, semplicemente, senza residui, immergendosi in essa fino in fondo. Ma l’uomo non riesce ad immergersi nella vita a quel modo, perché non può fare a meno di osservarsi e, di conseguenza, di farsi domande: e così si sdoppia. Diventa, contemporaneamente, il soggetto e l’oggetto del proprio interrogarsi, del proprio sforzo di conoscere e di conoscersi. Anche il mondo diventa per lui un mistero: invece di accoglierlo così come esso gli si presenta e come gli viene incontro, si domanda che cosa quel mondo sia, e che rapporti vi siano fra esso e lui stesso, nonché fra esso e il suo tentativo di conoscere le cose.

Così facendo, l’uomo si separa dal mondo; ma poi si rende conto che nulla può sapere del mondo, se non quello che rientra nei suoi sensi, nelle sue emozioni, nel suo pensiero: ancora una volta, egli è preso in contraddizione da se stesso. Vorrebbe innalzarsi al di sopra del “mondo”, abbracciarlo con un solo colpo d’occhio, ma non può, perché il mondo non è realmente fuori di lui, ma dentro di lui: nei suoi occhi, nei suoi orecchi, nel suo olfatto, nel suo odorato, nel suo tatto; e, naturalmente, nei suoi sentimenti e nei suoi ragionamenti.

Se c’è qualcos’altro, là fuori, lo ignora; e non arriverà mai a conoscerlo, perché egli non può sapere altro che quanto i sensi esterni ed interni gli dicono. Quel che non è in essi, per lui non esiste: possono ben dire a un cieco dalla nascita che esistono dei colori bellissimi; egli tenterà di immaginarseli, ma non riuscirà mai a visualizzarli: per lui, “verde”, “rosso”, “azzurro”, non resteranno altro che parole vuote, suoni ai quali non corrisponde alcuna esperienza, dunque alcuna conoscenza. Per conoscere una cosa, bisogna averne fatto esperienza: così, almeno, avviene per le conoscenze dirette, le più sicure e le uniche che meritano veramente di essere chiamate tali. Quel che altri ci dicono o ci trasmettono, le conoscenze indirette, le accogliamo con un atto di fede, ma non abbiamo una seria garanzia che siano veritiere: ci fidiamo che lo siano, perché crediamo a chi ce le ha trasmesse.  Costui, però, potrebbe anche essersi totalmente sbagliato, sia pure in buona fede, cioè senza alcuna intenzione di ingannarci deliberatamente. Forse si è ingannato anche lui; oppure ha creduto, per il nostro bene, che non era possibile dirci tutta la “verità”. Potrebbe averci mentito per compassione, per delicatezza, per una forma di rispetto (ad esempio, per non umiliare il nostro amor proprio): e, se questo può avvenire da parte di coloro che conosciamo e che ci vogliono bene, figuriamoci che cosa potrebbe accader con le conoscenze provenienti da estranei. Eppure, a ben considerare, la stragrande maggioranza di ciò che siamo soliti chiamare la nostra “conoscenza”, di quel che crediamo di sapere, ha questa dubbia provenienza: lo abbiamo sentito dire, lo abbiamo letto da qualche parte, lo abbiamo ascoltato alla televisione.

Anche le conoscenze dirette, però, sono dubbie: chi ci garantisce che non eravamo folli, quando abbiamo creduto di vedere e di capire una certa cosa? Che non eravamo ubriachi, che non eravamo sconvolti, che non ci stavamo ingannando? E chi ci garantisce che non stiamo seguitando ad ingannarci, che non stiamo seguitando a credere di vedere, di sentire e di comprendere delle cose che, in realtà, non esistono affatto, o non sono così come le percepiamo? Ora, si dà il caso che fra queste cose che ci sforziamo di conoscere, ci siamo anche noi stessi: il nostro “io”.

Ma, anche ammesso (e non concesso) che noi possediamo realmente un io, e non semplicemente un fascio o un complesso di operazioni mentali sempre mutevoli – la vita che fluisce, che non ha forma, che non si lascia fermare, osservare, etichettare e incasellare -, chi mai ci assicura che il nostro io è capace di cogliere se stesso, di esserne buon osservatore e buon giudice? Nessuno ci assicura: tentiamo di assicurarci da noi medesimi. Ma questo è un circolo vizioso: il garante è lo stesso che domanda la garanzia; non è un altro, non è un terzo.

Il filosofo che con maggiore chiarezza concettuale ha messo a fuoco il paradosso fondamentale della conoscenza umana è stato Ludwig Wittgenstein, col suo «Tractatus Logico-Philosophicus», nel quale, molto onestamente, egli riconosce che solo il mistico lo può oltrepassare, perché l’indagine puramente razionale rimane fatalmente inviluppata nella contraddizione dovuta all’identità di soggetto che vuol conoscere e di oggetto che vuol essere conosciuto.

Vale la pena di riportare, a questo proposito, la riflessione conclusiva di Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson - i principali ricercatori del Mental Research Institute di Palo Alto, California - in «Pragmatica della comunicazione umana» (titolo originale: Pragmatic of Human Communication. A Study of International Patterns, Pathologies, and Paradoxes», New York, Norton & Co., 1967; traduzione dall’inglese di M. Ferretti, Roma, Casa Editrice Astrolabio, 1971, pp. 266-67):

 

«Wittgenstein mostra che potremmo sapere qualcosa sul mondo nella sua totalità soltanto se potessimo uscir fuori da esso; ma se ciò fosse possibile, questo mondo non sarebbe più TUTTO il mondo. Tuttavia la nostra logica non conosce nessuna cosa che sia fuori di esso: “La logica riempie il mondo; i limiti del mondo sono anche suoi. In logica perciò non possiamo dire: nel mondo c’è questa o quella cosa, quell’altra no. Ciò infatti sembrerebbe presupporre che escludiamo certe possibilità, e questo non può essere, ché altrimenti la logica dovrebbe travalicare i limiti del mondo: quasi cioè potesse considerare questi limiti anche dall’altra parte. Ciò che non possiamo pensare, non lo possiamo pensare; nemmeno dunque possiamo dire ciò che non possiamo pensare.”

Il mondo, dunque, è limitato e al tempo stesso senza limiti, senza limiti proprio perché non c’è nulla fuori e non c’è nulla dentro che possa costituire un confine. Ma se è così ne consegue che “Mondo e vita sono una sola cosa. Io sono il mio mondo”. Soggetto e mondo non sono più, dunque, entità la cui funzione relazionale è in qualche modo governata dall’ausiliare AVERE (una HA l’altro, lo contiene o gli appartiene) ma dal verbo esistenziale essere: “Il soggetto non APPARTIENE al mondo, ma È un limite del mondo”.

Entro questo limite si possono porre domande significative e rispondervi: “Se una domanda è si può porre, si PUÒ anche rispondervi”, Ma la soluzione dell’enigma della vita nello spazio e nel tempo di trova AL DI FUORI dello spazio e del tempo. Perché, come ormai dovrebbe essere ben chiaro, non c’è nulla DENTRO  uno schema che possa asserire, o anche CHIEDERE, qualcosa SU quello schema. . la soluzione, dunque, non sta nel ritrovare una risposta all’enigma dell’esistenza, ma nel prendere atto che non c’è alcun enigma. Questa è la sostanza delle frasi finali del “Tractatus”, frasi di una bellezza quasi Zen: “Per una risposta che non si può esprimere, nemmeno si può formulare la domanda. L’ENIGMA non c’è… Noi sentiamo che se tutte le POSSIBILI domande della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati. Certo, non rimane allora alcuna domanda; e questa è appunto la risposta. Il problema della vita si risolve quando svanisce. (Non è questa la ragione perché uomini, cui, dopo lungo dubitare, il senso della vita il senso della vita divenne chiaro, non seppero dire in che consistesse questo senso?) C’è veramente l’inesprimibile. Si MOSTRA, è ciò che è mistico… Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere.»

 

Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere: quanto è stata ripetuta questa frase, quanto è stata fraintesa, quanto è stato stravolto il suo significato. Wittgenstein non è un super-Kant che spazza via la metafisica, perché la dichiara non esperibile con gli strumenti della ragion pura; è quasi un mistico, che lascia socchiusa la porta sull’Assoluto, dichiarando francamente che nessuna logica e nessun sapere scientifico potranno mai esaurire l’infinita domanda rampollante dall’anima umana. Ma che questa domanda ci sia, egli non lo nega affatto: si limita a constatare che il Logos dovrebbe astenersi dal formulare la domanda cui non potrà mai rispondere, ma proprio per una forma di rispetto nei confronti della domanda stessa.

Ora, l’uomo è egli stesso la domanda: la domanda su se stesso, la domanda sul mondo, la domanda sul perché della domanda. Negare questo, significa negare il suo statuto ontologico e ridurlo all’ombra di se stesso, degradarlo, snaturarlo. Una mente equilibrata non dovrebbe permettersi di negare il senso della domanda; dovrebbe semmai constatare che ad essa non si può rispondere con gli strumenti della logica e del sapere scientifico.

C’è una realtà infinita, al di là della logica e al di là della scienza; c’è tutto un mondo di cui non sapremo nulla, fino a quando continueremo a pensare, vaneggiando, di poterlo cogliere nella sua totalità, come se fossimo al di fuori di esso, senza considerare che, a quel punto, il mondo non sarebbe più lo stesso, perché in esso non ci saremmo noi.

Quello che, per la logica formale, è un paradosso – lo sdoppiamento di soggetto e oggetto nell’atto del conoscere – per la vita è un dato; e i dati non si discutono, si accettano. Quel che non possiamo comprende tenendoci aggrappati ai nostri strumenti logici, può svelarsi a noi se ci lasciamo andare al flusso dell’esistenza.

Non come naufraghi senza scopo, però; non come relitti in balia d’una corrente imprevedibile: ma con un atto di fiducia e d’amore nell’Essere, senza il quale non solo non vi sarebbe domanda, ma nemmeno qualcuno o qualcosa che la pone, che vi riflette, che aspira a oltrepassarla, con lo stesso ardore con cui la cerva assetata anela ai rivi delle acque…