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L’occhio conosce e l’orecchio ubbidisce

di Umberto Curi - 29/12/2013




La superiorità della vista, rispetto a ogni altra esperienza originata dai sensi, è un tratto caratteristico della cultura occidentale. Ne troviamo traccia già sul piano linguistico, nelle differenze riscontrabili fra il modo col quale viene designata l’attività del vedere, rispetto ai significati connessi con l’udito o il tatto, l’olfatto o il gusto. Nel mondo greco classico il privilegiare la vista risulta dalla sostanziale identità fra i termini che designano forme e contenuti del vedere e del conoscere. Idea — ciò a cui si riferisce l’atto dell’idein , del vedere — indica anche il fulcro dell’attività conoscitiva. Lo stesso dicasi per altre espressioni, a cominciare da theoria (e dunque visione ), che designa il modo in cui le idee si organizzano. Anche nelle lingue moderne ciò che è pertinente alla visione diventa ben presto requisito della conoscenza. Così è per termini italiani come «chiarezza», «perspicuità», «e-videnza», o per coppie oppositive come «brillante-oscuro», o per metafore come «panoramica» o «illuminazione», in cui vedere e conoscere tendono a coincidere. Qualcosa di simile è riscontrabile per termini inglesi come sharp , brightness o clear-headed . Per non dire del tedesco Weltanschauung , il cui significato letterale («visione del mondo») rinvia al lessico visivo. In sede filosofica, la costellazione che unisce visione , pensiero e verità assume già in Platone i contorni tipici della nostra tradizione, e trova poi conferma nella dichiarazione con cui si apre la Metafisica di Aristotele («Per natura, tutti gli uomini desiderano eidenai », e cioè «vedere-conoscere»), nella concezione cartesiana dell’«evidenza», come criterio per stabilire la verità di un asserto, per giungere fino alla Wesenschau , alla «visione delle essenze», di cui parla Husserl. Quanto detto finora vale per la matrice greco-latina della tradizione occidentale. Diverso il discorso se riferito alla componente giudaico-cristiana, in cui è privilegiato l’ascolto, sicché l’organo sensoriale più importante è l’orecchio (in particolare, l’«orecchio circonciso», di cui si parla in Esodo 6, 12 o in Geremia , 6, 10), assai più dell’occhio. La conferma si coglie nella svalutazione della vista, accennata nella profezia di Ezechiele, e poi ripresa nella condanna cristiana della concupiscentia oculorum , dalla prima epistola di Giovanni fino alle Confessioni di Agostino. Arduo, se non impossibile, sarebbe individuare i motivi dell’asimmetria fra vista e udito. Un abbozzo di (parziale) spiegazione si potrebbe desumere da un approfondimento dei termini che indicano l’ascolto. In greco e in latino, i verbi con cui si allude all’udito sono gli stessi mediante i quali ci si riferisce all’obbedienza: yp-akouein e ob-audire , cioè «obbedire», si formano rafforzando il significato di un verbo che significa «udire». «Disporsi all’ascolto» e «obbedire» tendono a coincidere. Per converso, la disobbedienza è indicata da espressioni che implicano il rifiuto di «prestare orecchio». Modello dell’ascolto-obbedienza è il Cristo, il quale, per disporsi a ricevere la parola del Padre, ekenosen , «fece il vuoto in se stesso», tanto quanto icona del rifiuto di ascoltare è invece Antigone, indisponibile a parakouein , a udire-obbedire lo spietato proclama di Creonte. Ben diverso il significato insito nel vedere. Alla «sottomissione» implicita nell’udito, si contrappone un atteggiamento attivo, che tende a costituirsi come paradigma dell’attività che qualifica peculiarmente la condizione umana.