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La decrescita necessaria

di Alessandro Bedini - 29/12/2013

Fonte: totalita


Il mito post-capitalista che nace dalla Francia e che trova espressione nel libro di Giuseppe Giaccio


La decrescita necessaria

La copertina del libro

“Io non sfrutto la terra, io la onoro”, è un personaggio di Racconto d’autunno di Erich Rhomer a parlare in uno dei film che il celebre regista ha dedicato al ciclo delle stagioni. E’ questa una delle affermazioni che aprono il bel libro di Giuseppe Giaccio dal titolo: La descrescita. Un mito post-capitalista (Diana edizioni, Frattamaggiore, 2013 pp. 158, euro 12,00).

 

Rimettere in discussione il modello di sviluppo che il capitalismo ha reso dominante, ossia quello basato sullo sfruttamento delle risorse, comprese quelle umane, che la natura mette a disposizione dell’uomo è il tema dominante del lavoro di Giaccio. E’ dunque possibile immaginare una società della sobrietà? E’ lecito prospettare l’ipotesi di una fuoruscita “controllata” dal consumismo a trecentosessanta gradi che esaurisce le risorse naturali, ammorba le menti e gli animi, alla fine peggiora terribilmente la qualità della vita?

Ebbene la risposta a queste domande viene giustappunto dall’analisi di quella corrente di pensiero che va sotto il nome di décroissance, visto che proprio in Francia ha visto la luce. Uno dei suoi protagonisti, Serge Latouche, spiega in poche parole di cosa si tratta: “ la principale preoccupazione di quanti criticano la megamacchina dello sviluppo non deve essere quella di istituire una relazione migliore e più equa tra il capitalismo e l’economia, bensì di uscire dall’uno e dall’altra – come sottolinea opportunamente Giaccio”.

 In sintesi Le culture sviluppiste, di destra e di sinistra, non fanno che provocare catastrofi di ogni genere, oltre a rendere incerto il futuro delle generazioni che verranno; il tutto in funzione del paradigma del benessere inteso esclusivamente quale accumulo di beni materiali. La decrescita non è quindi soltanto un filone critico relativo ad un determinato modello economico, si può dire sia invece una visione del mondo, un modo diverso di mettersi in rapporto con tutto quello che ci circonda, una visione che in altri scrittori, Alain De Benoist, Alain Caillè e altri, tanto per fare qualche nome, fa perno sul tema del comunitarismo di contro all’individualismo liberal-liberista e soprattutto all’edonismo che, specie nell’Occidente opulento, trova il miglior brodo di coltura.

Il dominio finanziario è una delle forme in cui si incarna il totalitarismo morbido, quello che si alimenta attraverso i mezzi d’informazione, i modelli da imitare, per la maggior parte di stretta osservanza statunitense, in una parola “l’idolatria del profitto-è ancora l’autore a parlare” che distrugge l’ambiente, dilata a dismisura la demonia della tecnica e impoverisce il pianeta. Decrescere è dunque positivo, non solo economicamente, significa infatti riscoprire il valore della sobrietà, del vivere senza l’ossessione di accumulare, del riscoprire il piacere delle piccole/grandi cose che la natura ogni giorno ci regala.

 Di contro all’hobbesiano homo homini lupus i fautori della decrescita pongono al centro l’agostiniana civitas, fondata sulla condivisione di valori, sul godere comunitariamente dell’agape che ci viene offerta.

 La crisi che stiamo vivendo viene analizzata da Giaccio come opportunità per cambiare finalmente rotta, per invertire la tendenza verso un mondo sempre più ricco materialmente e sempre più povero spiritualmente. Per dirla con un celebre scrittore francese, che critica l’ipocrisia del cosiddetto sviluppo sostenibile, il modello oggi dominante può essere paragonato a un treno che marcia veloce verso un burrone. Rallentarne la corsa non serve a niente, se non a ritardare il disastro. Per salvarsi occorre invece “semplicemente” d’invertire la direzione di marcia.