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Viaggio nella “rivolta dei caselli”: insurrezione anti-Stato

di Alessio Mannino - 09/12/2013

Fonte: nuovavicenza

 

1470943_10201623425882497_922057030_nIl segreto per parlare con i manifestanti di “Fermiamo l’Italia”, il presidio delle autostrade di tutt’Italia che ha preso forma oggi e che ha attecchito anche a Vicenza (casello ovest, oltre alle Alte di Montecchio), è non dire di essere giornalisti. Appena lo si fa, oppure non si può negarlo come per le troupes televisive, scatta un certo nervosismo e il no a qualsiasi dichiarazione. La categoria dei «giornalai», come qualcuno li chiama a Vi Ovest, viene accomunata a quella del bersaglio principe della protesta: i politici. Tutti nemici del popolo.
Così ho fatto un giretto in incognito, giusto il tempo per ascoltare qualche chiacchiera allungando l’orecchio per carpire gli umori dei vicentini aderenti alla rivolta del 9 dicembre. Bandiere di San Marco e italiane insieme: già questo non è scontato, nel Veneto profondo, allergico al tricolore e al centralismo di Roma. Le due sigle organizzate più rappresentative nel dietro le quinte sono la Life, i federalisti liberisti che già vent’anni fa scavalcavano la Lega nella contestazione anti-romana, e i Cobas del latte, assieme a camionisti, contadini, artigiani, piccoli imprenditori, commercianti. Gente che qui votava centrodestra e soprattutto il Carroccio, ma che oggi, anzi da un bel po’, «non votiamo più, o al massimo Grillo», mi fa una ragazza che ho “abbordato” commentando ad alta voce la presenza di un ragazzo col chiodo e la kefiah, che vestito così potrebbe benissimo stare in un corteo di estrema sinistra.
«A casa tutti, dal primo all’ultimo, da Napolitano a Letta, tutti quelli che non sanno fare altro che tassare e chiederci sacrifici», mi spiega un signore rubicondo e al primo impatto gioviale, ma con gli occhi pieni di rabbia. Già: la rabbia. E’ questo il comun denominatore della giornata: non si sentono rappresentati da nessuno, e sono in strada per sfogarla. Vorrebbero le dimissioni in blocco della classe politica. Qualcuno se la prende pure con le banche: «usurai». E’ la pancia che ribolle contro lo Stato e l’establishment per intero.
Sono “contro”. Contro chi pensa «prima ai carcerati e poi agli imprenditori suicidi»,contro i partiti «e le loro, come si chiamano?, primarie», contro i politici «ladri che non hanno mai lavorato in vita loro». Sanno quel che non vogliono, ma non quello che vogliono. Non mi azzardo a fare la fatidica domanda, “cosa proporre in alternativa?”, altrimenti sarei scoperto e isolato. Allora provo con un timido “bisognerebbe stilare un manifesto di soluzioni”, e allora un giovane mi chiarisce, devo dire non senza ragione, che «è inutile, col dialogo non si è mai combinato niente, fanno finta di ascoltarti e poi riprendono a fare come prima». Resta che senza un’idea meno vaga di come cambiare le regole del gioco, neanche i giocatori cambiano. Ma la vena d’anarchia – l’anti-statalismo – che anima la ribellione dei caselli si concentra sul qui e ora.
E’ la jacquerie, l’insurrezione spontanea. Pacifica, e vedremo quanto ad oltranza,altrimenti sarà derubricata ad una fiammata e via. Non una rivoluzione, che necessita di pensieri elaborati, capi riconosciuti e carismatici, organizzazione e, guardando la Storia, del tabù dei tabù: la violenza (in un appello su internet si cita l’ex presidente della repubblica, il partigiano e socialista Sandro Pertini: “Quando il governo non fa ciò che dice il popolo, va cacciato via anche con mazze e pietre”). Rispetto al gennaio 2012, quando i Forconi siciliani furono imitati un po’ dappertutto ma che, ad eccezione del Centrosud, non ebbero seguito (a Vicenza, al casello est, erano letteralmente quattro gatti), questa volta la protesta sta avendo un certo successo, grazie all’assenza di etichette e bandiere di partito. Politicamente, l’unico a tentare di metterci il cappello per ora, da queste parti, è stato l’ex coordinatore provinciale del Pdl, Sergio Berlato, patron dei cacciatori. A livello nazionale, il neo-segretario leghista Matteo Salvini ha lanciato un segnale d’approvazione. Ma facce note della politica, almeno finora, sull’asfalto non se ne sono viste.
Particolare significativo è la simpatia reciproca che traspare fra polizia e manifestanti. Alla mente viene subito il fatto storico che cambiò le sorti del mondo occidentale con la Rivoluzione Francese: solo quando le guardie passarono coi rivoltosi l’insorgere del Terzo Stato e del popolino parigino costrinse il Re a fare le prime concessioni. Paragone forzato, certo, per i motivi di cui sopra. Però, fa riflettere: niente a che vedere con le guerriglie teppistiche fini a sè stesse dei Black Block, o le fiumane belanti della sfilate arcobaleno. Qui, volendo, si è ad un passo dal bloccare il Paese chiudendo le arterie vitali delle autostrade. Il pericolo è teorico, oggi. Domani, chissà.