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J.R.R. Tolkien, Wu Ming e il complesso di appropriazione…

di Miro Renzaglia - 17/12/2013

Fonte: Gli Altri



Il giochetto che intellettualmente mi appassiona di meno in assoluto è stabilire se una cosa è  di “destra” o di “sinistra”. Del resto, già Giorgio Gaber, in anni lontani, aveva stigmatizzato bene la noia di questa coazione a ripetere con un perentorio «E basta…». Se poi la “cosa”, in questione di disputa, è un autore letterario che manco si è mai pubblicamente schierato, il giochetto non è solo noioso ma anche stupido (ma è ancora più stupido accettare o rifiutare un’opera solo in virtù del fatto che l’autore sia “dei nostri”, anziché “dei loro”). Se, infine, l’opera di quell’autore è in forma allegorica, piegare la sua simbologia ai nostri desiderata è pure fraudolento, essendo il simbolo, per antonomasia, interpretabile in tutta la gamma possibile delle umane scienze semantiche. E, pur tuttavia, il giochetto, per quanto noioso, stupido e fraudolento ci viene riproposto puntualmente.

Intendiamoci, il giochetto funziona solo in Italia, essendo lo mondo intero, al di qua e al di là di Greenwich, al di sopra e al di sotto della linea equatoriale, con migliaia di associazioni culturali e istituti intitolati all’autore inglese, del tutto indifferente a questa perniciosa febbriciattola delle patenti che affligge le italiche genti almeno dal secondo dopoguerra. L’esempio più recente è la contesa che “destra” e “sinistra” fanno di J.R.R. Tolkien. Basti pensare che si deve al ’68 americano la riscoperta hippy di Tolkien e che la casa editrice “di destra” Rusconi, importandone e traducendone l’opera intorno ai primi anni 70, si fece scrupolo di avvertire i suoi lettori sulla fascetta editoriale che si trattava, appunto, de “La bibbia degli hippy”. Avvertenza che, però e stranamente, non solleticò alla sua lettura gli ambienti di sinistra, ma proprio quelli di destra che degli hippy, all’epoca, avevano una percezione, come dire?, un tantinello ostile.

Fatto si deve che la sinistra italica dell’epoca considerava il genere letterario “fantasy” una fuga o un’evasione dalla realtà nuda e cruda che distraeva il militante della lotta di classe e dal materialismo storico. Di converso, i neofascisti, costretti a rifugiarsi nella loro microcomunità, circondati com’erano dal sentimento comune che li voleva ridotti nelle “fogne”, trovarono in quell’opera non poche ragioni per immedesimarsi nella comunità “eroica” degli hobbit in lotta contro il perfido Sauron, identificato tout-court con il “potere del sistema” che li voleva annientare.

Fu Marco Tarchi, l’ideologo della “Nuova Destra”, a invitare i militanti a leggere allegoricamente il Signore degli Anelli dove i suoi personaggi «ci ricordano il coraggio, la dignità, la fierezza e la forza d’animo di quanti, uomini e donne, combattono al nostro fianco…». Tant’è che i raduni dell’ala movimentista neofascista presero proprio il nome di “Campi Hobbit”. E tant’è, ancora, che Tolkien, a tutt’oggi, resta elevato fra i primissimi padri nobili di quel pantheon culturale.  E nessuno glielo contese, finché non arrivarono i film di Peter Jackson sulla saga degli hobbit, con l’enorme successo di pubblico e critica cinematografica che ne derivò, a sollecitare la sinistra a tentare un recupero in extremis del fin lì ignorato, rimosso o maledetto autore.

Del resto, già anni prima un avveduto intellettuale organico – a memoria non ricordo se era Umberto Eco o Alberto Asor Rosa – avevano aperto gli occhi sul pericolo di «lasciare alla destra la potenza evocativa del mito» (vabbè, nel caso di Tolkien, a rigore si deve parlare di simbolo e allegoria e non di mito, ma l’avvertimento può essere esteso anche a quegli altri due ambiti semantici). Avvertimento raccolto, oggi, da Wu Ming che proprio il mese scorso ha dato alle librerie un saggetto dal titolo significativo: Difendere la Terra di Mezzo (ed. Odoya). Difendere da chi e da cosa? Ma è ovvio: dai “fascisti” e dalla loro interpretazione dell’opera tolkeniana. Concetto che basta andare sul loro sito “Giap” per vedere ribadito con evidenza in un post che reca in epigrafe: “Il professore, il barone e i bari # Tolkien e le strategie interpretative della destra”. Post argomentato intorno a tre noccioli essenziali: demistificazione del culto dell’eroe, né paganesimo né cattolicesimo, postmodernismo anziché antimodernismo. Il lavoro proposto sul sito sarebbe anche un utile strumento per arricchire, o almeno compendiare, l’apparato filologico, esegetico e semantico dell’opera tolkeniana.  “Sarebbe”, appunto, se non fosse viziato dall’intenzione di cui si diceva in apertura di articolo: quella che per sintesi potremmo definire “complesso di appropriazione” (o di “espropriazione” se si preferisce).

Facciamo un esempio: i “fascisti” ne fanno una lettura che esalta lo spirito eroico? E noi dimostriamo che ci sono decine di pagine in cui si avvalora, invece, il piacere della vita quotidiana, bucolica e pacifica. Verissimo. Ma che vuol dire? Che un uomo animato da spirito eroico non debba mai allontanarsi dal campo di battaglia per dimostrarsi tale? Ma via: persino i supereroi dei fumetti, tra un’impresa e l’altra, amano ritirarsi a vita privata e dedicarsi, chessò?, alla costruzione di velieri in miniatura (Dylan Dog) o a una sana fumata del calumet della pace insieme agli amici pellerossa (Tex). Volete che non lo gradissero quegli esserini di gran lunga più ricchi di sfumature psicologiche degli hobbit? Ma su…