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L’anti-teologia demoniaca di Spengler spinge l’uomo nel vicolo cieco della disperazione

di Francesco Lamendola - 08/01/2014




 

La filosofia della storia di Oswald Spengler, che ebbe una improvvisa e travolgente fortuna – sia pure molto contrastata negli ambienti accademici – durante e subito dopo la prima guerra mondiale, per poi venire pressoché dimenticata dopo la seconda, sta conoscendo, da alcuni decenni, una lenta ma graduale ripresa.

Come certi fiumi carsici, che spariscono inaspettatamente fra le rocce e poi riaffiorano, a distanza di molti chilometri, dalle profondità della terra, in modo così inusitato che non è facile, sulle prime, capire che si tratta del medesimo corso d’acqua, così le idee di Spengler sulla natura “organica” e auto-sufficiente delle civiltà, nonché sullo scarso significato del singolo individuo, assorbito dalla entità ben più significativa che è la specie, tornano a farsi sentire dietro discorsi e posizioni culturali che riflettono lo smarrimento e la confusione dei tempi oscuri che stiamo vivendo, dominati da una angoscia collettiva che ricorda da vicino il clima post-bellico in cui trovò pronta e calorosa accoglienza un’opera atipica come «Der Untergang des Abendlandes».

Per fare solo un esempio (ma se ne potrebbero fare a decine), la filosofia della storia di Spengler è esplicitamente richiamata, e fin dal titolo, nel saggio di Piero Ottone «Il tramonto della nostra civiltà», del 1994; e Piero Ottone, come direttore de «Il Corriere della Sera» e, poi, come commentatore de «La Repubblica», oltre che come saggista a tutto campo, ha esercitato un ruolo non marginale nel dibattito culturale e nella formazione dell’opinione pubblica italiana, fra gli anni Settanta e Novanta del secolo da poco trascorso.

Al nocciolo della concezione spengleriana vi è l’idea che l’uomo non può scegliere affatto il proprio destino, ma non perché esso sia nelle mani di Dio, bensì perché esso è il frutto del caso, o meglio della necessità naturale: Spengler è un Lutero ateo che nega il libero arbitrio e che pone i fatti naturali sul trono di Dio. La natura, a sua volta, non è che il flusso incessante e inesorabile del fenomeno “vita”, fenomeno cieco e chiuso in se stesso: per cui si potrebbe anche dire che Spengler è un Darwin che si allea con Schopenhauer: come Darwin non crede che alla necessità dell’evoluzione, e come Schopenhauer non vede alcun significato nell’attaccamento della vita a se stessa. Come Darwin, inoltre, è una specie di teologo deluso – sappiamo che Darwin studiava per diventare pastore anglicano e che la sua teoria scientifica lo allontanò irrimediabilmente dalla fede in un mondo ordinato secondo un disegno provvidenziale; e ritiene, inoltre, che all’uomo non sia data la facoltà di scegliere se essere questa o quella cosa, ma solo di scegliere fra ciò che realmente può essere e il nulla – così come Schopenhauer preferirebbe che egli scegliesse il nulla, cioè che sopprimesse in se stesso la volontà di vivere, per evadere da quella cosa orribile che è, secondo lui, la vita medesima.

Il mondo della storia, dunque, è il campo d’azione del destino, un destino cieco e irragionevole, che non risponde ad alcun disegno, ad alcuna esigenza morale, ad alcun fine, se non la cieca, insopprimibile manifestazione del fenomeno “vita”: le civiltà sorgono, crescono, culminano e muoiono, una dopo l’altra, senza creare mai nulla che vada al di là di se stesse, nulla che possa dirsi realmente universale: la loro arte, la loro scienza, la loro tecnica, la loro filosofia, la loro religione, tutto è il frutto delle necessità interne di quella determinata civiltà e non è esportabile, non è universalizzabile, se non a prezzo di una corruzione e di una alterazione che ne modifica sostanzialmente i contenuti.

Spengler non ama la macchina, teme anzi la diffusione di essa; però, al tempo stesso, pensa che gli uomini non possano far nulla per arrestarne il dilagare, ma che debbano, semmai, sfruttare al massimo le condizioni date nel presente momento storico, che è il momento della tecnica e delle banche (cfr. il nostro precedente articolo: «Gli ultimi trionfi del denaro e della macchina nella filosofia della storia di Oswald Spengler», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 14/07/2008), perché questo e non altro è dato di fare e un capo energico e deciso deve puntare su tali forze per cercar di ritardare l’inevitabile tramonto della civiltà occidentale, entrata nella fase della “civilizzazione”- caratterizzata da urbanizzazione, gigantismo architettonico, cosmopolitismo e relativismo morale - e dunque ormai in fase di agonia.

La stessa idea di “destino”, così centrale nella riflessione di Spengler, è un’idea piuttosto poetica che filosofica, per la sua estrema indeterminatezza, che consente di piegarla a qualunque significato le si voglia dare; ma a Spengler interessa solo il destino delle civiltà, non quello del singolo individuo. Erede, in questo, della concezione hegeliana, a Spengler interessa l’umanità, ma non gli uomini: invano si cercherebbe nelle pagine fitte delle sue opere, ivi compreso il «Tramonto» (forse un po’ troppo celebrato, ma anche ingiustamente snobbato dai soliti professori accademici), un autentico interessamento alla sorte del singolo essere umano, ai suoi veri bisogni, al suo orizzonte di speranza. Si direbbe che la propensione di Spengler per le scienze naturali (prima di diventare famoso, era stato anche insegnante di scienze e di matematica) abbia rafforzato in lui una tendenza spiccatamente naturalistica, che, unita alla tradizione dell’idealismo di Fichte ed Hegel, lo porta a vedere gli uomini sempre attraverso la lente deformante della specie. Il singolo individuo è poca cosa, per non dire che è niente: quel che conta è la specie; e, nel caso della specie umana, quel che conta è la civiltà di cui l’individuo fa parte.

Spengler è, pertanto, l’anti-Kierkegaard: per il filosofo danese la storia universale non ha senso se non dal punto di vista del singolo soggetto, chiamato a una scelta personale e irrevocabile; per quello tedesco, il soggetto individuale non ha senso né scopo, se non nella prospettiva della storia universale, e le sue scelte sono condizionate in partenza e limitate a quel ristretto margine di autonomia che le circostanze storiche gli concedono o gli negano.

A questo proposito ci sembrano chiarificatrici le riflessioni svolte da Nicola Abbagnano su Spengler e particolarmente sulla sua opera incompiuta «Urfragen», ossia «Questioni fondamentali», che avrebbe dovuto chiarire il significato complessivo di quella, tanto più celebre – e discussa - «Il tramonto dell’Occidente» (da: N. Abbagnano, «La saggezza della filosofia» (Milano, Rusconi, 1987, pp. 24-25):

 

«L’uomo è soggetto senza remissione al destino che domina la storia. La sua volontà non è che l’espressione del destino il quale è incalcolabile e misterioso se può essere non già definito ma solo sperimentato e vissuto. Fuori dell’uomo, nella natura, il destino è ciò che la scienza chiama causalità ed è la necessità ineluttabile che lega i fatti naturali fra loro. All’interno dell’uomo il destino conserva il suo volto imperscrutabile e le interpretazioni di esso sono dettate soltanto dalla paura.  E infatti l’uomo non è che un episodio del destino universale e la sua tragedia volge ora alla fine: la sua sola nobiltà consiste  nel prender coscienza del destino stesso.

Tutte le “questioni” di Spengler sono dominate da questo tema fondamentale. La vita è una forma casuale del “divenire infinito” , quindi un fenomeno transitorio, legato alla storia del nostro pianeta; è un fatto misterioso, alla cui base Spengler crede (con l’antico Eraclito) ci sia la contrapposizione tra il fuoco e il gelo. Essa è come una fiamma che lotta contro il gelo, cioè contro la morte. La direzione della fiamma è il protendersi della vita verso il futuro e il suo movimento è la storia.  Nell’uomo, che è una scintilla della fiamma vitale, il dualismo di fuoco e gelo si presenta come il dualismo di “io” e “mondo” dal quale procedono tutte le altre differenziazioni: sentire e percepire,  anima e corpo, spazio e tempo,  e perfino nobiltà e clero. Ma come prodotto transeunte del divenire universale,  l’io non è una realtà individuale, ma soltanto un esemplare del vero  individuo che è la specie. L’uomo, come esemplare specie, prova terrore della solitudine e aspira alla comunità per sfuggire al terrore. La brama, la tendenza, l’aggressione, costituiscono l’essena dell’individuo i quanto è  parte della fiamma universale della vita. E come fiamma che si spande e distrugge, si abbassa e risorge, la vita non ha scopo e non esiste un “significato dell’umanità”. Gli scopi imposti dalla morale sono soltanto l’espressione  dei costumi dominanti di un gruppo. Al di sopra di questa morale, Spengler pone l’”ethos”, cioè l’etica aristocratica fondata sull’amor proprio. “Nessun popolo, come totalità, ha “ethos”, ma ce l’hanno un esercito,  la nobiltà, una classe, ecc.”

Fantasia, mito e ideologia si intrecciano in questi pensieri di Spengler, che disdegnano l’ordine e il rigore della dimostrazione e si appellano all’intuizione e al gusto. E non varrebbe, forse, la pena di richiamarli se  se essi non avessero trovato, nei decenni trascorsi, una vasta eco tra i sostenitori di un antiumanesimo radicale che è stato ed è alla base  di alcuni indirizzi filosofici e politici. È l’antiumanesimo di teologi delusi che negano l’esistenza di Dio  e dell’uomo solo per porre al loro post sgorbi indecifrabili. Non rinunciano, per la loro mentalità di teologi, ad affermare dogmaticamente una realtà ultima  e un principio spremo; ma come realtà ultima considerano  il disordine invece dell’ordine, come principio supremo  il destino invece della provvidenza divina. Spengler è forse l primo rappresentante di questa antiteologia che vuol essere una teologia diabolica o tragica, ma è soltanto lo sbocco di una delusione  o di una ideologia camuffata. L’ispirazione di Spengler  era l’ideologia della razza o della  classe dominante. L’ideologia dei suoi seguaci, che si sono dati molto da fare (per nulla) nei decenni appena trascorsi, è quella della classe inferiore che vuol diventare dominante e crede già di esserlo. Sono ideologie costrette, già dalla loro impostazione, a negare il valore e il significato dell’uomo,  a ritenerlo un prodotto provvisorio della storia o del destino, un prodotto che la storia o il destino stesso si incaricheranno di spazzare via. Un antiumanesimo siffatto rende impossibile la convivenza umana, fa dell’uomo uno sprazzo utilizzabile per le imprese più sporche autorizza la violenza e la distruzione…»

 

Un altro accostamento ci sembra inevitabile, quello con Machiavelli (e, di riflesso, con Hobbes): per Spengler, l’uomo è afferrato e trascinato da forze infinitamente più potenti di lui, da forze storiche gigantesche e imperscrutabili, che egli chiama “destino”. È una concezione molto simile a quella del segretario fiorentino, solo che si metta la Fortuna al posto del Destino; ma, più ottimista di Spengler – o, per parlare più esattamente, un po’ meno pessimista – Machiavelli non arriva a sostenere che all’uomo resta solo la scelta fra essere ciò che i tempi vogliono che sia, e il nulla: pensa, invece, che l’uomo, mediante la Virtù, possa combattere ad armi pari, o quasi, contro la Fortuna, e che, se non la può imbrigliare né modificare, la può, quanto meno, arginare e incanalare, in modo da evitare di esserne travolto.

Cupa, angosciante, disperata è la visione spengleriana del mondo e della condizione umana: è, in effetti, molto simile a quella di un teologo deluso – e, in questo, somiglia a quella dei marxisti delusi, purché si riconosca la natura essenzialmente teologica (certo, di una teologia rovesciata) del pensiero di Marx, un ateo che non rinuncia all’Assoluto, ma che pretende di trascinarlo giù dal Cielo sulla terra, per costruire quaggiù il suo Paradiso della società comunista, senza classi e senza sfruttamento. Assai meno lucido di Spengler, però, Marx non coglie affatto le potenzialità minacciose e distruttive della macchina: vede solo la sua supposta funzione liberatrice, purché la macchina venga a trovarsi nelle mani “giuste”: quelle del lavoratore e non quelle dell’avido capitalista. Spengler coglie perfettamente la natura “faustiana” (l’espressione è sua) del patto fra l’uomo e la macchina, ovvero la natura diabolica di una tecnica che si trasforma da mezzo a fine; ma la coglie per le ragioni sbagliate, ossia perché teme che le razze “di colore” se ne servano per combattere la razza bianca, strappandole la supremazia mondiale. Un punto di vista, quest’ultimo, molto simile a quello dello storico americano Theodore Lothrop Stoddard, che metteva in guardia l’Occidente contro una “invasione” delle razze indigene, un po’ come era accaduto nell’Impero Romano al tempo delle invasioni barbariche: e sappiamo che Spengler aveva letto Stoddard e che se ne era servito per illustrare alcuni punti della sua teoria “antimoderna”.

Secondo Spengler (e, implicitamente, secondo Stoddard), la modernità rappresenta una minaccia per la civiltà occidentale, perché mette a disposizione dei suoi potenziali nemici i mezzi tecnici con i quali attaccarla e, forse, distruggerla. In fondo, è lo sviluppo – visto dal’altra parte della barricata – della teoria marxista della “inevitabilità” della vittoria del proletariato sulla borghesia: vittoria che proprio i temporanei successi della borghesia renderanno inevitabile, forgiando inconsapevolmente le armi di cui il proletariato si servirà per ribellarsi ed emanciparsi.

Una filosofia della paura, quindi; la concezione storica di Spengler oscilla fra il pessimismo e la paura: pessimismo sul destino dell’uomo, paura per il destino di quella particolare umanità che è rappresentata dalla civiltà occidentale.

E come potrebbe essere diversamente, se la filosofia di Spengler non è che una teologia rovesciata, e perciò demoniaca: con il Destino al posto di Dio e con il vitalismo, la brama e l’aggressione (sembra il Manifesto del Futurismo!) al posto di un equilibrio armonioso fra l’uomo e Dio, fra l’uomo e i suoi simili e dell’uomo con se stesso?