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Se la libertà diventa omologazione. Il caso della rapper egiziana

di Gian Maria Bavestrello - 29/11/2013

Fonte: heimat

“Sono egiziana, porto il velo e faccio rap.Mi guardano storto, ma non importa”. Il caso della “rapper” diciottenne Mayam, salita alla ribalta di Arab’s got talent,  riporta al centro della scena il complesso tema della libertà e in particolare della libertà femminile in una società conservatrice.  Resta però in ombra la domanda se siamo di fronte a un’autentica domanda di libertà o di globalizzazione, di un mondo migliore e più sensibile ai nostri desideri o solo più povero di linguaggi, di forme espressive, di colori e sfumature.

Quella di Mayam è una storia scritta nel quadro di un format globale, ai margini di un genere musicale anch’esso globale, estrapolato dalle sue origini specifiche e ora in procinto, nel mondo arabo, di un nuovo salto qualitativo. Un salto di genere.

 

Appare sempre più difficile distinguere i due termini, libertà e globalizzazione, non solo in Egitto ma anche in Europa e in Italia. Innegabilmente la globalizzazione rivendica una sua versione di libertà: l’omologazione. Noi stessi ci sentiamo liberi se siamo omo-loghi,  se ci ri-conosciamo identici gli uni agli altri, parti di una società gemellare.  L’unica libertà che sembra interessare ampie fasce di popolazione, in particolare giovanile, è quella di poter essere come “gli altri”, un’aspirazione ansiogena, certamente non nuova, ma che solo oggi si pone come l’orizzonte esclusivo della ricerca di sé e non come mero indugiare nel conformismo.

 

“Sono certa – dice Mayam secondo quanto riporta La Stampa  – che in futuro non sarò l’unica e quando smetterò di rappare ci saranno tante altre come me”.  Voi “come me”, e io come gli altri, ecco il punto. Il diritto all’identità, da diritto a una propria storia e al proprio peculiare destino, si è tramutato in un diritto e in una cultura dell’emulazione, nel segno di un egalitarismo dell’anima, di un collettivismo emozionale senza comunità, di un oblio della provenienza, persino di una comune mediocrità.  Checché se ne dica, la diversità fa paura anche quando viene evocata come valore. Pochi hanno il coraggio di evidenziare come nello stesso universo omosessuale, per portare un esempio di grande attualità, prevalga il desiderio di con-formarsi al modello di famiglia etero-sessuale, basato su matrimonio ed educazione dei figli, piuttosto che la volontà di ricercare una propria via e una propria peculiare collocazione nel diritto e nella società.

Se vi sembra di vivere in un’epoca non solo povera di diversità, ma anche incapace di autentica creatività artistica, avete perfettamente ragione: la creatività è legata a doppio filo alla diversità, all’ignoto, a ciò che ancora non conosciamo e che diventa, tra le mani dell’artista, materia di “opera alchemica”. Dove la diversità cessa di esistere la creatività subisce un tracollo epocale. Noi stiamo assistendo a questo tracollo: la globalizzazione prevede una continua ripetizione dell’identico, un gioco tra le poche varianti interne a un codice linguistico e cromatico ottenuto per svuotamento dei precedenti mondi vernacolari e sostituzione di quei modelli con standard industriali basici, replicati su vasta scala, abilmente promossi attraverso l’ansia di omologazione e conformità.

E allora, buon rap egiziano a tutti.