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Il cristianesimo attuale è una religione diversa da quella nata in Giudea venti secoli fa?

di Francesco Lamendola - 12/01/2014


 


 

Se le civiltà, come pensava Oswald Spengler, sono “organismi” viventi, autonomi e autosufficienti, che creano al proprio interno una religione e una visione del mondo, un’arte e una scienza, allora non esistono religioni “universali”, perché ogni religione è il prodotto di una certa civiltà; e se, per caso, una civiltà riceve la propria religione da un’altra civiltà, la adotta, la fa propria, allora quella religione non è più la stessa cosa che era prima, diventa una cosa nuova e diversa: diventa una nuova espressione della civiltà che l’ha accolta nel suo seno e che si è identificata con essa.

Questa lettura del fenomeno rappresentato dalle civiltà porta alla conclusione che il cristianesimo, quale noi lo conosciamo e lo viviamo, non può essere la stessa cosa di quello che nacque in Palestina duemila anni fa e che crebbe e si diffuse nell’antico Impero romano: non tanto perché una così lunga durata implica necessariamente dei cambiamenti, ma perché la civiltà cui apparteniamo, la civiltà occidentale moderna, è una cosa completamente diversa dalla civiltà in cui il cristianesimo nacque e si diffuse, ossia la civiltà siriaca della tarda antichità.

La civiltà occidentale moderna nasce con i Franchi, con l’impero carolingio e con il feudalesimo; quella siriaca si conclude all’indomani della grande espansione araba nel Medio oriente, nel bacino del Mediterraneo e nell’Asia centrale; la prima eredita la tradizione greco-romana, fondendola con le culture germaniche; la seconda eredita la tradizione ellenistica e alessandrina. La prima fa proprio il cristianesimo, dopo averlo ricevuto da un’altra civiltà: il significato che gli attribuisce, il modo in cui lo vive, la prospettiva di cui lo investe, sono dieresi da quelli originari. Semmai, solo il cristianesimo orientale, greco-ortodosso, conserva la continuità con il cristianesimo originario: perché esso non ne è che una derivazione, così come un’altra derivazione ne è l’islamismo. Dunque, islamismo e cristianesimo ortodosso sono più simili fra loro di quanto lo siano il cristianesimo ortodosso e quello occidentale, nelle due confessioni cattolica e protestante.

Tutto ciò può sembrare paradossale, ma è quanto si ricava, necessariamente, qualora si accettino le premesse generali formulate da Spengler: che ogni civiltà è un momento a sé stante dell’evoluzione umana; che le civiltà non hanno autentici scambi reciproci, ma solo imitazioni e somiglianze esteriori; che il motore della storia umana sono le civiltà e non le economie, le culture, le società, le religioni. Perciò, prima di accettare o di rifiutare quanto sopra, bisogna decidere se le premesse siano giuste, o, quanto meno, se siano verosimili: se lo sono, non ci si può rifiutare di accoglierne le logiche conseguenze; se non lo sono, anche le conseguenze sono sbagliate.

Uno di coloro i quali hanno ripreso, in maniera alquanto rigida, le idee di Spengler, è stato Piero Ottone; riportiamo i passaggi salienti del suo ragionamento a proposito del cristianesimo (da: P. Ottone, «Il tramonto della nostra civiltà» (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1994, pp. 83; 86; 89-90; 92):

 

«Sorge duemila anni or sono una nuova civiltà, con l’epicentro in Palestina, e si dà una religione: la religione cristiana. Sorge mille anni più tardi una nuova civiltà, totalmente diversa, quella occidentale, e si dà un’altra religione: che sembra la stessa, perché è cristiana di nome, ma la somiglianza è del tutto apparente. In realtà si tratta di due religioni diverse. […]

[Bisogna comprendere che] la figura di Gesù, e la religione che da lui ha origine, appartengono a una civiltà diversa dalla nostra, ben definita e circoscritta. Mi sembra che la collocazione storica, così inquadrata, renda comprensibili quegli eventi che altrimenti ci sembrano inspiegabili, o miracolosi. Il cristianesimo di allora appartiene a un ciclo diverso, riguarda popolazioni diverse, ha un significato diverso dal nostro cristianesimo, che appartiene a un altro ciclo e riguarda altre popolazioni., su altri territori. La continuità attraverso venti secoli appare inspiegabile; ma non c’è continuità, e quindi non c’è da spiegare nessun miracolo. Ogni civiltà è autonoma e autosufficiente; la trasmissione di segni e simboli dall’una all’altra, quando avviene, è un eventi esteriore. […]

I credenti non hanno bisogno di spiegare a sé o agli altri perché proprio in quel momento, a partire da quello che sarebbe poi stato l’anno Zero, non prima e non dopo, Dio decise di mandare il figlio in terra, e nacque la nuova religione. Agli occhi dello storico, il fenomeno esige tuttavia  spiegazioni, e le spiegazioni si trovano facilmente nelle circostanze che accompagnano la nascita e la vita di Gesù. La comunità ebraica di cui egli faceva parte era ben distinta […] dalla società ellenistica che la circondava; una società che viveva lo splendido declino della civiltà greca, progredita e decadente, lussuosa, edonistica.

C’era invece, fra quella gente semplice, tensione e fermento, il fermento dell’attesa. Tutti si attendevano che succedesse qualche cosa. Le sacre scritture lo avevano preannunciato; i predicatori, come Giovanni il Precursore, lo ripetevano; la gente lo credeva. Era quello uno dei momenti storici in cui tutti si attendono che succeda qualche cosa, e alla fine è inevitabile che qualche cosa succeda. Gli uomini che governavano la regione (i romani, ormai, invece dei greci), i mercanti, i proprietari che appartenevano ala classe dominante, assistevano con fastidio alle irrequietudini che percorrevano i villaggi, senza caprine il significato.

Gesù diventò il fulcro di quei misteriosi fermenti. Quando cominciò a predicare, all’età di trent’anni, nessuno sapeva chi fosse: era un uomo come tanti altri. La predicazione durò soltanto tre anni; poi venne il sacrificio. Come mai la sua vicenda, in apparenza circoscritta a qualche villaggio, acquistò nel giro di pochi anni tanta importanza? Come mai la sua predicazione, così breve, fondò una religione che si diffuse non solo in Palestina, ma in Italia e nei territori dell’impero? Ancora una volta, il credente risponde con calma serenità che così volle l’Onnipotente che sta nei cieli. Lo storico indica invece, per spiegare la diffusione del cristianesimo oltre i confini in cui nacque, due grandi personaggi: Marco e Paolo. A Marco si deve il vangelo che meglio enuncia i principi della predicazione cristiana. A Paolo la sua diffusione.

Il merito storico di Paolo è di avere diffuso il cristianesimo fra i gentili, cioè al di fuori della comunità in cui nacque. È probabile che la società romana, essendo ormai concluso il suo ciclo ed esaurita la sua capacità creativa, fosse pronta ad accogliere riti e fedi provenienti dall’Oriente, estranei alla sua natura e alla sua tradizione. Ma il cristianesimo, se è valida la nostra chiave di interpretazione, rimane l’espressione culturale di una civiltà diversa da quella greco-romana. I suoi principi fondamentali, il peccato originale, l’incarnazione del figlio di Dio, la redenzione,m rimangono estranei a Roma; ispireranno invece un ciclo millenario che proprio allora sta per aprirsi, quello della civiltà magica o siriaca, secondo la definizione che si sceglie. […]

Anche la civiltà occidentale, la nostra, è cristiana. Ha ereditato l’insegnamento cristiano; riconosce in Gesù il figlio di Dio; crede nella risurrezione; accetta  la Bibbia e i Vangeli, il Vecchio e il Nuovo Testamento. Ma se lì’impostazione fin qui esposta è vera, dobbiamo assuefarci all’idea che il nostro cristianesimo  nell’essenza una religione diversa da quella che fiorì nel primo millennio, e che appartiene a un’altra civiltà. La storia del cristianesimo deve essere divisa pertanto  in due parti, in due segmenti: quello orientale e quello occidentale.  E la distinzione fra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa acquista un nuovo significato. »

 

Proviamo qui a spiegare perché ci sembra che siano sbagliate tanto le premesse, quanto le conclusioni. Nel farlo, ci limiteremmo agli aspetti generali della riflessione storico-filosofica, senza entrare nel merito delle singole affermazioni di Ottone riguardo al processo storico in se stesso. Su questo aspetto, infatti, ci sarebbero molte cose da dire: per esempio, che la definizione di “siriaca” (o “magica”, o “araba”) per la civiltà semita mediorientale è arbitraria, e mette insieme cose essenzialmente diverse; e che, in particolare, il cuore di essa non è stato la Palestina, né il popolo ebreo, ma la Siro-Fenicia, con la sua popolazione mista; inoltre, che la presenza dei Greci eredi dell’impero di Alessandro, con l’ellenismo, non è stata un fatto puramente esteriore, che ha modellato quella civiltà senza fondersi con essa (Spengler parla, con espressione tratta dalle scienze della terra, di “pseudomorfosi”): senza quell’elemento, infatti, la religione cristiana sarebbe rimasta limitata all’ambito ebreo-palestinese e, con tutta probabilità, si sarebbe estinta nel giro di poche generazioni.

Dunque: che le civiltà umane siano assimilabili, in tutto e per tutto, a degli organismi viventi, è una ipotesi affascinante, ma non dimostrabile: possiede un potere di suggestione poetica, non una valenza storico-filosofica. Certo, noi possiamo constatare, di fatto, la parabola di numerose civiltà, dal loro fiorire al loro tramontare ed estinguersi: l’egizia, la sumera, la persiana, l’azteca, la maya, eccetera: ma nulla ci autorizza a paragonarle a degli organismi viventi, se non l’equivoco originato da una serie di metafore linguistiche. Così, per esempio, noi diciamo che “è sorto un palazzo”, o che “si è estinta” una lingua: ma la verità è che il palazzo è stato eretto dalle mani degli esseri umani e che si sono estinti quegli esseri umani i quali parlavano una determinata lingua. Paragonare una civiltà a un super-organismo, come lo sciame delle api o l’insieme del formicaio, è un azzardo. L’obiezione più evidente che si può fare alla teoria della civiltà-formicaio è che le formiche agiscono in maniera uniforme e sincronizzata, gli esseri umani invece agiscono in maniera originale e imprevedibile, almeno fino a un certo punto.

Comunque, se anche la teoria organicista delle civiltà avesse una base effettiva, resterebbe da spiegare perché mai solo le civiltà possiederebbero una intrinseca vitalità, e non le creazioni culturali che in esse si manifestano. Prendiamo il caso di una religione. Per Spengler, la religione è il frutto di una civiltà: quando la civiltà esaurisce il suo ciclo vitale, anche la religione si indebolisce, annaspa, si estingue. Può venire trasmessa ad una’altra, diversa civiltà: ma, in tal caso, diventerà un’altra cosa, conservando con ciò che era la “vecchia” religione una somiglianza puramente esteriore. Ma questo è un assioma stabilito a priori, come quelli della geometria, per poter poi sorreggere tutta la struttura dei teoremi e dei corollari che ne discendono.

Che cosa ci vieta di pensare che una religione, al contrario, proprio in quanto creazione volontaria dello spirito (per restare sul terreno di Spengler e lasciando da parte, in questa sede, il discorso sull’origine soprannaturale della religione cristiana), non sia anche più vitale della civiltà in  cui è nata, ma di cui non è, per forza di cose, l’espressione “necessaria”? Se ogni civiltà esprimesse una sola religione (ma ve ne sono state, storicamente, anche più di una), che rapporto ci sarebbe fra il buddismo e la civiltà indiana, nella quale è nato e dalla quale è stato espulso? Anche il cristianesimo è nato in Palestina, ma ne è stato espulso e ha attecchito in un ambito completamente diverso: quello greco-romano.

Se una religione è un fenomeno vitale originario, allora non deve la sua sopravvivenza al legame con la civiltà che le ha fatto da culla, ma può benissimo continuare il suo ciclo vitale nell’ambito di un’altra, o di altre civiltà: e rimanere sempre la stessa – fermo restando che, nello scorrere di un lungo arco di tempo, nulla di umano rimane mai perfettamente uguale a se stesso. Dire che il cristianesimo ortodosso è più vicino all’islamismo (perché figlio di una stessa civiltà), di quanto non lo sia al cattolicesimo, è una palese forzatura: una affermazione, cioè, che contiene qualche elemento di verità, ma che lo spinge oltre i limiti del ragionevole, al solo scopo di uniformarsi ai dettami  d’una formula prestabilita.

Il cristianesimo delle origini risulta dalla fusione di due elementi diversi, quello giudaico e quello ellenistico; il mondo romano lo ha accolto e ulteriormente diffuso: ma il mondo romano non era che l’ultima manifestazione di quella civiltà greco-romana al cui margine visse il popolo ebreo - che non era parte, come invece afferma Spengler, di una “giovane” civiltà siriaca, poiché esso aveva almeno tredici secoli di storia quando Gesù visse e predicò il suo Vangelo. Al contrario, il cristianesimo nacque come il giovane virgulto su di un tronco vetusto: la religione mosaica. Ecco dunque che sono le religioni a sopravvivere e a scavalcare le civiltà e i popoli e non il contrario, non le civiltà che “creano” le loro religioni. Perciò la bi-millenaria sopravvivenza del cristianesimo potrà apparire “miracolosa”, ma non è contro la logica, né contro la storia: essa è dovuta alla forza intrinseca del suo messaggio, all’eterna speranza che accende nei cuori la sua Buona Novella…