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Se per assurdo la vita avesse senso. Albert Camus

di Miro Renzaglia - 10/11/2013

 

Vinse il premio nobel per la letteratura con una scoperta, trasmessa nelle sue opere, semplice semplice: se per assurdo la vita avesse senso… Dite che manca la conclusione? No, non manca: la scoperta di Albert Camus è in quei tre puntini sospensivi. Dite che tre puntini sospensivi sono troppo poco per meritare il nobel? No, non è troppo poco: perché sta a te lettore completare la frase accettando o confutando l’assunto camusiano, secondo cui: «L’assurdo è un peccato senza Dio» e «Tutto ciò che esalta la vita ne accresce, al tempo stesso, l’assurdità». Non che Camus si esima da dare una ricetta allo sconforto che inevitabilmente prende a chi si accinga all’impresa di riconoscere nell’assurdo l’unico senso del nostro stare al mondo. E, anzi, da Lo straniero (1942) a Il mito di Sisifo (ancora, 1942) a La peste (1947) fino  a L’uomo in rivolta (1951) – ovvero gli imprescindibili della sua produzione letteraria –  la traiettoria delle considerazioni subisce progressive impennate senza, pur tuttavia, tradirsi dalla convinzione originaria: la vita è assurda. Pensateci: non è forse l’epifenomeno della sua morte il sigillo a tanto? Parte in automobile e rimane vittima di un incidente stradale, avendo in tasca il biglietto del treno già acquistato per compiere lo stesso tragitto, nello stesso giorno. Più assurdo di così, si muore…

Ma si parlava di impennate nel percorso speculativo dell’autore. Bene. Se ne Lo Straniero Camus disegnava nel protagonista del romanzo un atteggiamento di distaccata indifferenza a quanto gli capita intorno e che ne fa prima il colpevole di un omicidio «senza ragione» e poi un condannato a morte senza pentimenti del reo, già in Sisifo si coglie un segno di rivolta che trasforma l’eterna fatica della condanna a vivere in sfida, molto nicciana, all’assurdo: devo ricominciare daccapo ogni volta? E sia…  Ma è ne La peste che si compie lo scarto decisivo: dalla rivolta individuale contro l’assurdo per se stesso e in se stesso, all’interno di una città-lazzaretto condannata al dolore e alla morte dall’esplosione di una assurda epidemia, i protagonisti scoprono la supervalenza della insubordinazione esistenziale collettiva. Una rivolta che, ancora una volta, vedrà gli uomini soccombere all’ineluttabile, ma stretti nel vincolo della solidarietà nella sorte avversa. Rivolta… Rivolta… Rivolta… E solidarietà. Sono queste, infine, le parole chiave che scardinano l’esistenzialismo passivo della rassegnazione all’estraneità (estraneità alla vita, s’intende) dandosi un segno positivo. Là dove regna l’assurdo, la ribellione dell’uomo non serve a salvarlo ma a conferire senso al suo stare al mondo. Metafora, quella de La peste, compiutamente teorizzata da L’uomo in rivolta, di qualche anno dopo: «Nella profondità dell’inverno, ho imparato alla fine che dentro di me c’è un’estate invincibile». Oppure e meglio: «Mi rivolto, quindi siamo». Se mi fosse concessa l’autocitazione, modestamente sintetizzerei il concetto così: «L’unica cosa che voglio dalla vita è uscirne vivo».

Ora – c’è da dirlo – nonostante il suo sbandieratissimo ateismo, il dio ordinatore dell’universo mondo, buttato fuori dalla finestra dell’esistenzialismo, rientra dalla finestra dell’assurdo. Che differenza c’è, infatti, fra l’essere amministrati dal principio del cosmo (tu chiamalo Dio, se ti piace…)  anziché dal principio del caos, l’assurdo? Poche, pochissime a dire la verità: eleggere l’uno o l’altro a esecutore del proprio destino non modifica la remissione a superiori intendimenti e architetture dell’essere. Cambia, eventualmente, l’atteggiamento del fedele: là, è l’uomo in ginocchio che chiede pietà per i suoi peccati e pretende il perdono dal suo signore; qui, invece,  c’è l’uomo che si ribella al disegno delle astrazioni e delle casualità pur accettandone le conseguenze fino allo sfinimento. Si tratterà pure di libero arbitrio ma – siamo onesti – di libero, nell’arbitrio concesso da altrui (o altra) volontà, ordinata o caotica che sia, ce n’è veramente poco. Quel tanto che consente, appunto, di scegliere se stare in piedi o in ginocchio. Ma la differenza, misto formale-sostanziale, è tutta qua.

Del resto, commetteremmo veramente un grosso peccato (materialista, s’intende) nei confronti di Camus se lo facessimo designato ispiratore di una filosofia. Era lui il primo a rifiutare l’etichetta di filosofo. Si considerava un artista che privilegia le parole e la costruzione verbale in composti narrativi piuttosto che le formulazioni di  idee. Per uno – capirete – che considerava: «C’è un solo problema filosofico veramente serio: il suicidio. Giudicare se la vita vale o non vale la pena di essere vissuta significa rispondere alla questione fondamentale della filosofia» e lui – detto per inciso – considerava il suicidio una non-scelta; per uno così – dicevo – che considerava tutta la plurimillenaria sophia dei cervelli sospesi dai presocratici a Sartre  un fagotto da portarsi sulle spalle senza utilità, cosa restava se non l’arte di cui era capace: quella di scrivere? Un po’ come Sisifo. Un po’ come Camus. Un po’ come…