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Se la crisi è nostra alleata. Una via di fuga dall’infelicità del nostro tempo

di Gian Maria Bavestrello - 10/11/2013

Fonte: heimat

pop artAndiamo, questa volta, alle radici dell’infelicità che morde gli uomini d’oggi e che rappresenta la cifra più significativa di questo primo scorcio di millennio. Anticipandolo: l’infelicità diffusa che scorgiamo tra il grigiore della città, almeno laddove si è mantenuta l’abitudina di osservare la vita a discapito della fretta di fenderne gli spazi assorti nel proprio privato, ha poco a che vedere con la crisi.

L’infelicità precede questa crisi ed è la “condicio sine qua” della nostra civiltà, quella che tutti ormai chiamiamo “società dei consumi”. Per questo è un’infelicità cronica.

Se foste dei pianificatori della storia umana, per creare una società dei consumi dovreste prima rendere le masse cronicamente infelici. Dovreste indurre desideri latenti, creare una “fame” artificiale che sia percepita attraverso i meccanismi dell’ infelicità. Dovreste programmare scientificamente una cronica sensazione d’insufficienza e inadeguatezza, perché è in queste sensazioni che germogliano il bisogno e l’impulso al consumo. Non è difficile, credetemi: basta imporre valori e modelli come la gioventù, consci che prima o poi tutti invecchiano, per aprirsi floridi mercati basati su bisogni compulsivi.

Dovreste toglier di mezzo anche ogni tedioso senso di soddisfazione, ogni pretesa di aderire decorosamente a un ruolo tradizionale, persino biologico, suscitando il bisogno di acquistare al supermercato un’ identità “firmata” o un life style, quindi mettere flotte d’individui di fronte allo specchio e donargli insicurezza, impedire che abbiano una vita densa di relazioni non competitive (comprese, benintesi, quelle affettive), alimentare l’invidia reciproca, proporre modelli da superare e rilanciare in una continua rincorsa a scopi esistenziali che evaporano incessantemente e si riproducono senza posa. Se non renderete il vostro essere umano infelice, se costui oserà emancipare i propri desideri dalla ricerca di affermazione sociale, e peggio volgerà le energie verso la propria interiorità rendendosi misura di sé stesso, la vostra missione sarà impossibile da portare a compimento.

Per questo dovreste creare anche una democrazia. Nulla però, di quanto avevano in mente i greci o strani relitti come Rousseau, che cianciava di piccole patrie, di democrazia diretta, di comunità, di rigidi costumi atavici e via discorrendo.

Una società dei consumi deve essere una società a democrazia controllata, almeno apparentemente mobile; una società di individui formalmente eguali, liberi da legami vincolanti e limitanti, parcellizzati come atomi,  privi di anti-corpi sociali e culturali ereditari, chiamati proprio in forza della loro uguaglianza a competere l’uno con l’altro,  spinti a farlo dall’invidia, dall’emulazione e da smodati desideri di affermazione egoica.

No, la nostra “meravigliosa” società democratica dei consumi non potrebbe esistere se non fossimo infelici, almeno un po’. Non potrebbe esistere se non ci sentissimo soli nella nostra corsa a ostacoli e non cercassimo gratificazione tra gli scaffali dei negozi. Se non cercassimo nel conflitto con altri conferma del nostro valore, e nei brand strumenti d’affermazione egoica, carichi di quell’energia, di quegli stimoli e di quelle conferme che non sapremmo più trovare dentro di noi o nei modelli della tradizione. Una società dei consumi non potrebbe  esistere se re-imparassimo a non coltivare ossessivamente quelli che Socrate, nel Filebo, definiva piaceri impuri: piaceri che nascono dal pungolo del bisogno e che dunque nascondono in nuce un’intima sofferenza.

Parlare di decrescita felice significa scorgere nel disastro ambientale, innanzitutto, la conseguenza di un’aggressività tipica di un essere frustrato e destinato allo scacco, capire che la partita di una nuova civiltà non si gioca sul solo terreno politico ma su un piano ancora più elevato: il piano dell’anima o, ancor meglio, il piano del desiderio.

Esiste un desiderio infantile, di soddisfazione immediata, che si consegue attraverso l’accesso ad oggetti o status symbol che altri producono in ragione del nostro bisogno di essere accettati ed amati, della nostra disponibilità a lasciarci appagare e della nostra anomia, ed esiste il desiderio maturo di assumere su di sé quegli specifici desideri che possono essere trasformati in atti creativi e, in ultima istanza, in destino. La prima forma di desiderio incarna il principio propulsore di una moderna società industriale e consumista, basata sulla macchina come produttrice de-responsabilizzante di gratificazione edonistica di massa, il secondo di una società che, nonostante possibili evoluzioni tecnologiche, rimane fedele ai principi dell’homo faber, dell’artigiano che non produce in vista dell’oggetto e del valore autonomo della “cosa”, ma della propria vocazione specifica e della propria ricerca di auto-realizzazione, di cui la perfezione dell’oggetto è il riflesso visibile.

Chi l’ha detto, allora, che la crisi (che è una crisi dell’uomo moderno, conseguente a una crisi della macchina e della sua funzione gratificante) debba essere una disgrazia? Dipende solo da come “desideriamo” viverla. La crisi ci può offrire la possibilità di “s-velare” la natura “indotta” della nostra infelicità. Ci può offrire l’occasione di smascherare miti apparentemente indiscutibili. Di restituire centralità alle relazioni e alla cooperazione, di fuoriuscire dallo schema del darwinismo sociale. Di recuperare, attraverso la lucidità, un pò di serenità, e con essa la spinta ad elaborare nuove strategie esistenziali, più affini all’artigiano che al consumatore.

La crisi ci offre l’occasione di restituire valore al denaro e agli oggetti a cui lo sacrifichiamo, riconoscendo che esso è il frutto del tempo che potremmo investire creativamente, in atti destinanti, e che invece immoliamo sull’ altare di desideri degradati alla stregua di bisogni. La crisi ci offre l’occasione di restiturci alla vita, morire a noi stessi come consumatori incalliti e rinascere sotto forma di uomini, emancipati dalla propria condizione di nascita – e quindi privati di un sostegno tradizionale – ma non dal proprio richiamo all’infinito e alla trascendenza. Non sciupiamola inseguendo il nostro vecchio “io”. Che cosa abbiamo da perdere, in fin dei conti, se non un po’ d’infelicità?