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La base della sinistra è fatta di deficienti?

di Aldo Giannuli - 29/12/2013

Fonte: aldogiannuli



So che questo articolo farà imbestialire molti per il titolo, ma se avrete la pazienza di leggere anche il resto, forse vi arrabbierete anche di più. O forse no. Vediamo… Uno degli interventori di questo blog, commentando una mia affermazione per cui il Pd è un partito con un gruppo dirigente di destra ed una base (militante ed elettorale) prevalentemente di sinistra, ha scritto che, stante questa premessa, occorre concludere che “l’elettorato  del Pd è in larga parte composto di deficienti”. Deduzione impeccabile…apparentemente, in realtà sbagliata perché troppo superficiale.


Le cose sono molto più complicate di un rapporto lineare per il quale una base, che non si vede rappresentata nelle sue istanze più importanti, dopo un po’, sfiducia il gruppo dirigente. Sarebbe troppo bello se le cose fossero così semplici. In realtà, nel rapporto di rappresentanza, giocano molte mediazioni ed elementi di “disturbo”. Ovviamente non è affatto escluso che ci sia una porzione di deficienti che giochino un ruolo di supporto alle burocrazie dominanti e senza alcun vantaggio per sé (altrimenti che deficienti sarebbero?). E questo vale per tutti, anche per la sinistra: non fu Sciascia, sin dal 1963, a decretare la “nascita del cretino di sinistra”?

Ma non è questo l’elemento decisivo: si tratta di una porzione decisamente minoritaria e non determinante. Ben più decisiva è la porzione di persone direttamente legata da rapporti di interesse con il gruppo dirigente: funzionari, consulenti, personale amministrativo, cui si aggiungono i membri di corporazioni garantite e comitati d’affari vari. A sinistra questa coda clientelare e burocratica è particolarmente fitta e ben collegata (si pensi agli apparati di partito, al personale politico degli enti locali, alle cooperative, alle corporazioni di accademici, sindacalisti, magistrati, notai, architetti ecc.). Non è affatto detto che questo gruppo di persone condivida o meno gli indirizzi politici del gruppo dirigente che sostiene: nella maggior parte dei casi vi è indifferente, ma anche nel caso dissenta dagli indirizzi generali del gruppo dirigente –a prescindere se considerati troppo di destra o troppo di sinistra- continuerà a votarlo, per il prevalere degli interessi particolaristici o anche solo personali.

Naturalmente, questa politica di distribuzione selettiva delle risorse, per definizione, deve riguardare minoranze abbastanza ristrette, quindi questa parte della base non è numerosissima e, presumibilmente, non supererà mai una quota del 4-5% degli iscritti al partito e molto meno degli elettori, quindi, in sé, non si tratta di un gruppo decisivo. Ma occorre tener presente che queste persone hanno parenti, amici, clienti, dipendenti, che sono spesso interessati indirettamente al mantenimento di quegli stessi assetti di potere: se un architetto vive della committenza degli enti locali in cui ha amici politici, è interessato alla loro permanenza alla guida dell’ente locale e del partito, ma altrettanto interessati al permanere di quegli equilibri saranno i suoi familiari, la segretaria ed anche il giovane precario del suo studio che vivono di quello stipendio, pur magro. Così come a votare per lo stesso assessore saranno i clientes che hanno ricevuto qualche favore, anche piccolo. Sicuramente non tutte queste persone voteranno conformemente ai loro interessi particolaristici, ma una parte -più o meno ampia- si. E questo determina un effetto moltiplicatore, per cui quel 3-4%, diventerà facilmente il 15-20% dei voti congressuali ed una percentuale più bassa, ma non trascurabile, dell’elettorato. Ma veniamo alla parte maggiore della base.

Qui il discorso si differenzia fra base di partito e base elettorale. Nella base di partito un effetto decisivo lo giocherà l’apparato dei funzionari strutturati in una precisa catena di comando che  va dal centro alla periferia e che è il modello organizzativo base della sinistra. Oggi l’apparato è decisamente più debole rispetto a quello che era nel Pci, ma mantiene un peso considerevole e si integra con la nuova figura del “consulenti”. Il funzionario è un lavoratore dipendente privilegiato da un certo punto di vista (elasticità di orari di lavoro, accesso ad ambienti decisionali, spesso migliore retribuzione ecc.), ma ha un forte handicap: è licenziabile ad nutum, per cui deve assicurarsi un solido ancoraggio nei livelli superiori dell’organizzazione, attraverso un rapporto di dipendenza politica dal gruppo dirigente nel suo complesso o di una sua particolare frazione. A sua volta, però, il funzionario, ha un discreto potere di distribuzione di riconoscimenti selettivi verso chi gli è sottoposto: può influenzare la scelta dei membri di direttivo regionale o provinciale, dei segretari di sezione, dei membri di commissione o di particolari incarichi di partito o degli enti locali, la formazione delle liste quanto meno per le elezioni amministrative ecc. E questo, ovviamente, sfocia nella costruzione di un seguito organizzato che seguirà le sue indicazioni di voto congressuale. E così si determina una catena di consenso che prescinde totalmente dall’adesione ad una determinata linea politica: il segretario della sezione “Gramsci” è un vecchio militante del Pci, totalmente estraneo alla cultura liberista del gruppo dirigente e che non ama affatto Renzi, ma è stabilmente collegato al gruppo che nella federazione provinciale fa riferimento al signor Bianchi, ex sindacalista Cgil, a sua volta collegato al gruppo regionale dell’on. Neri, che deve la sua candidatura al membro della direzione Rossi che, a sua volta, ha scelto di stare con Renzi.

Quel segretario di sezione, dunque, voterà Renzi e, siccome ha un nutrito gruppo di amici ed estimatori, molti di essi, pur pensando cose totalmente diverse, voterà seguendo le indicazioni del segretario del circolo. Come si vede ci sono una serie di passaggi che prescindono totalmente dalla condivisione o meno della linea politica. A questo meccanismo (particolarmente radicato nei partiti di sinistra nei quali da sempre l’apparato è la spina dorsale) si sommano meccanismi di natura diversa che hanno anche più peso nell’area degli elettori non iscritti al partito. In primo luogo, al pari di quanto accade nei mercati finanziari, giocano un ruolo molto importante le “asimmetrie informative”, per cui l’ “offerta”, cioè il gruppo che chiede la delega, possiede una quantità ed un livello di informazioni decisamente superiore a quello della “domanda”, cioè la base alla quale non resta che stare sulla parola di chi gli chiede fiducia. Come si sa, chi vende sa ciò che vende, ma chi acquista non sa quel che compra.

Questa asimmetria informativa di base, poi va stratificandosi, creando una vera e propria “gerarchia informativa”:  all’interno del gruppo, corrente o partito, il capo cordata avrà il massimo di informazioni, i suoi immediati subordinati conosceranno gran parte di esse ma non tutte, a loro volta i subordinati di medio livello avranno a disposizione una massa inferiore di informazioni che trasmetteranno solo in parte ai loro sostenitori e così via, in un crescendo di opacità che raggiungerà il suo massimo al livelli di base. Se il capo corrente ha stabilito un’ intesa coperta con altro capo corrente, probabilmente lo dirà solo ai collaboratori più stretti ed ai supporter più fidati, gli altri forse ne sapranno qualcosa o la intuiranno e forse qualcosa trapelerà a livello medio alto, ma al di sotto di esso nessuno ne saprà o immaginerà nulla. ù

Dunque, primo problema: la base compie le sue scelte in condizioni di ignoranza più o meno parziale, per cui la scelta basata sulla fiducia personale spesso sopperirà ad una scelta consapevole. Ma, qualcuno osserverà, questo può essere giusto per il futuro, ma come giustificare il persistere di un rapporto fiduciario anche “dopo”, quando l’azione politica (di governo o di opposizione, poco importa) del gruppo dirigente si è dispiegata ed ha dato i suoi frutti magari divergenti dalle aspettative? Perché la base non giudica il gruppo dirigente sulla base dei risultati effettivamente conseguiti? Anche qui c’è una quota di asimmetria informativa, che contribuisce a spiegare il fenomeno: non tutti i militanti di un partito seguono la vita politica con l’attenzione necessaria o, semplicemente, hanno il tempo di documentarsi adeguatamente; e fra gli elettori non iscritti, presumibilmente, il tasso medio di interesse per la vita politica è ancora più basso.

Peraltro, giudicare le decisioni, ad esempio, di politica economica, presuppone un minimo di strumenti culturali che spesso non sono disponibili. L’uomo della strada percepisce che l’economia non va, che occupazione e consumi calano e che la pressione fiscale è poco sopportabile, ma di fronte a spiegazioni del tipo “E’ l’eredità dei governi precedenti”, “E’ l’effetto cella crisi mondiale che sarebbero ancora peggiori se il governo non avesse fatto questo o quello”, “E’ quello che si può fare entro i vincoli dei trattati internazionali”, “E’ colpa della Germania” oppure “Gli altri avrebbero fatto di peggio”, non ha gli strumenti per orientarsi. E, nella maggior parte dei casi, o si fiderà di quello che legge nel giornale che prende abitualmente o si rivolgerà al suo opinion leader di riferimento (un amico insegnante o professionista o giornalista ecc.) che spesso sarà un militante o simpatizzante di partito. Oppure farà leva sul “pre-giudizio ideologico” che lo dispone a favore di uno schieramento piuttosto che di un altro, a prescindere da qualsiasi analisi di merito. Ed in questo influiranno anche una serie di riflessi psicologici da non sottovalutare: confondere i desideri con la realtà, scacciare le notizie sgradite, cercare di giustificare sempre la parte politica per cui si tiene, il desiderio di non smentirsi e di “tenere il punto” della propria appartenenza politica, la resistenza ad accettare i mutamenti storici in corso e la conseguente tendenza, in particolare nei più anziani, a leggere quel che accade con le lenti del passato.

Questi meccanismi sono più forti a sinistra, dove, pur essendoci un più alto tasso di politicizzazione, c’è una maggiore propensione ad affidarsi al “partito-apparato”, dove il radicamento ideologico è maggiore e con una più spiccata propensione acritica, dove il “patriottismo di partito” ha ragioni antiche e spesso sfocia in una deplorevole assenza di laicità. E non si dimentichi che la densità di anziani a sinistra è particolarmente alta (come giustamente ricordava qualcuno: una grossa fetta degli elettori del Pd sono i pensionati). I giovani si astengono o votano il M5s, pochi la destra, ma solo pochissimi Pd. E questo ha il suo peso. Ma, soprattutto incide un fattore particolare: l’assenza di alternativa prodotta dallo stesso ceto politico al “potere”. Quando chiedi ad un militante di sinistra perché vota per una certa corrente o perché non reclama le dimissioni immediate di un segretario sconfitto alle elezioni ecc. novanta volte su cento la risposta è: “E chi ci metti al suo posto?”. Ed è vero, perché non c’è un’ offerta alternativa. Ma non c’è perché il ceto politico al potere ha accuratamente fatto in modo che non ci sia. Ed un gruppo dirigente alternativo non cade dalle nuvole come un dono del Cielo. All’interno dei partiti è la totale assenza di democrazia interna ad impedire qualsiasi ricambio. Beninteso, non mancano le liturgie congressuali o le primarie, ma alla linea di partenza arrivano solo già quanti sono dentro la casta e la scelta è sempre fra diverse frazioni della stessa burocrazia. Per affermarsi un nuovo gruppo dirigente ci sarebbe bisogno di una dialettica aperta per tutto il periodo che va da una consultazione all’altra, tenendo conto tanto della difficoltà dell’affermarsi di una nuova cultura politica in presenza del naturale conservatorismo delle organizzazioni.

C’è una viscosità interna che penalizza le novità e punisce le innovazioni, per cui, per affrontare le sfide interne, al gruppo dirigente in carica basterà monopolizzare l’immagine esterna del partito ed escludere dalla sua discussione interna ogni “terzo incomodo” che cerchi di inserirsi. Anche quando si conceda qualche avarissimo spazio marginale (le lettere al direttore del giornale di partito o qualche raro post nel blog vigilato dalla direzione), questo non avrà alcun effetto. Quando si arriverà al congresso o alle primarie, i giochi saranno già fatti: il regolamento provvederà a rendere quasi impossibile ai nuovi arrivati anche solo di presentare una loro mozione e loro candidati; se anche qualcosa dovesse accadere, i dirigenti uscenti potranno usare le risorse economiche del partito per le loro manifestazioni, spostamenti, inserzioni pubblicitarie, manifesti ecc. mentre i nuovi dovranno fare tutto da soli. Poi ad indirizzare i consensi provvederanno i funzionari sul territorio e la stampa nazionale che, ovviamente, darà spazio solo a  quelli che già sono i principali esponenti di partito.

Qualche nuovo candidato al massimo sarà preso in considerazione come una curiosa e divertente anomalia. E, sempre che il conteggio dei voti sia corretto (del che…) i consensi si suddivideranno più o meno nella misura dei rapporti di forza preesistenti fra le diverse frazioni burocratiche. Questo poi si rifletterà anche nelle elezioni politiche, dove l’elettore si troverà sempre a scegliere  fra le solite offerte politiche. A scoraggiare la formazione di nuove liste influirà anche la legge elettorale maggioritaria che, con il richiamo al voto utile e le soglie di sbarramento, mette fuori gioco eventuali nuovi arrivati. Per dimostrare come tutto questo sia ancor più vero nel caso delle organizzazioni di sinistra, nel prossimo articolo mi occuperò di un caso da manuale di “paralisi del gruppo dirigente” ed impossibilità del ricambio: Rifondazione Comunista.

Rifondazione: un caso limite. Ovvero: l’autocritica questa sconosciuta

Dopo la “prima puntata” di alcuni giorni fa, in cui mi chiedevo provocatoriamente se la base della sinistra sia formata di deficienti, ecco la seconda puntata, in cui vi sottopongo il “caso studio” di Rifondazione Comunista.

C’è un partito il cui segretario ha condiviso con gli altri la scelta rovinosa di entrare nel governo con le elezioni del 2006, poi è stato il capo delegazione di quel partito nel governo, dove non ha combinato assolutamente nulla. Di conseguenza ha la piena responsabilità, insieme ai massimi dirigenti del partito della disfatta del 2008 per cui il partito ed i suoi alleati perdevano 2 elettori su 3 e restavano esclusi dal Parlamento. Poi, diventato segretario, nel luglio 2008, rifiutava ogni ipotesi di separazione consensuale con la corrente che aveva perso il congresso, impegnandosi a mantenere il partito unito in vista della riscossa alle successive elezioni politiche, ma la scissione ci fu lo stesso nel modo peggiore, tale da impedire anche un accordo elettorale alle europee, dove entrambe le liste mancavano, ciascuna per pochi voti, il quorum del 4%.

Nel frattempo il partito subiva una preoccupante paralisi politica, prendendo solo pochissime iniziative bilaterali con altre formazioni come l’Idv, o limitandosi ad uscite grottesche come la campagna della michetta. Pertanto, gli iscritti, che al momento del congresso del 2008 erano 74.000 calavano rapidamente, sino all’attuale cifra di 30.000 (che prendiamo con beneficio d’inventario)…

Alle successive elezioni regionali (2010) il partito, presentandosi come Federazione della Sinistra insieme al Pdci, perdeva circa centomila voti rispetto all’anno prima ed otteneva solo pochissimi consiglieri regionali e peggio ancora andava nelle amministrative del 2011. Il partito cessava qualsiasi attività, anche solo insieme ad altri, per “mancanza di denaro”, preferendo spendere gli ultimi ratei di finanziamento pubblico (peraltro non proprio spiccioli) per continuare a pagare un apparato funzionariale ancora pletorico (circa 85 persone rispetto alle 120 precedenti) e con stipendi che, in alcuni casi, come la federazione di Milano, potevano superare i 4.000 euro

Giunte le politiche del 2013, il baldo segretario, insieme al Pdci ed al dottor Ingroia (improvvidamente coinvolto in questa sconsiderata avventura) metteva insieme una lista semplicemente ripugnante, con ex Dc, ex fascisti, poliziotti impegnati a non far approvare il reato di tortura ecc. E, nonostante in questa ignobile accozzaglia, fossero confluiti i resti dell’Idv, che nelle elezioni europee aveva superato l’8% dei voti, la lista otterrà solo il 2% e qualcosa per cento, mancando di nuovo il quoziente.

Ora, mi sembra chiaro che, se c’è un caso nel quale un gruppo dirigente, con in testa il suo principale esponente, debba essere ruzzolato dalle scale, è esattamente questo. Che altro avrebbe dovuto fare quel piccolo carrierista di Ferrero per essere cacciato? Come sarebbe potuta andare peggio?

Delle due l’una: o in Italia non c’è più spazio per un partito comunista o lo spazio c’è ma sei tu incapace di coprirlo. Nel primo caso, si prende atto della situazione e si fa un congresso di scioglimento, nel secondo caso i responsabili evitano proprio di farsi vedere in giro, e fanno come il Trota: si ritirano in campagna e coltivano cipolle.

E, invece, il baldo segretario, con il suo ancor più baldo vice segretario, si ripresentano con una mozione che prende circa il 70%. Dopo, però, il vice segretario si accorge (finalmente!) che forse c’è qualcosa che non va e propone a tutti, segretario incluso, di fare un passo indietro, per cui la corrente si spacca. La cosa non è ancora terminata perché a gennaio l’assemblea dei delegati dovrà decidere chi eleggere segretario, ma pare ci siano pochi dubbi sul fatto che Ferrero raccoglierà poco più del 50% e sarà rieletto.

Sapete dirmi che logica c’è in tutto questo? Sorvolo sulla regolarità o irregolarità congressuali di cui magari potranno dire meglio altri. Mi limito a registrare il dato nudo e crudo: un gruppo dirigente che ha ottenuto risultati catastrofici viene nuovamente plebiscitato, anche se solo dai pochi superstiti. Sono tutti cretini quelli che hanno votato per Ferrero? Non lo credo affatto. Oddìo, una bella percentuale di cretini, che si sono identificati nel loro leader sicuramente ci sarà, ma non credo che arrivino a più di uno su cinque. E sicuramente c’è anche la percentuale di “interessati” a cominciare dai funzionari cui Ferrero non ha fatto mancare lo stipendio in questi anni, a costo di sottrarre tutte le risorse all’iniziativa politica e far morire di inedia il partito. Ma anche qui si tratta di una spiegazione accessoria e numericamente contenuta, non fosse altro perché ormai di risorse da distribuire ce ne sono davvero poche.

La netta maggioranza di chi ha votato Ferrero lo ha fatto per altre ragioni che, a mio avviso, sono spiegabili con il meccanismo dell’ “autoinganno”; un fenomeno bel conosciuto in psicologia (vi consiglio la lettura di Robert TRIVERS “La follia degli stolti. La logica dell’inganno e dell’autoinganno nella vita umana”, Einaudi. Torino 2013) e che può avere dimensioni tanto consapevoli quanto inconsapevoli. Beninteso: in una certa misura gli autoinganni sono inevitabili per qualsiasi essere umano: la rimozione a volte è necessaria per superare un trauma emotivo, lo sforzo volontaristico, contro ogni aspettativa razionale, è necessario e qualche volta, la cosa funziona.

Talvolta l’autoinganno è necessario anche a livello sociale: buona parte delle convenzioni (per cui, ad un certo punto, si decide che una cosa non è in un certo modo, ma è “come se lo fosse”) non sono altro che autoinganni più o meno consapevoli che rispondono all’esigenza di risolvere praticamente qualcosa  che non si sa come affrontare diversamente. E spesso funziona.

Ovviamente, quando gli autoinganni diventano troppi e la componente inconscia prevale, il risultato può essere catastrofico. Ed è esattamente quello che sta accadendo con questa crisi economico finanziaria.

Ma, torniamo al nostro caso. Io credo che nella dinamica di Rifondazione ci siano molti meccanismi di autoinganno che si collegano direttamente al sub cultura politica della sinistra comunista.

In primo luogo il riflesso iperdifensivo, che porta a difendere il partito ed il suo gruppo dirigente in qualsiasi occasione, senza mai concedere nulla ad un minimo di riflessione autocritica. Per cui anche gli insuccessi e le sconfitte non insegnano nulla, perché è sempre colpa degli altri: delle trame della Cia, del clientelismo democristiano, dei tradimenti dei socialisti, degli intrighi del Vaticano,  della Mafia, della repressione padronale, della congiunzione astrale e della “sfiga che ci perseguita”. Mai, comunque, da qualche errore o colpa propria. Questo è comprensibile in un partito che ha passato 20 anni nella clandestinità e poi altri 30 nella ghettizzazione politica e ciò può aver avuto anche una sua ragion d’essere (sempre più debole nel tempo, però) in quel cinquantennio; ma ad un certo punto, quando quelle esigenze straordinarie di autodifesa non  ci sono più, bisogna saper smettere i panni del clandestino che si difende dal mondo e saper guardare a sé stessi con un minimo di obiettività.

Ma, il militante comunista (ed il discorso vale anche per i signori del Pd che comunisti non sono più, ma del Pci hanno mantenuto l’eredità peggiore) ha imparato la cattiva arte del medico pietoso ed è incapace di guardare in faccia la realtà.

E fra le cose che il militante comunista non “vede” c’è quanto sia fuori tempo il modello di partito che si porta dietro. Da questo punto di vista, il modello di Rifondazione è una sorta di sedimentazione alluvionale, che ha conservato frammenti di Dna di tutta la sua storia precedente: al modello del partito di “rivoluzionari di professione” leninista si sommò, poi, il partito di massa togliattiano, che mediava con il precedente modello socialista, poi è venuto il “centralismo democratico illuminato” di Berlinguer e del suo partito interclassista, poi la decomposizione degli anni ottanta, che sfociava nella fine del centralismo e nell’adozione del partito di correnti, sul quale, nel tempo ha finito per sedimentarsi una prassi di tipo clientelare socialdemocratico-tanassiana.

Il risultato è un intruglio mal riuscito che conserva l’autoritarismo del Pci ma non il senso dei rapporti di massa, un sostrato strumentalmente populista ma non la capacità di studio ed elaborazione del gruppo dirigente, il burocratismo ma non l’efficienza organizzativa. E aggiunge il peggio di tutte le altre tradizioni.

A questo si sono aggiunti i disastri prodotti dal maggior responsabile dell’infelice parabola di Rifondazione: Fausto Bertinotti. L’altro è stato Armando Cossutta, mentre Ferrero è solo stato solo l’ultimo epigono, che ha degnamente concluso l’inglorioso tratto discendente. Ma il responsabile massimo è stato Bertinotti, durante la cui lunghissima segreteria si è affermato un inedito modello di “partito comunista a conduzione leaderistica”. Certo, nei partiti comunisti c’è sempre stato un detestabile culto della personalità, ma, a parte il fatto che si trattava di personaggi la cui statura qualche ragione a quel culto la davano, bisogna dire che  sia la “pesantezza” dell’apparato, sia il costume politico, sia la vivace militanza della base costituivano un contrappeso, per il quale, il partito non era mai ridotto a puro comitato elettorale di supporto al capo.

Invece, con Bertinotti la militanza di base fu mortificata ed estinta, l’apparato venne sostituito da una nauseante corte di yesmen, il dibattito politico sostituito dal coro di lodi al capo che, quando insorgeva un dissenso, non esitava ad indicare la porta (Grillo non è stato il primo), il rapporto con gli intellettuali di area ridotto a occasionali e grottesche liturgie, la produzione culturale azzerata e la formazione politica dei giovani rasa al suolo. Il grande segretario ha incassato cinque scissioni (di cui un paio con mezzo gruppo parlamentare) senza battere ciglio. “Fausto il rosso” aveva la frase robusta ed efficace che però non dice nulla: egli non elaborava linea politica, più semplicemente, arringava le folle… però devo ammettere che le giacche di tweed sapeva sceglierle.

Quello che è venuto dopo è stato solo il frutto di quegli anni di occasioni perdute. Ed al momento del bisogno, Rifondazione si è trovata senza nessun ricambio perché quel modello di partito impediva fisiologicamente che potesse nascere un gruppo dirigente di ricambio.

In un partito del genere “non è mai il momento per discutere”: quando le cose vanno bene, perché vanno bene e ”squadra che vince non si cambia”, quando vanno male “perché ora pensiamo a salvare il partito”. Una rettifica di linea? Si vedrà dopo (quando?). Diciamolo: i comunisti sono stati tristemente abituati a non amare le discussioni nelle quali vedono solo il seme malefico delle scissioni. E non capiscono che sono proprio le discussioni negate a mettere le premesse delle scissioni.

Poi, paradossalmente, sono gli stessi insuccessi a rafforzare le leadership sconfitte, perché, i militanti più critici sono quelli che vanno via, mentre quelli che restano hanno una reazione di cieco patriottismo di partito che peggiora tragicamente le cose.

E a chi pone dubbi la risposta ottusa è: “sei un nemico” o, magari “Perché non prendi la tessera di Fi?”. Come ha dimostrato per l’ennesima volta un interventore che mi ha accusato di “chiudere un occhio sul Pd” (sic!) e di astio verso Rifondazione.

Nessun astio: questo non è un atto di ostilità, è solo il referto sine ira ac studio di una autopsia.