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Poltiglia di massa

di Simone Torresani - 16/01/2014

 


 

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Dopo il flop della "marcia su Roma" del 18 dicembre scorso, che ha raccolto la miseria di tremila persone -è più elevato il pubblico di un palasport nelle partite di pallacanestro di LegaDue- una nuova dura debacle è entrata nel calendario delle occasioni perse: i sit-in davanti alle Prefetture, in data 10 gennaio, sono stati letteralmente disertati da simpatizzanti e militanti dei Forconi, financo nella Latina del combattivo e coriaceo Calvani, ove si son viste nella piazza un paio di centinaia di persone demotivate. Giustamente i Forconi non mollano, continuando a spronare con nuove iniziative i (già depressi e declinanti in numero) militanti. Da diverse parti si è analizzato tutto ciò accusando le divisioni esistenti nel movimento tra le varie "anime", le incomprensioni, gli scismi...La realtà dovrebbe invece essere esaminata sotto diverse lenti: un movimento che era stato salutato con entusiasmo per la sua trasversalità e, soprattutto,  per il suo "andare oltre" le vecchie categorie novecentesche di destra e sinistra ha trovato, paradossalmente, proprio nel superamento dell' ideologia il suo grande limite politico. Parafrasando un thriller di C.Vanzina del 1985, potremmo ben dire: sotto il vestito, niente. Crollata l' armatura della sovrastruttura ideologica, capipopolo, leaders, militanti, simpatizzanti si sono ben presto atomizzati e balcanizzati in una babelica confusione di intenti, moventi, idee che si sono riassunti nel trito e ritrito slogan della frase fatta "tutti a casa": oltre ciò, oltre questa retorica, non si è andati. Logico che ben presto il tutto sia scivolato in pura rabbia nichilista, nella mancanza di alternative concrete (tutti a casa, va bene:ma poi?) e nel deleterio "particulare" che ben presto ha sfaldato tutto in mille rivoli e correnti.

Come ha ben scritto Luciano Fuschini nel magistrale articolo del 3 gennaio scorso, la società moderna liquida è caratterizzata, a differenza di quelle premoderne, dalla mancanza del senso di appartenenza (a una chiesa, a una corporazione, a una città...). Ora, una volta che la Storia è sul punto di fare passi in avanti, sbarazzandosi delle vecchie gabbie delle armature ideologiche, proprio questa liquidità, questa (usando una espressione felice dell' ISTAT) "poltiglia di massa", fa sì che individui privi di legami forti e identitari si trovino spersi e non sappiano neppur organizzarsi in un fronte comune per il benessere di simboli collettivi e identitari ben definiti.

A ben vedere, ha ottenuto di più Masaniello con la sua chiassata a Napoli nel 1647, estesasi poi in tutto il viceregno meridionale nei mesi successivi come ribellione antifiscale e antifeudale: le plebi del 1647 saranno pur state rozze e analfabete, ma scesero nelle vie con un paio di scopi tremendamente chiari: cancellazione di alcune gabelle esose e, nelle province, eliminazione dell' infeudazione di molte comunità demaniali o regie, alienate nel decennio precedente dalla Corona spagnola. E, detto per inciso, diverse città, tra le quali Chieti, riscattarono il loro status precedente e buttarono a mare il feudo.

I meridionali del XVII secolo, seppur nella loro ignoranza, sapevano quel che volevano ed erano mossi dalla molla del senso di appartenenza a un qualcosa di collettivo e condiviso; i Forconi del 2014 hanno sventolato come simbolo il Tricolore, sdoganato solo dieci-undici anni fa da Ciampi e ancora troppo connesso al tifo della Nazionale di calcio.

Francamente, troppo poco per suscitare pathos e sensazioni che solo elementi legati tra loro in una vera comunità di destino sanno riconoscere e valorizzare.