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In nome di un’idea chiamata Europa

di Gian Maria Bavestrello - 04/12/2013

Fonte: heimat

Non è che simpatizzi con quest’Europa invadente, burocratica e cervellotica,  prona al potere e ai diktat delle Banche. Anzi. Tuttavia credo fermamente, come si suol dire, che sarebbe Male buttar via il bambino con l’acqua sporca: l’idea di una Patria Europea, aperta sulla Russia, sull’Asia e sul Mediterraneo, con l’attuale forma impolitica e nevroticamente monetaria dell’Unione.

Partiamo dal dato interno: non esiste, per l’Italia, una salvezza che pro-venga dal proprio grembo e non dall’Europa, che non preveda un “cupio dissolvi” dei vizi storici del Belpaese e dei suoi fallimenti ,  quando non dell’Italia stessa intesa come aggregato istituzionale, nella più muscolosa corporatura civile dell’Unione. 

Certo non scandalizzano molte delle attuali posizioni anti-europeiste, giustificate dal contesto in cui stanno maturando. C’è però un “tuttavia”:  i problemi di oggi, quei problemi che si imputano all’Europa, nascono più dall’esercizio storico e residuale della “sovranità nazionale” invocata a ogni piè sospinto che dall’Europa.

Nella Germania i paesi mediterranei stanno incontrando una ferma richiesta di assunzione delle proprie responsabilità storiche, dei propri “debiti”,  una posizione di rigore ferma benché troppo rigida per esaurire una sincera aspirazione alla giustizia intesa come percorso da costruire in com-unione, anche attraverso la pratica del “dono” di sé a un’idea che trascende gli uomini di ieri e di oggi.  E’ in questo “dono” reciproco, in un comune sacrificio e superamento della propria “modernità” statuale e nazionale che oggi consiste la Politica, la sola forma in cui essa può ancora esercitarsi, la sola idea che possa ancora produrre una nuova pagina di Storia dell’Occidente.

 

Un’altra Europa, un’Europa politica, attenta alle specificità locali, gelosa del suo straordinario patrimonio di bio-diversità culturali, è possibile rispetto a quella odierna, o forse l’Europa in sé è solo l’ennesimo parto dell’u-topia, l’ennesimo non luogo in nome del quale il denaro esercita il suo potere sull’uomo?  Il fatto che questa domanda non abbia ancora trovato risposta significa forse che la domanda è posta male,  o forse che la sua origine non è sita nel dubbio ma in un oblio, in un’amnesia che dovrebbe portare, piuttosto, a domandarci “chi siamo davvero”. L’oblio di Europa.

Innamoratosi di lei, racconta il mito greco da cui originò il nome, per conquistarla Zeus assunse la forma di un toro dal biancore abbagliante. Avvicinatosi lentamente ai suoi piedi, si accasciò mansueto, inducendo la fanciulla ad accarezzarlo e a salirgli sul dorso. Nell’assumere le sembianze di un toro, simbolo di violenza sfrenata, Zeus consegna profeticamente ad Europa le chiavi di un segreto: il segreto della pace, della seduzione della forza bruta per mezzo della bellezza, fino al suo addomesticamento e alla sua trasmutazione in amore creativo, in filiazione di civiltà.

Senza chiamare in causa un nobel immeritato, è innegabile che l’essenza dell’ Europa sia legata a doppio filo a quella di “pax”, alla missione “imperiale” di unire popoli diversi per lingua, cultura e confessione religiosa in una civiltà plurale e basata sul “riconoscimento” dell’Altro come parte essenziale di un mosaico che l’Uomo, passo dopo passo, è chiamato a ricomporre per scoprire, infine, il senso della costruzione a cui è giunto. Per rivelarsi a sé stesso.

Quest’edificio, questo tempio, quest’Europa che è “Pace”, non può che sorgere sulla Giustizia. Quali altre fondamenta ha, la pace, al di fuori della giustizia? Per questo l’Europa deve essere simbolicamente posta sotto la protezione di Dike, la divinità greca della giustizia, nella consapevolezza dell’alterità che la separa da essa, la stessa che separa un uomo da un dio: la giustizia non sarà mai un processo acquisito,  ma una condizione invocata, toccata ma mai afferrata, ricercata ma mai definitivamente raggiunta, propiziata ma mai posseduta. L’Europa sia dunque il tempio di Dike, tempio di bellezza e giustizia, di continua aspirazione alla misura, alla  proporzione, alla simmetria. Se in questa vocazione sarà posta la sua geo-filosofia, prim’ancora che la sua geo-politica, se questa missione sarà percepita con l’urgenza che merita allora sì: un’altra Europa sarà possibile.

Senza un sincero federalismo europeo non può esistere giustizia tra le genti, e quindi pace duratura. Lo dice anche la storia. Non può trovare soluzione la questione basca e non possono trovare “pace” le tante altre questioni nazionalitarie o regionaliste ancora aperte sul nostro continente.  Non possono perché non è la giustizia a precedere, sul piano storico, l’Europa, in un lento e scarnificante susseguirsi di tavoli e trattati, ma è l’Europa a precedere la giustizia, ad aprire il tempo di quest’avvento divino e messianico. L’Europa – e questo i padri fondatori l’avevano intuito – richiede un continuo atto di fede, un salto nel vuoto, una fiducia in un percorso destinante, ed è questo che la Germania, spinta anche dalla ribalderia e dalla bricconaggine di altri stati, che nondimeno ostacolano con la loro insufficienza questo tragitto, ha obliato.

L’Europa ha necessità ora di un pensiero rammemorante, di una classe dirigente che si ponga il compito di sfuggire all’oblio e riporti allo stato di consapevolezza le radici non solo storiche, ma anche meta-politiche su cui si fonda quest’idea. Che,  benintesi, non è solo l’idea di una moneta forte ma anche e soprattutto di uno scettro e di una spada altrettanto nerboruti, senza i quali la moneta si fa usurpatrice del trono e  attira sul sogno di un’Europa dei popoli la devastante sfiducia popolare.