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Walter Benjamin o l’impossibile redenzione dalla storia mediante la storia stessa

di Francesco Lamendola - 16/01/2014




 

Come è noto, la cosiddetta Scuola di Francoforte (che in realtà non si chiamò mai in questo modo e che non fu mai chiamata così dai suoi membri) nacque nel 1923 intorno all’istituto per la Ricerca Sociale dell’Università Johann Wolfgang Goethe di Francoforte sul Meno, sotto la guida dello storico marxista Karl Grümberg.

Era, in effetti, un impasto di sociologia, marxismo e psicanalisi, ovvero un tentativo di freudizzare il marxismo ed anche di marxistizzare l’umanesimo, accogliendo, nelle sue grandi linee, l’analisi marxista dei processi storici, ma iniettandovi generose iniezioni di psicanalisi e di umanesimo, al fine di dare una maggiore importanza ai fattori spirituali della vita sociale e individuale, di quanto non avvenga nella concezione marxista ortodossa

Però, siccome i membri della Scuola di Francoforte erano quasi tutti ebrei e siccome erano quasi tutti, benché laici o atei dichiarati, profondamente impregnati di spirito giudaico, si trattò anche, invero curiosamente, di un tentativo di giudaizzare il marxismo, ovvero di trasformare la concezione dialettica e materialistica della storia in una concezione giudaizzante, mutuata dalla Torah e dalla tradizione rabbinica, nelle quali i suoi membri non credevano più, ma dalle quali non sapevano liberarsi e all’interno delle quali continuava a ruotare il loro universo spirituale e concettuale.

Starno fenomeno, quello di una filosofia della storia dichiaratamente materialista, per la quale ogni religione non è che oppio dei popoli e una sovrastruttura dei processi economici,  che si tinge in maniera marcata di contenuti rabbinici e talmudici, che si impregna di gnosticismo giudaico, che traspone nel proprio schema storico-dialettico, originariamente mutuato dall’idealismo hegeliano, le categorie giudaiche della rivelazione e della redenzione; il tutto in una chiave misticheggiante ispirata dalla Kabbalah e pervaso dall’idea, tipicamente ebraica, che esiste una parola originaria e misteriosa, dotata di potere salvifico e trascendentale, mediante la quale l’uomo è legato direttamente alla divinità e che, pronunciata, che sia, opera una rottura essenziale nel continuum della storia, aprendovi misteriosamente la dimensione dell’assoluto e dell’eterno.

A dispetto del fatto che sia stata spacciata per qualcosa di molto moderno, di molti razionale e di molto progressista, la Scuola di Francoforte nasce da umori giudaici antichissimi ed è un tentativo, abortivo e fallimentare, di coniugare delle formule e dei quadri di pensiero fra loro assolutamente incompatibili, che ci riportano ad aspetti caratteristici del pensiero talmudico e cabalistico medievalei mescolati con una inquietudine tipicamente moderna e con un’ansia salvifica e soteriologica che richiama la spasmodica attesa di un Messia Redentore, quale si respirava, ad esempio, nell’Impero romano al tempo di Virgilio e di cui è traccia nella famosa quarta ecloga delle sue «Bucoliche».

Dopo l’avvento del nazismo il gruppo si trasferì fuori della Germania e, dopo varie peripezie, finì per approdare negli Stati Uniti, e da lì, a guerra finita, rientrare in patria, fondando un nuovo Istituto per la ricerca sociale; in questa fase le sue figure più note e più rappresentative sono state certamente quelle di Theodor Adorno e di Max Horkheimer. Tuttavia l’esponente più originale e interessante del movimento era stato Walter Benjamin, un ebreo tedesco che, nel 1940, allorché aveva scelto la morte, intrappolato al confine tra Francia e Spagna mentre le truppe tedesche dilagavano vittoriose oltre la Linea Maginot (suicidio che ebbe luogo ventiquattr’ore prima che giungesse la sospirata autorizzazione a varcare la frontiera, nonché quella a espatriare negli Stati Uniti d’America), pochissimi conoscevano in Germania e quasi nessuno al di fuori di essa, e che aveva pubblicato solo una piccola parte della sua vasta opera, che dovette aspettare il 1955 per venire alla luce, a cura di Adorno.

Così ha riassunto la sua figura e il significato della sua opera lo storico e giornalista americano Paul Johnson nella sua «Storia degli Ebrei» (titolo originale: «A History of the Jews», 1987; traduzione dall’inglese di  Eleonora Vita Heger, Milano, Longanesi & C., 1991, pp. 537-39):

 

«Benjamin fu tra i moderni pensatori tedeschi uno dei più intimamente pervasi dallo spirito ebraico, benché non praticasse alcuna religione come tale. Ma, e lo fece notare il suo grande amico, lo storico Gersholm Scholem, il suo pensiero ruotava attorno a due concetti ebraici basilari: la Rivelazione – la verità rivelata attraverso testi sacri e la redenzione. Benjamin cercò sempre una forza messianica. Prima del 1914 fu la giovinezza: egli fu uno dei leader del movimento giovanile radicale,per la maggior parte ebraico, fondato da Gustav Wyneken. Ma quando quest’ultimo abbracciò il patriottismo nel 1914m, Benjamin lo ripudiò e dopo la guerra cercò il suo messia nella letteratura. Certi testi straordinari come la Torah, sosteneva, dovevano essere analizzati in una ricerca esegetica per trovare la chiave della redenzione morale. Applicava alla letteratura uno dei principi centrali della Kabbalah: le parole sono sacre nello stesso modo in cui le parole della Torah sono fisicamente collegate a Dio. In conseguenza del rapporto fra il linguaggio divino  e quello umano, all’uomo è stato affidato il compito di completare la creazione, cosa che egli fa principalmente attraverso le parole (nominando le cose) e formulando le idee. A Benjamin si deve la frase “l’onnipotenza creativa del linguaggio”; egli dimostrò che i testi dovevano essere esplorati per scoprire non soltanto il loro significato superficiale, ma anche il loro significato e la loro struttura impliciti. Benjamin dunque rientrava nella tradizione ebraica irrazionale e gnostica, come lo stesso Marx e Freud, quella che scopre significati segreti e che spiega il significato della vita sotto l’apparenza dell’esistenza.  Ciò che egli cominciò in un primo tempo ad applicare  alla letteratura  e più tardi applicare alla storia, doveva con il tempo diventare una tecnica più generale, impiegata per esempio da Claude Lévi-Strauss in antropologia e da Noam Chomsky in linguistica. Lo gnosticismo  la forma più insidiosa di irrazionalismo, specialmente per gli intellettuali, e la varietà particolare di gnosticismo sviluppata per tentativi da Benjamin, e che pi si espanse nello strutturalismo, si rivelò una forza di grande importanza fra gli intellettuali dag a partire dagli anni Cinquanta.

Benjamin esercitò un’influenza particolare con la sua opera intesa a dimostrare che una classe dominante manipola la storia per perpetuare le proprie necessità, illusioni e inganni. Quando, negli anni Trenta, la scena si fece più cupa, egli cercò il su terzo messia nella propria visione del marxismo. Quello che egli definiva “tempo marxista”, era la sua alternativa al lungo insoddisfacente processo storico della riforma. Era importante, sosteneva, “esplodere” (una delle sue espressioni favorite) dalla continuità della storia, “il passato caricato del tempo-adesso”, e che gli obiettivi dell’illuminismo e della socialdemocrazia prendessero il posto della rivoluzione: il tempo subisce un arresto, lo “Still-stand”, quando l‘evento rivoluzionario, o, in altre parole, l’evento messianico ha luogo. Nelle sue “Tesi di filosofia della storia” Benjamin sostenne che la politica non era soltanto una feroce lotta fisica per dominare il presente, e quindi il futuro, ma una battaglia intellettuale per dominare la registrazione del passato. In una frase potente sostenne che “nemmeno i morti saranno al sicuro dal nemico [fascista] quando egli vincerà”. La maggior parte delle forme di conoscenza erano creazioni relativistiche borghesi e dovevano essere rifuse per garantire una verità proletaria o senza classe. Ciò che vi era di paradossale in queste intuizioni brillanti ma distruttrici era che, mentre Benjamin le considerava come materialismo storico scientifico, esse erano in realtà un prodotto dell’irrazionalità giudaica; la sua era la vecchia stria di come le persone intensamente spirituali, che non riescono più a credere in Dio, trovino ingegnosi surrogati dei dogmi della religione.

Inoltre, nel caso di Benjamin, il rigetto della religione non era affatto completo. Il suo lavoro è pieno di curiose idee sul tempo e sul fato, perfino sul male e sui demoni. Senza una struttura religiosa era perduto, e si sentiva perduto. All’ascesa di Hitler, riparò a Parigi, al Café des Deux Magots, disegnò quello che egli definì un diagramma della sua vita, un labirinto senza speranza, e, caratteristicamente, perse anche quello. Alla fine del 1939 cercò di entrare in Spagna, ma non riuscì a passare il confine franco-spagnolo. Uno dei suoi migliori amici si era già suicidato, come avevano fatto anche Tucholsky e molti altri intellettuali ebrei, e sembra che nella sua fase finale Benjamin abbia considerato il suicidio come una forma di redenzione-attraverso-la morte”, da Messia-Cristo. Comunque sia, si uccise e fu sepolto nel cimitero di Port-Bou, che sovrasta il are. Ma nessuno era presente alla sepoltura, e quando, nel 1940, Hannah Arendt venne a cercarla, la sua tomba era scomparsa e non è mai più stata identificata – un gesto finale e inconscio di alienazione e confusione, un momento simbolico del fatto che gli intellettuali ebrei della nuova era […] erano sperduti e alla deriva in essa come chiunque altro. Ma benché Benjamin sia stato a lungo andare  il più influente di tutti gli innovatori culturali di Weimar, poche persone in Germania avevano, a quel tempo, sentito parlare di lui.»

 

Si può discutere se e in quale misura il pensiero di Walter Benjamin abbia anticipato lo strutturalismo, ma è certo che la sua attesa spasmodica di un nuovo Messia, nonché i suoi tentativi per trovare un senso della storia al di fuori della storia, ma senza mai riuscire a recidere i legami con l’atavico istinto della trascendenza, insito nel giudaismo (e, viceversa, l’incapacità di liberarsi dal giudaismo mediante il marxismo), fanno di Benjamin, più che uno scopritore di nuovi orizzonti, un uomo della crisi, che si dibatte in mezzo al guado e che rimane impigliato in una fitta rete di contraddizioni intellettuali: fra razionalismo e misticismo, fra teoria e prassi, fra senso del tempo e anelito verso l’eterno; l’esponente di un misticismo senza Dio, un po’ come un Nietzsche rovesciato, ma anche – è quasi superfluo sottolinearlo - come un Marx e un Freud che dichiarano la religione essere un inganno e una alienazione, ma restano ancora legati, per mille fili, alle categorie e alla sensibilità proprie del giudaismo dei loro padri.

Benjamin, comunque, fu uomo del suo tempo: respinse la religione come una forma superata ed alienata della vita sociale, ma cercò di sostituirla con un’altra fede religiosa, non meno dogmatica e intransigente: quella comunista; e, come moltissimi uomini del suo tempo, fu particolarmente miope nel vedere il pericolo del totalitarismo che strumentalizza perfino i morti (vale a dire la storia passata) solo dalla parte del nazismo, e niente affatto dalla parte dello stalinismo. Eppure era in quegli anni che il regime sovietico ritoccava, fra le altre cose, la sua stessa storia, ossia la storia della Rivoluzione d’Ottobre, e faceva sparire l’immagine di Trotzkij dalle fotografie che lo ritraevano accanto a Stalin al tempo della scalata al potere di quest’ultimo, dopo la more di Lenin. Più che di miopia, del resto, si dovrebbe parlare di strabismo intellettuale: Benjamin, per niente più acuto della stragrande maggioranza dei suoi contemporanei che videro la salvezza nel Comintern e nell’Unione Sovietica, non colse minimamente la sostanziale analogia fra il totalitarismo sovietico e quello hitleriano; e, a quanto pare, la maschera gli cadde dagli occhi solo nel 1939, alla vigilia della morte (cosa che forse contribuì a determinarla), cioè dopo il patto Molotov-Ribbentrop, con il quale i due regimi si spartivano la Polonia e l’Europa orientale e si accingevano a scatenare la seconda guerra mondiale.

Il marxismo, per Benjamin, era il volano per imprimere alla società tedesca quella decisa svolta rivoluzionaria che la Riforma luterana aveva troppo a lungo esitato a sviluppare e che anzi, nel 1525, aveva fieramente avversato: dal che si vede come egli avesse capito poco o nulla sia del marxismo, sia della Riforma e di Lutero. Concetti fumosi anche se altisonanti, come quello del “tempo-adesso”, non valgono a mascherare la confusione e lo smarrimento intellettuale che traspaiono dalla sua concezione della storia, perennemente sospesa fra il rigore e la metodicità “scientifica” del materialismo dialettico e l’attesa messianica di una “esplosione” salvifica e rivoluzionaria, di una palingenesi e di una parusia che risolvano, una volta per tutte, le aporie e le lentezze della storia, davanti all’impazienza di un utopismo soteriologico che si è stancato di aspettare i tempi lunghi della lotta di classe e della rivoluzione del proletariato.

È certo, d’altra parte, che la sua aspirazione alla distruzione e al superamento delle verità borghesi, fittizie e menzognere, per vedere instaurata una verità proletaria, ovvero una verità senza classi (e si noti l’intima contraddittorietà dell’ultimo concetto), ci fanno avvertiti che siamo in presenza di una vicenda intellettuale sofferta e il cui dramma umano merita rispetto, ma priva di autentico spessore filosofico.

In particolare, non si può immaginare una redenzione dalla storia che rimanga entro l’orizzonte della storia medesima: è una contraddizione  in termini; che risale, è vero, a Marx e allo stesso Hegel – rispettivamente con la necessità della vittoria finale del proletariato e con la marcia trionfale dello Spirito assoluto -, ma che Benjamin si porta dietro tutta intera, solo complicandola e appesantendola con una serie di criptiche incursioni nel terreno dell’escatologia religiosa.

L’idea di una “verità proletaria”, poi, ricorda i balbettamenti di certi studenti del ’68, che ripetevano formule assurde leggiucchiate sul Libretto Rosso di Mao e mal digerite, ma non ha niente a che fare con la serietà del pensare. Davanti a simili sproloqui dal sapore prettamente dottrinario, per giunta mescolati a un oscuro messianismo di segno quasi gioachimita, si può nutrire quella comprensione che è doverosa nei confronti di chi visse entro un orizzonte storico-culturale così travagliato e così drammaticamente spoglio di speranza, quale fu quello degli anni cupi tra le due guerre mondiali; però, se si vuol essere onesti, non c’è molto che consenta di parlare di una vera ricerca speculativa e nemmeno di una consapevolezza delle proprie fragilità e contraddizioni.

Mentre il pensare è proprio questo: sforzarsi di tracciare vie percorribili verso la verità, nella piena coscienza della propria fallibilità e, quindi, armati al tempo stesso di audacia speculativa, ma anche di modestia e di un sano, realistico senso della misura.

Al di fuori di questo, non vi sono che sconclusionati vaneggiamenti e velleitarie, indistinte aspirazioni: i quali possono, nel migliore dei casi, dopo aver dato la prova della loro impotenza e della loro inconcludenza, predisporre il terreno per un futuro percorso di ricerca intellettuale; ma non possono certo pretendere di sostituirlo.