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Quell’etnologo-poeta imprestato alla letteratura

di Francesco Lamendola - 20/11/2013

 

 

Con il suo ultimo libro «Figli della luna», avventurosa e commovente rievocazione del periodo da lui trascorso fra i pigmei della Nuova Guinea Occidentale, l’etnologo Maurizio Leigheb conferma la sua vena narrativa fluida e ispirata, ma anche altamente drammatica, che i suoi lettori ben conoscono fin dai lontani tempi di «Caccia all’uomo», or sono una quarantina d’anni.

Acuto osservatore di uomini e cose, al tempo stesso incantato e un po’ beffardo, poetico e disincantato, ingenuo e cinico, l’Autore ci trasporta in un mondo primitivo che fin dalle prime pagine sentiamo nostro, perché il calore di vita che egli vi mette si fonde con il calore di vita dei piccoli uomini con i quali ha vissuto e che descrive in queste pagine, con le loro abitudini, i loro riti e i loro modi di pensare, così lontani e diversi dai nostri, ma anche, proprio per questo, così enormemente affascinanti e misteriosi.

Si tratta di un universo “magico”, nel quale gli uomini non si servono, come unico strumento di conoscenza, di quella razionalità per la quale andiamo tanto fieri, ma di una percezione intuitiva, di un sesto senso che consente loro di entrare in sintonia con le piante e gli animali, di essere parte armoniosa della natura, e non creature separate da essa e in guerra contro di essa.

Leigheb riesce a rendere questo rapporto sensitivo fra uomini e cose senza scivolare mai nell’idealizzazione del “buon selvaggio”, senza indulgere ad un troppo facile un primitivismo alla Rousseau, perché nel mondo primordiale della Nuova Guinea c’è posto per i nobili sentimenti, per l’amore familiare e la solidarietà di gruppo, ma anche per la violenza cieca e spietata, per il sadismo dei cacciatori di teste, per la barbarica crudeltà dei cannibali in cerca di vittime onde saziare i loro abominevoli istinti sanguinari.

È un mondo crudele, quello della foresta primigenia: un mondo nel quale la zampata di un casuario può sventrare un essere umano e l’irruzione improvvisa di un gruppo di guerrieri della pianura può seminare il terrore e la morte in un pacifico villaggio delle montagne, appollaiato fra la nebbia come doveva esserlo nei primi giorni della creazione; eppure, in questo mondo crudele, si incontrano i fiori meravigliosi della delicatezza d’animo, dell’abnegazione, dell’amore per i propri cari spinto fino al sacrificio della propria vita.

Vi sono anche i drammi interiori: vi è, per esempio, la giovane sposa che si suicida, lasciandosi cadere in acqua – novella Ofelia -, perché non riesce a seppellire i fantasmi delle terribili violenze subite, e l’amore del marito non è sufficiente a riaccendere in lei il desiderio di continuare a vivere: non solo l’uomo moderno e civilizzato soffre di depressioni e ossessioni, perché eterna e universale è la condizione umana, con le sue luci e le sue ombre, le sue paure e le sue speranze.

Leigheb ha affrontato, si direbbe, le due paure più ancestrali, più radicate nell’inconscio individuale e collettivo: quella della foresta e quella del selvaggio. Lasciamo agli psicanalisti il dubbio gusto, se lo hanno, di scandagliare le radici di questa doppia, potentissima attrazione: certo essa va contro un istinto fortemente radicato, quello di evitare il buio minaccioso della selva (si pensi a come Tito Livio racconta il terrore che i Romani e gli Etruschi provavamo per la profondissima Selva Ciminia, tanto che nessuno osava penetrarvi) e l’incontro, non meno minaccioso, con l’uomo “selvatico”, figura ricorrente ed elusiva di tante leggende e di tante tradizioni medievali.

Così, è come se Maurizio Leigheb ci prendesse per mano e ci accompagnasse in un viaggio che non è solo lontano nello spazio e nel tempo, ma che è anche stranamente vicino, e perciò tanto più inquietante, rispetto a una dimensione celata nel fondo di noi stessi, acquattata in un angolo poco o nulla illuminato dal nostro orgoglioso Logos strumentale e calcolante, il quale ci ha permesso, sì, di dominare tante cose, ma ci ha lasciati più che mai indifesi, perché profondamente ignoranti, davanti a turbamenti e inquietudini che salgono dal profondo della coscienza e che non riescono a trovare, nella nostra vita così ben  regolata e programmata di uomini “civili”, il necessario sfogo e le indispensabili risposte.

Ecco: se la lettura di «Figli della luna» riuscirà a proiettare il lettore un po’ fuori dai suoi schemi mentali abituali; se servirà a mettere salutarmente in crisi, almeno un poco, la nostra rocciosa presunzione di “uomini ad una dimensione” – quella razionale, quella materiale, quella economica – per aprirci nuovi scenari e impensate prospettive, per rivelarci qualche cosa di noi che non conoscevamo, crediamo che Maurizio Leigheb ne sarà soddisfatto.

Perché questo, in fondo, egli ha voluto fare: accompagnarci in un viaggio entusiasmante, talvolta anche scioccante, ma sempre pieno di stupore e improntato all’umiltà, non solo verso l’incontro con i piccoli uomini primitivi - ormai, purtroppo, in via di estinzione -, ma anche verso quell’uomo sconosciuto, un po’ avventuriero e un po’ poeta, che abita dentro di noi, e che è pronto ad emergere, con nostra meraviglia, quando meno ce lo aspetteremmo, non appena se ne presenta l’occasione: proprio come il fiore che spunta inatteso da una goccia di pioggia, nel bel mezzo d’una grigia ed anonima strada asfaltata.