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Pietro Barcellona: il potere della parola e l’illusoria strategia dei diritti

di Alessandro Lattarulo - 16/11/2013

Fonte: Barbadillo

      

prof.-barcellona4È arduo cercare di sintetizzare il pensiero di Pietro Barcellona, recentemente scomparso, anche semplicemente mossi dalla pretesa di riannodare i fili del ragionamento intessuto negli ultimi anni. Difficile perché nell’epoca degli specialismi, dei tecnicismi, l’opera dell’intellettuale siciliano si è distinta per una sempre più spiccata apertura verso la complessità del presente, al fine di abbracciarlo non più solamente mediante la chiave interpretativa giuridico-politica, aderente alla propria formazione accademica, ma con ripetute esplorazioni nella psicanalisi, nella teologia, nella filosofia. La contaminazione dei saperi, d’altronde, come ineludibile sforzo per chiunque non si accontenti delle decodificazioni gestite dai mass-media, è la frontiera estrema di resistenza al pensiero omologante che inaridisce le fonti della conoscenza e della riflessione dell’uomo sul suo essere in società.

Incanalata entro questa visione delle turbolenze che rendono questo torno di tempo sempre più etichettato come “di crisi”, la parola, sulla quale Barcellona è ritornato anche nella sua ultima monografia, Parolepotere (Castelvecchi, Roma, 2013), è la trincea dalla quale organizzare una resistenza contro l’onnipotenza della Tecnica – metafora ma anche dispositivo narcotizzante dei vincitori –, nella consapevolezza che dietro il lessico vi sia l’arcano del potere. Non solamente nella misura in cui la parola venga forgiata continuamente dai vincitori, per quanto temporanei, che si arrogano il diritto di riscrivere la storia, quanto e soprattutto affinché la pur necessaria riduzione della complessità non si trasformi in un’operazione volta a oggettivare il dato di realtà. Questa operazione, infatti, non soltanto rappresenta la meschina rimozione di tutte quelle forme di sapere che non abbaino raggiunto la lucidità concettuale del discorso dei vincitori, benché contengano depositi di sapienza che potrebbero essere d’ausilio a una rilettura multilaterale delle vicende umane, ma segnala anche una residua possibilità di ancoraggio a un protagonismo del soggetto contro la mistificazione, o forse ossessione, scientista dell’attribuzione al mondo di una modalità di funzionamento fondata su leggi oggettive e non, viceversa, su azioni consapevoli e intenzionali.

In questo cul de sac, le residue possibilità di trasformazione sociale sono affidate alla parola poetica, perché è il poeta che, come il folle nella declinazione erasmiana, destruttura il discorso e rimodula, a uso proprio e della comunità, il linguaggio attraverso cui provare a rappresentare il mondo. Il poeta, come scrive Barcellona, «inaugura sempre un nuovo uso delle parole, o addirittura crea vocaboli che innovano radicalmente l’ordine del discorso» (ibidem, p. 27). La parola poetica, insomma, anticipa i cambiamenti nelle prassi, non semplicemente in maniera oracolare, ma (ri)accompagnando l’uomo lungo il sentiero del dubbio dell’interrogazione esistenziale e di senso. La parola poetica, cioè, al di là del suo incasellamento in un’inclinazione più spiccatamente civile o intimistica, opera proprio per far capire quel quid al quale il discorso convenzionale, dialogico o narrativo, non giunge. In questo sforzo, di carattere prettamente soggettivo come in tutte le arti asemantiche, che, a differenza per esempio della musica, corrono il rischio di avere una “scadenza” per la fruizione più ravvicinata nel tempo, vi è chi ha interpretato uno degli snodi più rilevanti tra il Barcellona ateo e comunista e il Barcellona in dialogo con l’anima e con Dio degli ultimi anni. Con l’usuale, saccente, pretesa, di periodizzare la vita altrui, quasi che la stessa non costituisca comunque un unicum, benché arricchito da nuove ricalibrazioni del pensiero, dalla coltivazione di domande sempre più pressanti. Eppure in Barcellona immutata è rimasta la tensione (e il malessere per la calante aspirazione comune) alla rappresentazione di un universo simbolico soggettivo e collettivo, in grado di restituire “senso” a quest’era post-ideologica con una grande narrazione (cfr. L’oracolo di Delfi e l’isola della capre, Marietti, Genova-Milano, 2009).

Le grandi narrazioni, lungi dal costituire un’anticaglia cestinata dalla “fine della storia” teorizzata da Fukuyama, sono la palestra entro la quale esercitare il conflitto sociale e coltivare gli interrogativi. La palestra, cioè, nella quale ricercare una narrazione comune non già per ingabbiare e omologare ruoli, appiattire status, narcotizzare passioni, ma della quale ridisegnare continuamente il perimetro mediante la forza antagonista della parola, per dare vita a sempre nuove catene significanti. Appunto per non macerare nell’ovvio, nel dominio dell’oggettività, ma per riscoprire la dimensione misterica dell’esistente. In fondo, anche il formidabile strumento della parola non è onnipotente, ma nasce all’interno di uno spazio che i greci ritennero di definire “anima”.

L’indagine sull’anima ha avuto, nell’ultimo quindicennio della produzione barcelloniana – fatta anche di poesia e di pittura –, appunto lo scopo di restituire alla parola la funzione simbolica di relazione emotiva con la “cosa”, liberandola dalla gabbia d’acciaio in cui la stessa, trasformata in strumento di ordinamento del reale, ha finito per chiudere il mondo dell’accadere, deformando il “dire” da creazione/scoperta di figure e forme in un pre-dire non autenticamente creativo ma adattivo alla sfera del fare così come organizzata dalle logiche della produzione e riproduzione seriale tipiche dell’economia capitalistica (cfr. La parola perduta, Dedalo, Bari, 2007).

Il punto è che, dinanzi alla potenza ineffabile della Tecnica postulata da Severino, che sembra delineare un orizzonte in cui il ribaltamento della datità si configura come difficilmente scardinabile anche con gli esperimenti di mobilitazione collettiva pienamente sbocciati nel Novecento, come i partiti, i sindacati, ecc., diventa cardinale immaginare e sperimentare un lessico mentale che viaggi su frequenze differenti da quelle del lessico del mondo. Questa, come già accennato, è una delle residue possibilità di resistenza alla costruzione di paradigmi interpretativi della realtà schiacciati sull’accondiscendenza ossequiosa a una presentificazione assoluta che non soltanto cancella ogni labile legame con la memoria e la sua rielaborazione, ma occupa, con brutale violenza, anche l’orizzonte, per definire il futuro a propria immagine.

Il paradigma del post-umano utilizzato da Barcellona quale cartina di tornasole della tragedia nichilistica dell’Occidente trova proprio nella fine della parola, nella sua riduzione a segno, secondo quanto codificato dalla Scienza e dalla Tecnica, il prosciugamento nefasto della percezione del tempo che ci fonda come Uomini.

Privati della parola o, peggio, contratto il virus del letteralismo, che riduce le parole alla loro lettera, rendendole incapaci di veicolare l’enigma che interroga, che trattiene nello spazio ermeneutico, che coinvolge nella dimensione semantica, diviene quasi inevitabile lo scivolamento nel fondamentalismo. Se infatti la lettera esaurisce il significato della parola, riducendola a segno, la verità rimane interamente dentro la lettera. Non può che essere solamente in essa. Ragion per cui, chi possiede la lettera possiede la verità. La grande presunzione degli uomini è il possesso esclusivo della Verità. Ma la verità, che sta solamente nello spirito e non nella lettera della parola, non può in alcun modo essere posseduta. Tutt’al più è la verità che ci possiede, debellando le nostre resistenze, il salutare e continuo interrogarsi. Il letteralismo è dunque fondamentalista perché pensa che sia stata pronunciata l’ultima parola, mentre persino nella profezia l’ultima parola non è mai detta (cfr. Il suicidio dell’Europa, Dedalo, Bari, 2005). La storia, concepita come unità dell’essere e del non essere delle cose, sta al fondamento della cultura greco-cristiana. Ma è proprio questo fondamento a imporre la distruzione di tutti gli dei immutabili che questa cultura ha costruito e quindi ogni pretesa di ritrovare una bussola di riferimento per la propria anima in un’autenticità costruita attraverso una declinazione del trascendente eccessivamente schiacciata sulla religione. Ovviamente, ciò non impone di condividere che l’uomo greco abbia introdotto una deviazione nel corso naturale degli eventi, a seguito della quale si è prodotta una contrapposizione tra Io e Mondo, fra rappresentazione e realtà, “duplicando” l’esperienza fra “mondo della coscienza” e “mondo dell’esperienza”. Ma non soltanto perché l’accadere sia qualcosa che sfugge alla nostra pretesa di controllo, quanto perché questa tensione, lacerante, pone la vita che si sa, che si interroga sul perché, come un mistero che sfugge alle derive scientiste o alle più tradizionali riduzioni a meccanismi auto-riflessivi. La vita è altro. È oltre. È oltre quella bio-politica «divenuta effettivamente la forma della prevalente rappresentazione del rapporto tra l’io, il potere e la singolarizzazione, [che] funziona sia sul versante del soggettivismo ermeneutico sia su quello dello scientismo neo-naturalista come ragione sufficiente di ogni prospettazione teorica» (Diritto senza società, Dedalo, Bari, 2003, p. 125).

In Gesù di Nazareth che, dodicenne, discute con i Dottori della Legge denudandone le pretese di verità nascoste dietro il comodo rifugio del letteralismo, vi è insomma una dimensione paradigmatica di riscoperta della temporalità come dimensione necessaria all’umano per destituire di pretesa di validità eterna l’idea che l’origine, di qualsiasi natura, sia anche il compimento, una rivelazione apocalittica che ha già proiettato la proprio potenza nel tempo, fino a decadere. Questa prospettiva è ferale, perché abolendo lo scarto tra un “prima” e un “dopo”, elabora una narrazione post-umana, senza decorso, senza soggetto, in cui, mancando lo spazio tra il tempo del prima e il tempo del poi, tutto è già consumato e non c’è più niente che resta fuori (Il furto dell’anima, con T. Garufi, Dedalo, Bari, 2008). Ma il Dio di Barcellona, che richiama l‘uomo al dovere di interrogarsi sul mistero, è un’interrogazione quotidiana, anche se ha, quasi luteranamente, una componente di predestinazione, di pre-scelta ultra-razionale. Ma si rivela sicuramente una strategia per l’anima al fine di sfuggire all’assordante assedio del Nulla (L’ineludibile questione di Dio, con F. Ventorino,  Marietti, Genova-Milano, 2009, p. 94).

In fondo l’avvicinamento al sacro, se non mosso da ragioni esclusivamente strumentali, da una morbosa curiosità di natura para-scientifica, proprio per la distinzione che istituisce con il profano, implica «la costituzione di una soggettività consapevole della distinzione tra necessità e libertà», che si istituisce in uno “spazio esterno”, che rinvia a premesse metafisiche (Elogio del discorso inutile, Dedalo, Bari, 2010, p. 58). Queste non rappresentano la banale e regressiva negazione del metodo scientifico-deduttivo, quanto piuttosto, nella ricerca dell’arché (l’origine) che precede l’esistenza umana, di quelle premesse che attengono alla sfera creativo-decisionale degli esseri umani. E la sfera creativa transita non solamente attraverso l’istituzione (o, spesso, irreggimentazione) in meccanismi sociali attinti da un passato mitizzato, ma dalla mai conclusa ricerca dell’inconscio. L’inconscio, del resto, è un principio sovversivo, non si lascia afferrare, benché, come teorizzato dallo psocanalista lacaniano Massimo Recalcati, particolarmente apprezzato da Barcellona, è la sua estinzione nella civiltà dominata dal discorso del capitalista a provocare un disagio incommensurabile, figurativamente evocato, riprendendo una nota espressione heideggeriana, come tempo in cui “il deserto cresce”. Il nostro tempo, ha infatti scritto Recalcati, è drammaticamente antagonista dell’esperienza del soggetto dell’inconscio freudiano perché questa è esperienza dell’incommensurabile, del desiderio come differenza, mentre ciò che oggi sembra dominare il grande Altro del campo sociale è l’impero del numero, della cifra quantitativa. È, detto altrimenti, il tempo del trionfo iperpositivista dell’oggettività (dalla cui evocazione siamo partiti), che tende a considerare l’inconscio non come parte di noi, ma quale residuo di un arcaismo superstizioso e irrazionale. È un tempo, il nostro, in cui il pensiero “lungo” come elemento di incontro con il caos, con l’imprevisto, ha ceduto alla maniacalizzazione dell’esperienza, ossia della sua agitazione perpetua, della sua intossicazione per eccesso di stimolazioni, che rende impraticabile il concetto di esperienza, dissolvendola nella tendenza compulsiva all’“agire” (M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina, Milano, 2010, p. 7).

A un agire serializzato che Barcellona, analizzando la crisi in corso, ha interpretato come soppressione del Super-Io sociale di freudiana memoria e con la sua sostituzione da parte della figura di un “Padre ipnotico”, che produce, come proiezione delle pulsioni, folle passivizzate e gregarie, che si illudono di rivestire un protagonismo sociale inedito semplicemente lasciandosi fascinare dalle degenerazioni giustizialiste che soddisfano il bisogno sadico-persecutorio di uccidere il capro espiatorio, ovviamente riproducendolo ossessivamente e individuandolo in singoli o in tipologie collettive (si pensi agli immigrati) (P. Barcellona, Passaggio d’epoca, Marietti, Genova-Milano, 2011, p. 14).

In una sorta di nuova “guerra a bassa intensità” combattuta da tutti contro tutti, il Barcellona giurista e filosofo del diritto si è cimentato a viso aperto contro la strategia dei diritti quale panacea di ogni male. Si è violentemente scagliato contro l’irenismo di certo neo-giusnaturalismo ma anche di certo neo-costituzionalismo, sia reattivamente alle dinamiche sociali concretamente dispiegatesi negli ultimi decenni, sia per più profonde ragioni teoretiche.

L’impatto della strategia dei diritti, sempre più individuali, sulla cultura diffusa, ha infatti spostato l’attenzione pubblica dai problemi collettivi, che riguardano il potere e le sue radici, la democrazia, alle vicende dei singoli, attribuendo, di pari passo alla calante capacità delle agenzie di socializzazione politica di fungere da mediatrici tra la base e i vertici delle istituzioni, ai giudici il ruolo di custodi delle aspettative di giustizia. Queste, in sostanza, come peraltro mirabilmente ricostruito da Alessandro Pizzorno (Il potere dei giudici, Laterza, Roma-Bari, 1998), hanno finito con il far cortocircuitare il ricorso ai Tribunali come extrema ratio, diventando invece strategia politica in prima battuta. Ma la politica, come noto sin dalla definizione aristotelica di uomo come “animale politico”, assume pienezza di significato nella relazionalità, non nell’individualità di un rapporto costruito, pur in punta di diritto, con il Terzo (il Giudice) senza coinvolgere gli altri cittadini. Beninteso, si tratta di una conquista, anche politica (ma proprio perché è stata collettiva), frutto dell’evoluzione del rapporto tra cittadino e regnanti all’interno di regimi che, in tante parti del pianeta, hanno perso la chiave della perpetuazione dei propri privilegi per via esclusivamente dinastica. E, beninteso, il ricorso a una corte costituisce pur sempre un presidio in difesa del più debole qualora il potere si regga su basi apertamente o nascostamente dispotico-repressive. La questione vera, allora, non risiede nel soffocamento delle istanze di giustizia in nome di abborracciati riferimenti al primato della politica, peraltro largamente revocato in dubbio dalle capacità egemoniche esercitate dalla finanza. Il nodo cruciale, sul quale Barcellona si sofferma, è invece la natura positiva (posita, cioè posta artificialmente, creata, sottinteso: dall’uomo) del diritto non per una questione di posizionamento scolastico tra differenti correnti, quanto al fine di ricordare che tutti i diritti, anche quelli “giustamente” diventati inviolabili, abbiano una natura umana, una radice conflittuale e che quindi, vadano preservati politicamente, oltre che auto-legittimati a posteriori da altro diritto o dalla produzione giurisprudenziale.

In questo senso, per esempio, alla dissennata teoria sistemica di Luhmann, che certifica la morte del soggetto e l’esaltazione dell’individuo, oltre ad assecondare la frammentazione del pensiero e della conoscenza individuando veri e propri compartimenti quasi stagni dell’agire, Barcellona recupera dalla nota teoria dell’agire comunicativo di Habermas la speranza di reagire al processo di desostanzializzazione e di rimettere in campo il tema della trascendenza e dell’ontologia, anche se l’obiettivo del filosofo tedesco fallisce egualmente nella misura in cui, mediante la parola, il linguaggio si accontenti (o forse dovremmo scrivere pretenda) di fondare una teoria consensuale della verità, in questo modo limitandosi a legittimare discorsivamente le norme, dando vita a un esito la cui validità euristica appare debolmente inserita nel quadro di una ricerca cooperativa della verità, ma poco disposta, in quest’ottimismo della volontà che anima l’epigono della “Scuola di Francoforte”, a cimentarsi con la tragedia, il conflitto, la guerra (Il declino dello Stato, Dedalo, 1998, p. 224).

Accettando che il Diritto, come Soggetto ordinante, istituisca la Società, Oggetto ordinato, e renda gli uomini esseri sociali o quanto meno ne favorisca la socialità, resta comunque inevasa la domanda sul “che cosa”, “da che cosa”, si origini il Diritto. La Modernità tutta è cioè attraversata dal dualismo fra diritto e società, fra la pretesa di auto-fondazione del diritto moderno e la sua assenza di fondamento, risolte, non con troppa originalità rispetto ai secoli passati, da Carl Schmitt definendo sovrano, e quindi tutore-facitore del diritto, colui che riseca a imporsi nello stato di eccezione, a emergere dal caos per dare a quest’ultimo forma/ordine hobbesiani, definendo il campo in maniera polemica tra amico e nemico. A questa visione implicitamente gladiatoria del nesso tra diritto e politica la scienza giuridica ha sostituito i concetti giuridici, che testimoniano il passaggio dall’astrazione all’astrattezza, con ciò, tuttavia, giungendo ad approdi di eccessiva decontestualizzazione dei concetti stessi, ovvero slegando tali concetti dal contesto vitale nel quale sono stati istituiti, al fine di renderli astorici, espressivi non di un processo (di per sé mutevole) ma di una sorta di ragione universale cui la storia stessa deve essere riportata. Ma dietro l’angolo vi sono gli eccessi del modello liberale, che identifica la democrazia con una serie di diritti soggettivi (a partire da quello di proprietà) e con le tecniche di selezione dei governanti. Con limiti prettamente imposti dalla natura linguistica-temporale del vincolo sociale, della costituzione storico-sociale degli individui umani. Ma l’alto livello di astrazione cui si è giunti rischia, dinanzi alle crisi, dinanzi allo scoramento per l’emersione delle crepe di una democrazia costituzionale incompiuta, come nel caso dell’Italia, di ribaltarsi nella più poderosa arma contro la formalizzazione di diritti e, quale passo a ciò aderente, verso la revoca degli stessi. Prima di ogni modello normativo, invece, vi sono (dovrebbero esservi) le prassi, le pratiche umane che strutturano i campi del sapere rispetto alle strategie di potere di ciascun gruppo sociale dominato da quell’individualismo senza soggettività che riporta, senza requie, il detentore dei diritti nei ranghi dei ruoli formalizzati secondo logiche del possesso, la cui radice costituisce una illusoria autonomia dell’individuo. Illusoria verso il raggiungimento di una pienezza in quanto uomo, e illusoria, sotto il profilo sociale, perché garantita, nell’ordine economico dominante, solamente dall’eguaglianza dinanzi al diritto, piuttosto che da un’azione per dare all’eguaglianza anche un tratto sostanziale. Possibile, del resto, solamente attivandosi collettivamente.