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Non esperiamo la realtà oggettiva, ma una creazione della nostra mente

di Francesco Lamendola - 14/01/2014


Gesù cammina sulle acque


 

È possibile vedere, udire, odorare, esperire qualcosa che non esiste nella realtà oggettiva, ma che è unicamente il frutto della nostra mente?

È possibile vedere cose che non ci sono, udire cose che non esistono, odorare profumi che paiono scaturiti da un misterioso altrove; insomma: è possibile, ed è razionalmente ammissibile, fare esperienza di immagini, suoni, odori, relativi a oggetti che non sono presenti, che non esistono se non nella coscienza dell’io soggettivo, ma che restano invisibili e sconosciuti agli altri?

Sappiamo che casi del genere si verificano, e anche abbastanza frequentemente; e sappiamo che sono stati descritti non solo da persone assolutamente comuni, ma anche da eminenti studiosi: filosofi, psicologi, scienziati; per non parlare delle persone dotate di facoltà super-normali e di uomini e donne mistici, che ne hanno fatto esperienza abbastanza spesso o che ne sono stati gli artefici, rivelandoli ad altre persone, magari lontane nel tempo e nello spazio.

Sappiamo, ad esempio, di un giardino fiorito in pieno inverno, in presenza di San Giovanni Bosco; e sappiamo di una rosa fiorita, sempre in inverno, per opera di Santa Rita da Cascia; sappiamo del profumo di violette che si faceva sentire ai fedeli di San Pio da Pietrelcina; e siamo a conoscenza di parecchi altri casi del genere. Santa Giovanna D’Arco udiva le “voci”: ma nessun altro le udiva. Da dove venivano? Secondo i suoi giudici, a Rouen, venivano dal demonio: e tale argomento fu rivolto contro lei, contribuendo alla sua condanna per stregoneria.

Ma sappiamo anche di persone comuni che hanno visto case, giardini, quartieri, villaggi, rivelatisi poi inesistenti: le cronache del paranormale ne sono addirittura piene. Sappiamo anche di avvistamenti di oggetti volanti non identificati, e perfino di creature aliene, da parte di uomini e di donne “normali”, i quali, talvolta in preda a un autentico terrore, ne hanno fatto dei drammatici racconti, ma il più delle volte senza essere creduti.

Ora, la domanda che ci poniamo non è se possano darsi delle realtà oggettive che solo alcuni esseri umani, in particolari circostanze, sono in grado di percepire: domanda alla quale la risposta non può essere che affermativa, se non altro per analogia con quanto osservato in presenza di animali che vedono, odono, odorano cose che gli umani non percepiscono affatto, ma che poi si rivelano perfettamente vere. Il cane di un nostro amico salta giù dalla sedia (dalla quale, peraltro, non si può vedere attraverso le finestre), si agita e scodinzola quando l’automobile di un altro amico si sta ancora avvicinando, giù in strada, e prima che sia giunta davanti alla casa, che si sia fermata, e che l’amico ne sia disceso. Si tratta di una esperienza comunissima, quasi banale per coloro i quali vivono con un animale domestico, specialmente con un cane. Allo steso modo, è noto che gli animali, e non solo quelli domestici, ma anche e soprattutto quelli selvatici, sentono l’avvicinarsi di un terremoto, di una inondazione e di altri simili catastrofi naturali, entrano in agitazione e, se possibile, si allontanano dalla zona pericolosa, o, per lo meno, cercano di guadagnare uno spazio aperto, ove sia più facile mettersi in salvo: e questo molte ore prima che l’evento disastroso si verifichi.

No, la domanda non è questa, ma un’altra: è possibile che le esperienze relative a cose che non ci sono siano da collegarsi non già con il manifestarsi di eventi che solo alcuni esseri viventi percepiscono, ma con una realtà interiore che è propria di ciascuno, e che filtra, per così dire, la realtà esterna, la modifica, la ricrea e, alla fine, la rende percepibile in maniera radicalmente diversa da come era in origine? Andando ancora più in là: è possibile che la realtà in se stessa, la cosa in sé kantiana, sia per noi inconoscibile, del tutto misteriosa, mentre quella che conosciamo e che esperiamo ogni giorno, ogni minuto, è un’altra cosa, ovvero una perenne creazione della nostra mente, della nostra coscienza, la quale, se pure nasce da un “noumeno” a noi precluso, procede poi per vie sue proprie, al punto che è impossibile dire se si tratti di una modificazione della realtà o di una realtà a sé stante, di tante realtà quanti sono gli atti della conoscenza: il vedere, l’udire, l’odorare, eccetera, da parte di tanti soggetti diversi quante sono le creature viventi e quanti sono gli eventi della loro vita psichica?

Ebbene noi riteniamo che non solo ciò sia possibile, ma che sia la condizione normale del nostro rapporto con la cosiddetta realtà esterna: e i casi-limite, come quello narrato da Carl Gustav Jung, mentre egli era in visita ai monumenti tardo-antichi di Ravenna, nel 1934, ci offrono una spiegazione più convincente, perché maggiormente esplicita, della universalità del soggettivismo conoscitivo.

Riportiamo l’esperienza dello psicanalista svizzero, così come egli la racconta nel suo libro «Ricordi, sogni, riflessioni» (titolo originale: «Erinnerungen, Träume, Gedanken von C. G. Jung»; traduzione di Guido Russo  , Milano, Rizzoli, 1978, pp. 338-40):

 

«Già in occasione della mia prima visita a Ravenna, nel 1914, la tomba di Galla Placidia mi era parsa significativa e di un fascino eccezionale. La seconda volta, venti anni dopo, ebbi la stessa impressione.  Ancora una volta, visitandola, mi sentii in uno strano stato d’animo;  di nuovo ne fui profondamente turbato. Mi trovavo con una conoscente,  e dalla tomba andammo direttamente al Battistero degli Ortodossi.

Qui per prima cosa mi colpì la tenue luce azzurrina diffusa, che  però non mi sorprese. Non cercai di capire da dove provenisse, né mi turbava il prodigio di questa luce senza alcuna sorgente apparente. Ero piuttosto sorpreso perché al posto delle finestre che ricordavo di aver visto nella mia prima visita, vi erano ora quattro grandi mosaici di incredibile bellezza, che a quanto pare avevo completamente dimenticati. Mi irritava scoprire che non mi potevo fidare della mia memoria. Il mosaico del lato sud rappresentava il battesimo nel Giordano; il secondo a nord era il passaggio dei figli d’Israele attraverso il Mar Rosso, il terzo a est, subito mi svanì dalla memoria. Forse rappresentava Naaman purificato dalla lebbra nel Giordano: c’era una illustrazione su questo stesso soggetto nella mia vecchia “Merianische Bidel”, molto somigliante al mosaico. Il quarto mosaico, sul lato occidentale del battistero, era il più efficace. Lo guardammo per ultimo. Rappresentava Cristo che tendeva la mano a Pietro, mentre questi stava per affogare nelle onde. Sostammo di fronte a questo mosaico per circa venti minuti, e discutemmo del rituale originario del battesimo, e specialmente dell’arcaica e strana concezione di esso come un’iniziazione connessa a un reale pericolo di morte. Iniziazioni di questo genere erano spesso legate all’idea che la vita fosse in pericolo, e così servivano a esprimere l’idea archetipa della morte e della rinascita. Il battesimo originariamente era stato una vera immersione, che appunto alludeva al pericolo di annegare.

Ho conservato un chiarissimo ricordo del mosaico di Pietro che affoga, e ancora oggi posso vederne ogni dettaglio: l’azzurro del mare, le singole tessere del mosaico, i cartigli con le parole che escono dalle bocche di Pietro e di Cristo, e che tentai di decifrare. Appena lasciato il battistero mi recai subito da Alinari per comprare le fotografie dei mosaici, ma non potei trovare. Il tempo stringeva – si trattava solo di una breve visita – e così rimandai l’acquisto a più tardi: pensavo di poter ordinare le riproduzioni da Zurigo.

Quando ero di nuovo in patria, chiesi a un mio conoscente che andava a Ravenna  di procurarmi le riproduzioni, Naturalmente non poté trovarle, perché poté constatare che i mosaici che io avevo descritto non esistevano!

Nel frattempo avevo già parlato, in un seminario, della concezione originaria del battesimo, e in tale occasione avevo anche menzionato i mosaici che avevo visto nel Battistero degli Ortodossi. Il ricordo di quelle immagini è per me ancora vivo.  La signora che era stata lì con me lungamente si rifiutò di credere che ciò che “aveva visto con i suoi occhi” non esisteva.

Come si sa, è molto difficile determinare se, e fino a qual punto, due persone vedano contemporaneamente la stessa cosa.  In questo caso, comunque, potei accertarmi che almeno i tratti essenziali di ciò che avevamo visto erano stato gli stessi.»

 

Di questo strano episodio, che lo colpì moltissimo, Jung tenta di dare una spiegazione razionale basata sui meccanismi dell’inconscio. Secondo lui, l’”anima” è una personificazione  dell’inconscio, impregnata di storia e preistoria, e rappresenta tutta la vita del passato che è ancora viva nell’individuo. Nel confronto con la propria “anima”, Jung racconta di essere stato vicino a perdersi, ad annegare, come stava accadendo a San Pietro allorché questi aveva tentato di raggiungere Gesù camminando sulle acque; ma ne era uscito indenne e l’integrazione dei contenuti inconsci lo aveva aiutato a ricostituire l’equilibrio della propria personalità. Egli conclude affermando che non si può descrivere ciò che accade allorché la coscienza si integra con l’inconscio, lo si può solo esperire; e che dopo l‘esperienza di Ravenna, egli si persuase che un fatto interno alla coscienza può apparire esterno ad essa, e viceversa.

A noi sembra una spiegazione tirata per i capelli e molto simile, in tal senso, al metodo freudiano, che è poi quello di razionalizzare ad ogni costo e con qualunque mezzo le esperienze oniriche, alla luce della teoria pansessuale freudiana. Prima di tutto, a fare l’esperienza dei quattro mosaici “inesistenti” non fu il solo Jung, ma lui e un’altra persona: una donna di cui non dice il nome, ma che, ci assicura, vide più o meno le stesse cose che aveva visto e ammirato egli stesso. E basterebbe già questo per far cadere la sua lambiccata spiegazione; a meno di pensare che quella signora abbia vissuto, in maniera del tutto indipendente ma esattamente nello stesso istante, lo stesso tipo di esperienza interiore, basata sull’integrazione dell’inconscio nella coscienza. Dobbiamo pensare a due anime perfettamente identiche, dunque? Ma il processo di integrazione dell’inconscio nella coscienza non è un fatto individuale, storico, legato alle singole e irripetibili esperienze di vita di ciascun essere umano? E, inoltre, come si può immaginare che la personificazione dell’inconscio femminile nell’uomo e la personificazione dell’inconscio maschile nella donna producano esattamente lo stesso effetto,  per di più nello stesso istante?

Tutt’al più, si potrebbe ipotizzare che la compagna di Jung abbia avuto con lui una relazione affettiva così intima e profonda, da captare, per via telepatica, i pensieri e le emozioni di lui, identificandoli erroneamente come propri. Sappiamo che cose del genere accadono, fra persone che sono strettamente legate dal punto di vista emotivo; resta però inevasa la domanda: che cosa Jung vide realmente, nel Battistero Neoniano di Ravenna?

In secondo luogo, Pietro viene salvato dalle acque del Lago di Tiberiade perché chiede aiuto a Cristo, cioè mediante un atto di fede: non si salva da solo; mentre l’operazione descritta da Jung è una operazione volontaria, individuale, personale, una sorta di operazione magica eseguita sulla propria psiche. L’esatto contrario dell’atto di fede di Pietro che sta per annegare. Perché dunque gli occhi di Jung avrebbero percepito, come simbolo dell’integrazione dell’inconscio, un episodio biblico che non ha alcuna attinenza sostanziale con  quanto avvenuto nella sua coscienza; perché il suo inconscio avrebbe scelto un simbolo così poco adatto a rappresentarlo?

L’episodio del faraone d’Egitto travolto dal Mar Rosso e quello del lebbroso Naaman c’entrano ancor meno, eppure Jung li tira in ballo per tentar di spiegare la sua visione; quello del battesimo di Cristo nel Giordano c’entra solo a condizione di condividere le idee di Jung sulle modalità originarie del battesimo. Certo, la validità soggettiva di tali idee può aver dato origine a una identificazione con il battezzando; ma come conciliare tale identificazione con quella di San Pietro che affonda nell’acqua mentre sta cercando raggiungere Gesù che, sull’acqua, cammina e lo invita a raggiungerlo?

Sia come sia, lasciamo a Jung di ritenersi soddisfatto della spiegazione che egli stesso fornisce allo strano episodio di Ravenna e domandiamoci, invece: che cosa vediamo, quando crediamo di vedere? Che cosa udiamo, quando crediamo di udire, e poi constatiamo che avevamo visto e udito cose che non esistono nella “realtà”? Ci sembra che esperienze come quella descritta da Jung, e da tanti altri, si prestino semmai a una chiave di lettura più radicale, più conforme alle teorie di George Berkeley: noi non vediamo e non udiamo le cose che sono “fuori” di noi, ma quelle che sono “dentro” di noi: perché sono TUTTE dentro di noi. Quello che è  fuori, è fuori; e noi non potremmo saperne nulla. Quello che percepiamo, lo percepiamo perché avviene nella nostra mente, viene elaborato dalla nostra coscienza.

Non vogliamo con ciò negare che esista una base oggettiva del nostro conoscere, perché, se così fosse, vivremmo in un perenne manicomio, in cui non esisterebbe alcun dialogo possibile con i nostri simili; e tanto meno che il soggettivismo della conoscenza debba, per forza, portare ad un soggettivismo dei valori (anzi, è vero semmai il contrario: perché da quello, nasce la necessitò di questo). Neghiamo soltanto che tale base determini la nostra esperienza. Quello che sono le cose in se stesse, noi non lo sappiamo e non lo sapremo mai: nessuno possiede la chiave per accedervi; e, se pure tale chiave esiste, è andata perduta da moltissimo tempo.

Eppure c’è una maniera per giungere alla realtà delle cose in se stesse; ma si tratta, appunto, di una via extra-razionale (e sovra-razionale): l’esperienza mistica dell’unione con l’essere. Noi siamo parte dell’essere, e quello che riguarda noi, nasce dall’essere. Il nostro errore è quello di crederci separati, di essere delle realtà indipendenti: ma è un errore della mente. Per superare tale errore, bisogna lasciar andare i meccanismi della mente, le sue certezze, le sue operazioni. Quando ci lasciamo portare dalla corrente dell’essere, le barriere cadono e la realtà ci si presenta quel è veramente: un tutto unico, di cui noi siamo parte. Non ci sono più un prima e un dopo, un tempo e uno spazio, un dentro e un fuori: tutto è contemporaneamente vivo e presente. E non è strano che due persone, intimamente unite dal punto di vista affettivo, possano fare una simile esperienza nello stesso tempo, in circostanze pressoché uguali.

Quello che manca a una simile esperienza è l’atto di fede nella trascendenza, il riconoscimento della propria finitezza: ossia la negazione che, nella nostra dimensione attuale, noi non siano una cosa sola con l’essere, ma delle entità separate; e che solo nella dimensione dell’assoluto noi siano un tutt’uno con l’essere. Questo, però, può rivelarsi a noi solo mediante un atto di umiltà intellettuale, non mediante un atto di superbia: non siamo noi che scopriamo la nostra unità con l’essere, è l’Essere che ce lo rivela, quando si creano le circostanze adatte. E le circostanze sono adatte allorché noi domandiamo aiuto, non allorché noi crediamo di poter fare tutti da soli.

La psicanalisi junghiana è una religiosità senza Dio che pone l’attività della mente al posto della grazia e che sostituisce la fede in Dio con l’orgogliosa ricerca dell’uomo su se stesso. Ma il finito non può penetrare il mistero dell’infinito, il contingente non può contemplare l’assoluto. Solo L’Assoluto si può rivelare a noi, rivelandoci il nostro legame con il Tutto; solo l’Eterno può aiutarci a compiere il salto incommensurabile dalla nostra dimensione alla sua. Da soli, non possiamo fare niente.

È sempre il solito, antico peccato di superbia: la pretesa dell’uomo di trascendere il proprio limite ontologico, di ribellarsi alla propria condizione creaturale, facendosi quasi il dio di se stesso. Tutta la cultura moderna spinge in tale direzione, e le moderne correnti New Age, molte delle quali si rifanno, appunto, a pensatori come Jung (o come Steiner), ne riprendono l’equivoco fondamentale: che l’uomo possa fare di sé il Superuomo, o il semidio, del futuro, capaci di conoscere la Verità e di instaurare il Paradiso in terra.