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Per una strategia di riconquista della sovranità nazionale

di Gian Luigi Cecchini - 05/11/2013

Fonte: centroitalicum

 

 

 

1. Se si desidera superare il senso delle pur sempre attuali parole che Dante [«Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!»:

Purgatorio, 76-78] e Leopardi [ (Parafrasi) «…Certamente non è senza alto volere dei Numi che, quando il disperato oblio della nostra dignità è più pigro e grave, sempre una nuova voce dei nostri padri viene a percuoterci, a svegliarci dal nostro torpore. Il cielo dunque, cioè Dio, è ancora pietoso verso l'Ita1ia; ancora ha cura di noi qualche divinità: poiché, essendo questa l’ora, e mai se ne presenterà un’altra simile, di ripristinare il nativo valore degli Italiani, tuttora inerte come una spada arrugginita, vediamo che la voce dei morti è grande e nobile, e che la terra fa quasi,_uscire gli eroi (cioè i grandi scrittori antichi) per vedere se in questa età, venuta così tardi, ti piace, o patria, essere ancora vile»: Ad Angelo Mai» e ancora « Come cadesti o quando da tanta altezza in così basso loco? Nessun pugna per te? Non ti difende nessun de’ tuoi?»: All’Italia] hanno riservato al nostro Paese bisogna avere l’audacia di scelte di capo decise, radicali e diverse da quelle cui usualmente ci si richiama. In termini più espliciti, sorretti dal pensiero in materia del nuovo Pontefice e parafrasando Gustavo Zaghrebelsky [Politica e nichilismo, in La Repubblica, giovedì 26 settembre, 2013], si deve uscire dal circolo vizioso del «denaro che crea denaro che crea potere che crea denaro», una sorta di «uroboro, il serpente mitologico che si morde la coda e soffoca la Polis».

  Siamo ben consci della vastità del tema che, per ragioni di spazio, limiteremo a quello che secondo noi, piaccia o no, a costo di sembrare ripetitivi, è l’argomento centrale, ossia mostrare come, da un lato, la fuoriuscita dall’euro non sia una boutade polemica, ma frutto di logica economica e arguzia politica e, dall’altro, la messa in discussione del sistema capitalistico risponda a esigenze oggettive di sviluppo sociale e non solo a un sempre utile aggiornato maquillage di dottrine di due secoli fa.

 

2. Iniziamo le nostre riflessioni da questo ultimo aspetto. Il 15 gennaio 2008 fallisce la Lehman Brothers. Sono trascorsi cinque anni, ma la legittimità del capitalismo non si può dire sia entrata in crisi, nonostante le sue promesse di prosperità, di mobilità sociale, di democrazia non incantino più. Le critiche, anche serrate, non sono riuscite a scuoterlo. Anzi, il prezzo dei suoi insuccessi è stato fatto pagare con l’annullamento di alcune conquiste sociali che si ritenevano ormai consolidate.

  La sinistra anticapitalista ritiene che la fatalità economica dipenda dalla volontà politica che l’organizza, che le dà corpo e, dunque, non considera l’idea che la sottende. Se ciò è vero, avrebbe dovuto prevedere, però che le crisi del 2007-2008 non si sarebbero risolte a suo favore, visto il precedente del 1930 che, politicamente, ebbe esiti diversi: negli Stati Uniti (Nerw Deal), il nazismo in Germania, il Fronte Popolare in Francia, nulla di rilevante nel Regno Unito. Il risultato, politicamente inteso, non fu dunque uniforme.

  Il successo dei neoliberisti dopo il 2008, nonostante il duro colpo subito dalla legittimità del sistema capitalistico, deve molto ai paesi emergenti, giacché si è visto, per la verità già prima della detta crisi, ma soprattutto dal momento delle sua esplosione, l’ingresso nelle sale del capitalismo mondiale di produttori e consumatori cinesi, indiani, brasiliani: un esercito di riserva che è servito da supporto al sistema ormai agonizzante.

  Le borghesie nazionali e la scelta di dare risposte ai problemi privilegiando le scelte nazionali, si deve ormai misurare con il fatto che le classi dirigenti mondiali hanno interessi comuni. Di fronte a questo desolante scenario e a meno di non voler restare prigionieri dell’antimperialismo di maniera degli anni ’60, come immaginare che la soluzione “progressista” dei problemi attuali possa trovare un punto d’appoggio nella Cina o nella Russia attuali, divenuti anch’essi Paesi affaristi e venali tanto quanto lo sono i Paesi Occidentali? In questo panorama, tuttavia, svetta per autonomia e coraggio il Continente Sudamericano. L’America Latina, avendo preso le distanze dagli Stati Uniti in maniera collettiva, è stata un punto di svolta non solo per la sinistra, ma per tutti coloro che non considerano ineluttabile la scelta del capitalismo.

  Uno degli strumenti per sconfiggere l’ordine capitalistico l’America Latina l’ha individuato nell’integrazione regionale che, tuttavia, non può dirsi prefigurare il socialismo del XXI secolo, mentre può indicarsi come uno dei più grandi mercati mondiali [Contra: Lambert, in Le Monde diplomatique, giugno 2013]. La prospettiva ha valore e dimensione differente a seconda che ci si riferisca alle sfere d’influenza statunitense o all’ectoplasma europeo, a ben vedere assente da questo scenario mobile. D’altronde, un pachiderma ha capacità reattive molto contenute rispetto alla velocità dei cambiamenti cui ci ha abituati la politica e l’economia internazionali.

  Il fatto, inoltre, che l’America Latina abbia conosciuto sei tentativi di colpi di Stato, sta forse a significare che le politiche adottate sono state considerate una seria minaccia dal sistema, che ha così cercato di reagire. A nostro avviso, ciò ha dimostrato, comunque, che le alternative sono possibili, purché si abbia il coraggio di attuare profonde, radicali riforme che rimettano in giuoco gli strati popolari, che l’assenza di fiducia, di prospettiva, aveva reso apatici, lontani dalla vita politica dei rispettivi Paesi. E una prospettiva di cambiamento è certo anche il colpo di Stato, che nel piattume delle consuete e tradizionali risposte alle crisi, rappresenta, quando non è funzionale alle rivendicazioni delle “classi” al potere, un momento di nobile riappropriazione della dignità nazionale, dignità di cui il nostro Paese avverte, soprattutto in queste contingenze, la peculiare necessità. Insomma, il colpo di Stato, come la rivoluzione, non ha un colore politico prestabilito.

  Posto che le trasformazioni, per essere efficaci, devono essere strutturali, non solo è importante adottarle senza tergiversare, ma lo si deve fare consapevoli che la loro drasticità può ingenerare nell’ordine sociale vigente, che verrebbe da esse distrutto, desideri di rivalsa, di autodifesa, di ricorso alla violenza. Il problema, a nostro avviso, va affrontato in due tappe, la cui distanza temporale va commisurata al successo della prima. Anzitutto, quest’ordine va contenuto, solo successivamente si può pensare a sconfiggerlo. Ebbene, riteniamo che politiche tese allo sviluppo del settore pubblico (già questo costituisce un passo controcorrente, nello scenario liberista attuale) e alla gratuità, possano servire all’obiettivo generale. La controffensiva del sistema sarà dura, sicché varrebbe la pena porre fin dall’inizio un elenco di bisogni elementari non negoziabili (alloggio, cibo, cultura, comunicazioni, trasporti), farli finanziare dalla collettività e renderli fruibili da tutti. [Halimi, in Le Monde Diplomatique, settembre, 2013]. Certo, sarebbe auspicabile che il settore pubblico riuscisse a farsi carico gratuitamente di tutti i bisogni primari, fondamentali, senza far correre il rischio di sostituire la tirannia dei mercati con un assolutismo di Stato, anche se, ove questo fosse ben organizzato (un esempio ci è stato fornito dalle socialdemocrazie del Nord Europa), non si dovrebbe gridare allo scandalo. Il rischio può essere evitato generalizzando il modello delle conquiste sociali già produttivo di effetti positivi: il sistema previdenziale. Con il sistema contributivo, si potrebbe mettere a disposizione della società una parte importante della ricchezza, permettendo di finanziare le pensioni, le indennità di malattia, i sussidi dei disoccupati. Ricordiamo che la contribuzione è cosa diversa dall’imposta percepita e spesa dallo Stato perché non è oggetto di accumulazione, tanto che agli inizi fu gestita dagli stessi salariati. Forse è giunto il momento di andare oltre questa linea di demarcazione tra il possibile e ciò che erroneamente si considera essere l’impossibile, che proprio in economia, come in politica, è una parola priva di senso.

  Un siffatto programma avrebbe natura radicale, comporterebbe cambiamenti radicali anche di mentalità e avrebbe tre vantaggi: anzitutto politico, poiché nonostante sia aggregativo di diverse componenti sociali, non si presterebbe alla manipolazione di liberisti; ecologico, nel senso che evita un rilancio keynesiano, che prolungherebbe il modello esistente con la conseguenza di iniettare denaro in banca che verrebbe utilizzato per il consumo di beni di mercato secondo i dettami dell’unico vero modello totalitario, quello pubblicitario; privilegia bisogni reali, che non saranno soddisfatti dalla produzione di oggetti inutili nei Paesi a basso costo di manodopera. Infine, c’è un risvolto utile per il sistema democratico, poiché la definizione delle priorità collettive non sarà più esclusiva di eletti, azionisti, intellettuali, tutti provenienti dagli stessi ambienti sociali.

  La questione del debito convince almeno tanto quanto quella della gratuità se si svela la finalità politica sottostante. Nulla di più logico e naturale per uno Stato che strangolato dai debiti non voglia far pagare ai propri cittadini l’umiliazione di una vita di stenti causata da insensate politiche di austerità (esempi? La Repubblica dei Soviet, Raymond Poincaré che svalutò il franco dell’80%, gli Stati Uniti e Regno Unito che durante il dopoguerra fecero galoppare l’inflazione, quasi dimezzando il loro debito pubblico, in tempi più recenti si ricordano i casi dell’Argentina e dell’Islanda).

  Non è questa la sede per inoltrarci nell’analisi dei problemi sollevati dagli aspetti qui indicati come prioritari, se non per evidenziare come la lista delle urgenze andrebbe completata con politiche di congelamento dei salari più elevati, con la chiusura della Borsa, con la nazionalizzazione delle banche, con la rimessa in discussione del libero scambio, con l’uscita dall’euro, con il controllo dei capitali, etc. Un catalogo così lungo che rischia non solo di essere pletorico nel breve periodo, ma di portare in piazza una folla inferocita che perché faccia la rivoluzione deve essere prima preparata alle conseguenze che ciascuna di quelle misure comporta. Una rivoluzione si fa se c’è convincimento, altrimenti si è di fronte a una rivolta e, come tutte le rivolte, si corre il rischio che il primo temporale ne disperda i seguaci. Insomma, spontaneità e improvvisazione non sono i migliori ingredienti per una rivoluzione, nel senso che possono favorire un momento rivoluzionario, ma non la rivoluzione in quanto tale.

 

3. Ma tra i punti da ultimo indicati, l’uscita dall’euro merita una particolare attenzione, perché non sfugge a nessuno che la moneta unica con tutto l’armamentario istituzionale e giuridico che l’accompagna (Banca Centrale indipendente, patto di stabilità), impediscono ogni politica che cerchi di opporsi alle diseguaglianze, alla confisca della sovranità nazionale e di una classe politica sempre più in balia delle decisioni assunte in sede finanziaria. Va da sé che l’uscita dall’euro da sola non garantirebbe alcuna inversione di rotta, come mostrano i casi di Svizzera e Regno Unito, ma ove la questione monetaria, diversamente da come vorrebbero i più accaniti monetaristi fosse inserita nel quadro delle misure di politica economica adottate dai governi, allora la questione assumerebbe altro rilievo.

  Già oggi in Europa le stesse banconote non hanno più lo stesso valore che hanno in Grecia o in Germania. È cominciata forse l’esplosione della moneta unica? Di fronte a uno scenario di caos è possibile costruire un’uscita dall’euro concertata e ben organizzata?

  Come evidenziato dall’economista francese Lordon in un articolo del 2009 e riproposto sul numero di agosto di Le Monde Diplomatiuque, dall’euro è possibile uscire e, aggiungiamo noi, è quanto mai auspicabile che ciò avvenga in tempi rapidi. In molti, fra questi si distinguono i politici che si autodefiniscono di sinistra, forse pensando che l’eredità e la conseguente trasformazione di nomi e simboli, vada di pari passo con le idee, continuano a credere che l’euro verrà modificato, garantendo il passaggio dall’attuale euro austerity a un euro finalmente rinnovato, progressista e sociale. Ciò non accadrà perché l’attuale quadro europeo difetta di qualsiasi armamentario politico che possa intervenire sull’unione monetaria europea; un’impossibilità che fa leva soprattutto su un argomento definibile con un sillogismo, dove la premessa maggiore ci porta a concludere che  l’attuale euro è il risultato di una costruzione che intenzionalmente ha avuto come effetto quello di soddisfare in ogni modo i mercati dei capitali e strutturandone finanche l’ingerenza sulle politiche economiche europee. La premessa minore vede, giocoforza, in qualsiasi progetto di trasformazione significativa dell’euro un progetto di smantellamento del potere dei mercati finanziari e di espulsione degli investitori internazionali dall’elaborazione delle politiche pubbliche. Conclusivamente, a) i mercati non consentiranno mai che si concepisca un progetto avente come obiettivo quello di sottrarre loro il potere disciplinare; b) ove un siffatto progetto cominciasse ad acquisire un briciolo di consistenza politica e qualche probabilità di essere attuato, si scatenerebbero una speculazione e una crisi di mercato così acute che non lascerebbero il tempo di istituzionalizzare una costruzione monetaria alternativa. Nell’immediato, dunque, il solo esito possibile sarebbe il ritorno alle monete nazionali.

  Va da sé che quando parliamo di sinistra non ci riferiamo al PD o agli altri partiti con i quali intrattiene rapporti di vicinanza anche ideale, tutte organizzazioni che ormai con la sinistra intrattengono esclusivamente rapporti di inerzia nominale, né ci riferiamo alla massa indifferenziata degli europeisti, che, silenziosa o beata per due decenni, scopre solo ora le tare del suo oggetto prediletto e realizza, con sgomento, che potrebbe andare in frantumi. Un così lungo periodo di beato torpore intellettuale non si recupera, tuttavia, in tempi brevi. Partiti, movimenti, leader che si muovono come fossero stati svegliati da rumori che li hanno atterriti, salvo poi scoprire che nulla è accaduto di grave, una sorta di falso allarme, rimessisi a letto si risvegliano al mattino in un miscuglio di leggero panico perché consapevoli, interiormente, della loro totale impreparazione ove avessero dovuto fronteggiare una situazione imprevista.

  Il fatto è che i partiti e i politici che vi fanno riferimento, di là di singoli casi che però non fanno storia perché obnubilati, propongono soluzioni deboli proprie di chi non avendo mai voluto approfondire nulla, rischia di non capire mai niente. Il problema è che non si tratta solo di comprendere quanto anche di ammettere; ammettere che la singolarità della costruzione europea è stata una gigantesca operazione di sottrazione politica, ossia sottrarre la sovranità popolare sulla quale si regge il sistema democratico nazionale.

  Il momento in cui ciò è risultato più evidente si ebbe in Francia con il referendum sul Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. I sostenitori e gli estensori di detto Trattato  hanno scelto deliberatamente di neutralizzare, per via costituzionale, le politiche economiche - di bilancio e monetarie - sottomettendole a delle regole di condotta automatica iscritte nei trattati. I difensori del «sì» al cosiddetto Trattato “costituzionale” europeo (Tce) del 2005 avevano preferito soprassedere sull’argomento principale del «no» che aveva riguardo alla Parte III, certo acquisita dopo Maastricht (1992), Amsterdam (1997) e Nizza (2001), ma che ripeteva attraverso tutte queste conferme, la scandalosa sottrazione delle politiche pubbliche al criterio principe della democrazia, ossia all’esigenza di rimessa in gioco e di reversibilità permanenti. Nel caso di specie, non c’è più niente da rimettere in gioco, neanche da rimettere in discussione, poiché si è scelto di scrivere tutto, e una volta per tutte, in dei trattati inamovibili. Politica monetaria, politica di bilancio, livello di indebitamento pubblico, forme di finanziamento del deficit: tutte leve fondamentali che sembrano volutamente scolpite nel marmo. Infatti, come si potrebbe discutere del livello d’inflazione desiderato quando quest’ultimo è stato affidato a una Banca centrale indipendente che non risponde ad alcuna volontà politica? Come si potrebbe decidere una politica di bilancio quando il suo saldo strutturale è predeterminato («pareggio di bilancio») ed è fissato un tetto per il suo saldo corrente? Come decidere se ripudiare un debito quando gli Stati possono finanziarsi solo sui mercati di capitali?

  La domanda che verrebbe da porre a tutti coloro che sognano un’altra Europa per superare la crisi, è se riescono a immaginare la Germania che si piega alla legge della maggioranza europea qualora il Parlamento sovrano decidesse di riprendere in mano la Banca centrale, di rendere possibile un finanziamento monetario degli Stati o il superamento del tetto del deficit di bilancio?

Dato il carattere generale dell’argomento, la risposta, negativa, sarebbe la stessa, se la stessa legge della maggioranza europea imponesse all’Italia la privatizzazione integrale dell’Assistenza sanitaria.

  È dunque necessario che gli architetti del federalismo capiscano che le istituzioni formali della democrazia per se stesse non esauriscono il concetto e che non c’è vera democrazia senza uno sfondo di sentimenti collettivi, unico capace di far sì che le minoranze acconsentano alla legge della maggioranza; giacché, a ben vedere, la democrazia si sostanzia nella deliberazione più la legge della maggioranza. Eppure, questo è proprio il genere di cose che gli alti funzionari - o gli economisti - sprovvisti di qualsiasi cultura politica, ma che però formano l’essenziale della rappresentanza politica nazionale ed europea, sono incapaci di vedere. Questa povertà intellettuale porta giocoforza ad avere «mostri istituzionali» che ignorano il principio di sovranità e il «balzo in avanti democratico» si annuncia già incapace di comprendere come questo comune sentire democratico sia una condizione essenziale e di come sia difficile soddisfarla in un contesto plurinazionale.

  Circa il controllo dei capitali, è bene ricordare che il ritorno alle monete nazionali non solo consentirebbe di soddisfare questa condizione, ma, a evitare qualsiasi dubbio, è tecnicamente praticabile, purché sia accompagnato da specifiche misure ad hoc (in particolare il controllo sui capitali). Non una moneta unica, dunque, poiché questa, piaccia o no, presuppone una costruzione politica autentica, al momento ancora lontana. La nostra proposta è quella di una moneta comune, un’ipotesi certo fattibile, atteso che gli argomenti validi a sostegno di una forma di europeizzazione restano, purché, ovviamente, gli inconvenienti non superino i vantaggi. L’equilibrio, dunque, si ritrova se, invece di una moneta unica, si pensa a una moneta comune, ossia un euro dotato di rappresentanti nazionali: delle euro-lire, degli euro-franchi, delle pesetas, ecc. Il nuovo contesto vede le denominazioni nazionali dell’euro non direttamente convertibili verso l’esterno (in dollari, yuan, ecc.) né tra loro, giacché tutte le convertibilità, esterne e interne, sarebbero demandate a una nuova Banca Centrale Europea, che, in qualche modo, svolgerebbe la funzione di ufficio cambi, ma sarebbe privata di ogni potere di politica monetaria. Quest’ultimo verrebbe restituito alle Banche Centrali Nazionali, mentre ai governi spetterebbe la decisione se riprendere il controllo su di esse o meno.

  La convertibilità esterna, riservata all’euro, verrebbe effettuata sui mercati di cambio internazionali, quindi a tassi fluttuanti, ma per il tramite della Banca Centrale Europea, solo organismo a ciò delegato per conto degli agenti (pubblici e privati) europei. Per contro, la convertibilità interna, quella dei rappresentanti nazionali dell’euro tra loro, si effettuerebbe solo allo sportello della BCE secondo parità fisse, decise a livello politico. Questa procedura consentirebbe, da un lato, di liberarsi dei mercati di cambio intraeuropei, da sempre causa di crisi monetarie ricorrenti già all’epoca del Sistema Monetario Europeo (SME), e, dall’altro, creerebbe una sorta di cordone difensivo dai mercati di cambio extraeuropei attraverso l’intermediario del nuovo euro.