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L'Italia, l'Europa, il mondo che vorrei

di Alberto Conti - 22/01/2014

   
 


1 - Premessa

L’economia non esiste, esiste l’economia politica (Nando Ioppolo), cioè fatta di scelte mirate a finalità sociali, frutto di rapporti di forza politici.
Il problema di fondo è che non c’è più la politica nel contesto occidentale, e meno che mai in quello italiano. Il motivo è il prevalere dei rapporti di forza economici su quelli politici, o in altri termini la vittoria totalizzante del principio del profitto privato sul principio democratico (tramite lobbismo e altre tecniche, come le “porte girevoli” per i decisori ecc.).
Mentre lo scopo di lucro aggrega le forze economiche, generando entità aziendali gigantesche, coordinate in reti globali e relativi centri di potere finanziario consolidato e concentrato, il principio democratico diventa al contrario terreno di coltura del qualunquismo ideologico e della frammentazione sociale, concimati e coltivati, guarda caso, da grandi aziende di comunicazione di massa, per vanificare il potenziale potere politico delle masse e renderlo solo illusorio.



In altri termini la tecnica economica prende il sopravvento sulla volontà di autodeterminazione sociale, plagiandola fino ai limiti estremi della rassegnazione all’impotenza e della accettazione passiva della schiavitù di massa, a fronte di minoranze ricche e privilegiate, diventate onnipotenti.
E’ in questo contesto che s’insinua un’ideologia basata sulla falsa separazione dei ruoli, ad es. quello del “consumatore cittadino del mondo”, privo di Patria, tradizioni locali, rappresentanza politica radicata sul territorio a tutela dei suoi interessi economici e dell’identità culturale locale.
Per queste ed altre ragioni il capitalismo finanziario globalista diventa distruttore e nemico giurato di uno Stato visto come aggregatore politico, ma pur sempre necessario una volta ridotto, asservito al ruolo di attore economico di parte e strumento coercitivo di controllo sociale, in conformità alle proprie esigenze di accumulazione (orientandolo tramite degenerazioni liberiste delle ideologie liberali, le più adatte allo scopo, morte encefalica dei socialismi, riformismi reazionari e antisociali, ecc. ecc.).
Nell’Italia approdata al 2014 tutto ciò è non solo evidente, ma si oggettiva in forme estreme e distruttive, quali l’esplosione delle divergenze economiche e sociali interne ed esterne al Paese, su un percorso a tappe forzate verso il capolinea di un default eterodiretto, fase finale del “recupero crediti altrui” a conclusione del ciclo di Frenkel (1), con probabile successivo asservimento in posizione subalterna ad una “Grande Germania” intesa come sub-impero USA.

Lo strumento monetario adottato, nella sua inedita anomalia mondiale di irresponsabile dei debiti sovrani, è stato prioritario nel definire e nell’accelerare questa Road Map, bruciandone le tappe nell’arco di un solo decennio, mentre la riparazione di danni in larga parte irreversibili richiederà tempi ben più lunghi, non quantificabili visto anche il contesto di superamento mondiale dei limiti allo sviluppo, che fa da tetra cornice alla decadenza dell’impero occidentale di cui siamo parte.

L’unico vero rimedio a tanto sfacelo è quello di svegliarsi da quest’incubo diventato realtà, prenderne atto e ritrovare la forza interiore per reagire. Guardare in faccia la realtà significa anche saper distinguere tra i problemi eccezionali propri dell’Italia di oggi, prioritari, e quelli altrettanto eccezionali ma di ben altra natura e dimensione a livello planetario e geopolitico. La confusione tra questi due livelli di problematiche (ad es. crescita o decrescita?) sarebbe letale, impedirebbe l’ideazione stessa di soluzioni positive realistiche e soprattutto la loro integrazione in una sintesi economico-politica virtuosa, la cui ricerca e promozione è diventata un dovere morale e materiale ineludibile e improrogabile per ognuno di noi.

(1) Il ciclo di Frenkel si svolge in sette fasi:

1. Il Paese accettando l’unione monetaria, liberalizza i movimenti di capitale.
2. Affluiscono i capitali esteri, che trovano conveniente investire in un Paese dove i tassi di interesse sono più alti, ma è venuto meno il rischio di cambio.
3. Il flusso di liquidità fa crescere consumi e investimenti, quindi crescono Pil e occupazione.
4. Tuttavia aumentano anche l’inflazione e il debito privato; inoltre si creano bolle azionarie e immobiliari. Il vincolo della moneta unica (rivalutazione interna relativa) fa crollare la competitività sui mercati interni, comunitari ed esteri; inizia così la moria delle imprese e l’aumento della disoccupazione.
5. Un evento casuale crea panico tra gli investitori stranieri, che ritirano i finanziamenti.
6. Inizia la crisi: si innesca un circolo vizioso tra calo del Pil e aumento del debito pubblico. Il governo taglia la spesa pubblica e aumenta le tasse, aggravando la recessione.
7. Il Paese è costretto ad abbandonare il cambio fisso e a svalutare.

2 - Radiografia del declino (dalla Spagna con amore)

http://www.youtube.com/watch?v=7JDHcRxta54

3 - La situazione, che fare a partire dal nostro territorio
Invertire la rotta del declino è l’imperativo categorico del momento, al quale le politiche Napolitano-Monti-Letta-Renzi stanno dando la risposta sbagliata, quella dello stesso sistema che ha prodotto la crisi italiana, dentro la crisi europea dentro la crisi occidentale e mondiale, peggiore e ben più strutturale di quella storica del ’29. L’austerità imposta ai PIIGS è come la benzina sul fuoco per spegnere l’incendio, non lo spegne affatto, anzi genera ulteriore recessione e depressione cronica, risolvibile solo con un default incontrollato (dal lato del fallito) e rovinoso.
Il perché s’insista su questa strada è già stato detto, si tratta in realtà di un’operazione di recupero crediti imposta dal più forte col ricatto, non certo di un risanamento delle economie debitrici. Basti vedere la composizione della troika che impone tali politiche: BCE, Commissione Europea, FMI, tutti soggetti tristemente noti.

Neppure la fase finale 7 del ciclo di Frenkel è scontata per l’Italia, poiché l’uscita dall’euro (equivalente alla disgregazione dell’eurozona attuale) è impedita con tutte le forze, in modo esplicito e perentorio, dal suo stesso tutore tecnico, Mario Draghi (“faremo di tutto per salvare l’euro e vi assicuro che basterà” luglio 2012), oltre al nauseante martellamento propagandistico del mainstream che ha contagiato anche (o soprattutto, paradossalmente) alcune delle forze tradizionalmente più progressiste.

E’ fin troppo ovvio che in ogni caso il ritorno ad una valuta sovrana, nazionale o di area PIIGS, forzoso o liberamente scelto, ordinato o caotico, è solo un tassello, necessario ma non sufficiente, del piano di risanamento del Paese. Un piano che nel suo complesso si può orientare verso differenti visioni del mondo e della società, che dire “di destra” o “di sinistra” è riduttivo, e soprattutto confuso di questi tempi, ma rende l’idea almeno rozzamente, fino a che non s’imponga un nuovo lessico politico adeguato alla transizione storico-epocale che stiamo vivendo.
Da questo presupposto si riparte qualificando obiettivi e metodi originali per una nuova economia moderna a base monetaria, da ricostruire sulle ceneri di quella fallita nella disavventura euro. Fallimento drammaticamente scolpito nei numeri che misurano i più significativi dati macroeconomici, quali l’indice di Gini, gli indebitamenti privati, pubblici, bancari, la disoccupazione, l’esplosione delle nuove povertà di massa in contrasto con smodati arricchimenti elitari, non certo compensatori, per quanto immorali, ma fonte di ulteriori emorragie di ricchezza verso l’estero (fino ad arrivare ad una fuga di capitali tipica della “sindrome Argentina”).
La conseguenza più grave è però la progressiva desertificazione del tessuto produttivo, che è di gran lunga la principale fonte di ricchezza vera nel nostro Paese, storicamente a vocazione manifatturiera, oltre che agricola e turistica, con esiti di rilevanza mondiale.

Per avere una visione oggettiva dei fatti occorre sempre (ri)verificare e non confondere i dati numerici della crisi mondiale con quelli del rapidissimo declino italiano, che in termini relativi non lasciano dubbi sulla differenza delle cause, anche se sovrapposte e concorrenti.

Da queste prime considerazioni si evince subito quale sia una delle priorità di fondo, la riconquista e la ricostruzione dello Stato come vera rappresentanza di massa, del popolo italiano, che precede, non in senso temporale ma come stimolo e vincolo interno, l’attuazione dello “Stato Sociale”, già deficitario da prima della crisi rispetto ai principali Paesi europei, ed ora vittima sacrificale proprio nel momento del bisogno emergenziale per larghe fasce di popolazione indebolite oltremisura.

Per avere un vero Stato Italiano, abbastanza forte da potersi opporre alla barbarie globalista, occorre che gli italiani lo vogliano, quale Istituzione finalmente amica sorretta dall’amor di Patria, dal desiderio di libertà e giustizia, dalla responsabilità sociale e solidale, insomma dai più sani sentimenti ancora ben radicati per quanto oltraggiati e lesionati da corruzione, clientelismi e malaffare, un mix che trova espressione ancor più amplificata nell’alleanza ormai consolidata con le mafie, fino ad infestarne le stesse istituzioni repubblicane, ma che è anche stato elemento di copertura utile ed efficace nel perseguire lo scellerato progetto di questa UE reale.

Ma la piovra che tutto domina e determina è quella borsistica e bancaria, della finanza internazionale che ha plagiato l’intero percorso di costruzione dell’Unione Europea, fino a renderla quel mostro che è oggi, cioè il peggior tradimento degli ideali europeisti originali. E qui il cerchio si chiude: la contrapposizione lacerante tra l’appartenenza al proprio Paese e l’appartenenza alla UE non è un fatto “normale”, al contrario è il paradosso conseguente al tradimento perpetrato dall’eurocrazia dei lobbisti. In realtà lo stesso amor di Patria che ci fa sentire italiani ci fa sentire anche europei, e viceversa, non ci può essere l’uno senza l’altro in condizioni normali.
Se per i tedeschi così non fosse, significherebbe che anche loro vivono in condizioni anomale, anche se di un’anomalia di segno opposto al nostro irrazionale masochismo economico. In realtà si vivono false rappresentazioni indotte dall’incoerenza di quest’euro e delle sue strutture operative, sia tecniche che politiche, la cui non riformabilità intrinseca è un dato di fatto, del tutto fuori discussione (basti pensare alla cosiddetta “irreversibilità” del processo UE fin qui perpetrato, ossessivamente proclamata dai suoi irriducibili esecutori). L’aumento della corruzione nei paesi periferici non deve perciò meravigliare, essendo complementare e funzionale agli scopi di questa malcelata sovrastruttura lobbistica che ha preso il sopravvento, anche se questo non ci può certo consolare o deresponsabilizzare dell’accaduto.
E’ veramente ignominioso e inaccettabile che un progetto concepito dai Padri spirituali dell’Unione Europea, sull’onda della tragica esperienza delle due guerre mondiali, si sia trasformato in un meccanismo competitivo, di contrapposizione d’interessi economici vitali tra i popoli europei, foriero di divisioni e nuovi rancori. Ma non è questa la sede per individuare le responsabilità, anche politiche, che ci sono sicuramente state. Sta di fatto che tale degenerazione del progetto europeo ha prima prodotto sperequazioni interne all’Europa, con vincitori e sconfitti, ma poi è diventato pure un gioco a somma negativa, cosa che al culmine della crisi mondiale è un fatto gravissimo. Tutto ciò impone urgentemente una discussione radicale a tutto campo, che non si dovrebbe ignorare, regalando così l’egemonia della sollevazione popolare alle sole destre.
Se non lo si farà prima per senso di responsabilità, saremo comunque costretti a farlo dopo dal precipitare degli eventi. Questo è matematicamente certo, essendo l’attuazione delle misure programmate e sottoscritte dai governi collaborazionisti del tutto insostenibile già dal prossimo anno, mentre la causa delle divergenze permane e ne alimenta la progressiva esasperazione.

Modernizzare per davvero il Paese nel contesto attuale significa cambiare, perseguire il progetto di una nuova economia che faccia tesoro dei successi e degli errori certificati dalla storia, oltre alla consapevolezza delle mutate condizioni. Eventuali strategie gattopardesche, sempre in agguato, non devono più trovare terreno fertile nelle caste, altrimenti il declino continuerà fino ad una fine ingloriosa che il popolo italiano nel suo complesso non si merita.

Un “New Deal” stile anni ’30 non sarebbe più possibile ne auspicabile, mentre una riconversione degli investimenti orientata alle esigenze di massa del mondo reale, che imbavagli la finanza per impedirne devianze criminali, è possibile, anche localmente. Anzi, è proprio recuperando e valorizzando i tesori e le risorse dell’economia locale, ognuno sul proprio territorio, che si può riavviare uno “sviluppo qualitativo” generalizzato, che è poi la grande sfida per un futuro planetario compatibile coi limiti quantitativi allo sviluppo, all’opposto della crescita indiscriminata perseguita nella prima fase dell’economia dominata dall’evoluzione dei processi tecnologici.

In effetti è proprio il consumismo quantitativo l’anomalia economica più grave, contraria allo stesso principio economico originario, che è poi quello di ottimizzare la gestione della scarsità.

C’è moltissimo da fare a cominciare dalla conversione qualitativa dei consumi di massa primari: abitazione, alimentazione, mobilità, scuola, sanità, servizi, ecc. e quindi delle infrastrutture e del loro utilizzo (logistica, distribuzione, trattamento rifiuti, ecc).
Tutte cose che sapremmo fare e innovare molto bene, che alimentano i flussi interni dell’economia, generando posti di lavoro, una volta che ci saremo liberati dall’errore ideologico dei “mercati senza frontiere” di merci e capitali, un’idea che insulta l’intelligenza osservando le enormi disparità che ancora esistono tra i vari Paesi, divergenze che la globalizzazione in realtà esaspera con la propria ingerenza, anziché riequilibrarle come populisticamente vorrebbero far credere i suoi ideologi a libro paga delle multinazionali.

Con una moneta sovrana, gestita da un circuito bancario ristatalizzato (inteso come servizio pubblico primario, obbligatorio, strategico e monopolio naturale di Stato inalienabile), si può da subito rilanciare la PMI, cuore pulsante della nostra economia, attualmente strangolata dal credit crunch bancario di cui non ha alcuna colpa e responsabilità.

Allo stesso modo, con uno Stato ripulito e rigenerato, degno di questo nome e condotto da amministratori onesti e fedeli opportunamente formati e incentivati, si può rilanciare la ricostruzione del Paese, della sua ossatura fatta da infrastrutture e servizi pubblici, produzioni strategiche a partecipazione statale, ricerca e sviluppo sostenuti dal pubblico, che debbono riacquistare un senso come, anzi molto meglio che nel recente passato pre-globalizzazione selvaggia. Una volta ricostruito un patrimonio pubblico condiviso diventeranno del tutto sostenibili e organici gli investimenti pubblici senza scopo di lucro per la cura dell’ambiente: risanamento di fiumi, laghi, mari e terreni, rimboschimenti e ripristino idrogeologico, ecologico, ecc. ecc.
Gli italo-scettici sorrideranno a queste proposte, non senza buone ragioni se l’intero sistema ideologico che li ha resi tali non verrà smascherato e superato. Ogni difficoltà si può affrontare con successo, comprese quelle geopolitiche, come molti Paesi del Sudamerica stanno dimostrando. Del resto qualsiasi contratto non è legittimo se obbligato col ricatto, e a maggior ragione i trattati internazionali, soprattutto quelli di “libero scambio”; anche agli ossimori va dichiarata guerra! Ci vuole coraggio e fiducia in se stessi, senza i quali la vita perde irrimediabilmente di significato.

4 - Linee guida della svolta

La libera circolazione di merci e capitali, il pilastro non negoziabile di Maastricht, è un principio che ha presentato un suo conto salatissimo: la cessione senza contropartite dei nostri mercati interni, l’espulsione di pezzi sempre più rilevanti del tessuto produttivo, la cessione in svendita di quel che rimane ai capitali esteri, l’esplosione della disoccupazione e della cassa integrazione, la riduzione dei salari reali, la precarizzazione, la perdita di professionalità, il ricatto del debito per costringere alla rinuncia dei diritti di base, faticosamente conquistati in passato e ancora residuali per i sempre meno lavoratori sopravvissuti alla desertificazione produttiva. Come già detto il precipitare di questi tragici risultati dipende direttamente dalla non-moneta adottata, l’euro, in realtà un sistema inderogabile e irresponsabile di cambi fissi.

Da qui gli obiettivi del rinascimento locale, punto di partenza e fondamento concreto di un più vasto rinascimento europeo e globale, basato sul principio del tutelarsi in Patria rispettando l’estero, possibilmente in modo reciproco o anche unilateralmente, se occorre:

1) Proteggere e riqualificare le produzioni destinate ai consumi interni
2) Ottimizzare la distribuzione fisica delle merci destinate ai consumi interni (Km 0)
3) Integrare, dalla produzione al riciclo totale, produzioni e consumi, puntando alla qualità e alla longevità dei beni durevoli di largo utilizzo
4) Combattere tutti gli sprechi e disincentivare le pratiche inutili, proibire quelle nocive
5) Reindirizzare l’allocazione delle risorse secondo un modello di sviluppo sano e perequato
6) Incentivare il piccolo risparmio individuale, disincentivare gli eccessi sia di debito che di risparmio, contrastare le rendite finanziarie
7) Rifondare l’istruzione, la ricerca, la sanità pubblica, secondo obiettivi di bene comune
8) Riformare il sistema monetario e bancario interno, proteggendolo con opportuni firewall da fughe di capitali e attacchi speculativi provenienti dalla finanza globalizzata
9) Riconvertire la struttura produttiva verso obiettivi prioritari di utilità di massa
10) Rifondare le Istituzioni pubbliche secondo principi di semplificazione, trasparenza e onestà, a sostegno del piano economico sovraesposto e sotto controllo democratico diretto.

Questo decalogo per sommi capi, sicuramente parziale e incompleto, non rappresenta affatto una rotta di trasformazioni utopiche, se solo pensiamo da dove si parte, dagli attuali livelli parossistici di corruzione ed inefficienza della PA e della mala-politica dominata dai lobbisti. Tali estremi patologici sono ben radicati nelle cessioni di sovranità, cioè nella rinuncia di fondo all’autodeterminazione, a partire dalla conclusione dei due ultimi conflitti mondiali, che oltre alle devastazioni ci hanno consegnato una ignominiosa sconfitta italiana mai veramente metabolizzata. Ancor oggi, dopo ben 70 anni, la retorica della resistenza, pur con tutti i suoi indiscussi meriti e valori, non può esorcizzare un’ipocrisia di fondo che guasta il processo di unificazione del popolo italiano già tormentato e difficile anche da prima, a partire dalla sua fondazione di cui si è recentemente e acriticamente celebrato il secolo e mezzo.

Non c’è popolo europeo più afflitto del nostro da sensi di colpa, di rivalsa, d’inferiorità indotta, tutti sentimenti disgreganti della coesione sociale, della propria identità, del senso di appartenenza e perfino della cura dei propri interessi comuni. Resta la fuga nella dimensione individuale e famigliare, la più esposta ai modelli culturali e ideologici dominanti, imposti da un impero ormai unipolare di cui siamo diventati una semplice periferia strategica da tenere sotto stretta osservazione e controllo, con ogni mezzo.

Ma di fronte al baratro gli annebbiamenti mentali prodotti dalle continue psicobombe mediatiche possono finalmente diradarsi. E’ l’istinto di sopravvivenza che induce a guardare un paesaggio che emerge nitidamente mostrando una realtà collassata, ma per contrasto spirituale illumina anche i principi e le linee guida universali per vivere al meglio la nuova era.

Il principio di “vivere in pace a casa propria” è veramente il più condiviso dalle masse in tutto il mondo, a maggior ragione ovviamente quando si trovano al centro di attacchi furibondi di un capitalismo impazzito, siano essi economici o militari, comunque causa di vittime civili.

Su tale principio cardine occorre impostare l’equilibrio economico e politico tra Paesi (Ordine Mondiale), potenzialmente stabile solo in presenza di un reciprocamente rispettoso pareggio tendenziale dell’import-export.

Parallelamente la redistribuzione interna della ricchezza prodotta deve essere perequata, anche fissando per legge un limite massimo prefissato del rapporto tra redditi da lavoro (almeno quelli!) minimi e massimi (1:30 è stata la recente proposta svizzera, noto Paese d’ispirazione comunista!)

Lo strumento fiscale serve principalmente a questo scopo, come parte essenziale e non separabile del gioco monetario, le cui regole devono essere rigorose, semplici e trasparenti, sotto il diretto controllo democratico, configurandosi nel loro complesso come patto sociale fondante della pacifica e ordinata convivenza civile. Corollario: mettere fuori legge la finanza-casinò, dichiarando le ludopatie e le scommesse finanziarie una pericolosa piaga sociale. Per contro la relativa promozione, organizzazione e gestione lucrosa, peggio ancora se privata, diventa un crimine contro l’umanità, che prevede la confisca dei proventi illecitamente intascati da gestori finalmente dichiarati fuorilegge (ciclo denaro-denaro, principale imputato della crisi monetaria mondiale).

In base agli studi ed alle sperimentazioni fatte ad oggi in tutto il pianeta risulta certamente possibile progettare ed adottare un sistema economico di questo tipo, voluto dal popolo per il popolo, secondo Costituzione.

Tuttavia non è pensabile che, durante questa difficilissima fase di transizione planetaria verso una nuova economia sostenibile e virtuosa, tutti i Paesi contemporaneamente adottino e mantengano coerentemente queste prassi sane e mutuamente rispettose. Perciò occorre tutelarsi preventivamente dalla possibile, anzi probabilissima aggressione esterna in un sistema globale intensamente interconnesso. Allo scopo occorrono dei “firewall” nazionali di tipo economico-monetario, fondati sulla autonoma sovranità legislativa in materia di mobilità transfrontaliera di merci e capitali, unico modo per tutelare e stabilizzare la propria economia interna. Questo corrisponde sul piano militare della forza fisica al principio di autodifesa coniugato con quello di non ingerenza al di fuori dei propri confini. Anche qui la vicina Svizzera insegna, al di là evidentemente di avventate fughe in avanti verso un non meglio definito quanto improbabile “superamento del capitalismo”, almeno nei tempi brevi. Per contro è possibile da subito il superamento del paradigma monetario vigente, in funzione popolare e anti-debito (es.: "positive money" o "Piano di Chicago rivisitato", entrambi di provenienza anglosassone, ed il secondo partorito all’interno nientemeno che del FMI!).

6 - Ipotesi di soluzione monetaria europea

A livello europeo la controrivoluzione monetaria e commerciale si può avviare solo rinnegando tutti i trattati e accordi tra Paesi fin qui sottoscritti. La ridicola obiezione che in essi non è contenuta la clausola di risoluzione, oltre che falsa contraddice la primazia della sovranità nazionale, alla quale la Germania non ha certamente mai rinunciato come invece abbiamo fatto noi in tutte le circostanze. Perciò non vale neppure la pena di confutare documentalmente questo tipo di obiezioni.

Meglio piuttosto analizzare le modalità di transizione dal regime attuale dell’euro e del mercato unico a quello di un opposto “sistema” europeo che lascia a tutti i suoi membri la libertà e la responsabilità democratica di perseguire un’economia politica autonoma, basata su una moneta nazionale ad uso interno.

Dal momento che la Germania Ovest pare abbia a suo tempo (Kohl-Mitterand) acconsentito a trasformare la propria moneta, il marco, in moneta unica del nucleo fondante dell’UE, in cambio della riunificazione con la Germania Est e della distruzione del pericoloso competitor manifatturiero italiano, all’interno delle logiche mercantiliste che premiano il più forte (vedi WTO e succedanei), a cose fatte e danni subiti sarebbe logico che si ponesse rimedio uscendo dall’euro tutti tranne la Germania, oppure uscendo la sola Germania, che sarebbe quasi lo stesso dal punto di vista dello schema centro-periferia, ma in questo secondo caso solo per riprodurlo, pur se in scala assai più ridimensionata nelle divergenze iniziali, nel resto d’Europa. Cosa evidentemente da evitare, una volta imparata l’amara lezione.

Perciò è molto meglio una soluzione paritaria e concordata che prevede l’affiancamento dell’euro attuale con monete nazionali ad uso interno, a cambi revisionabili periodicamente, a partire dal cambio iniziale 1:1 per ragioni di semplicità e chiarezza. In tal modo le funzioni attuali dell’euro migrerebbero verso i soli scambi internazionali, rendendolo progressivamente una semplice unità di conto confrontabile con le principali valute planetarie, in rappresentanza della macroarea europea.
Si tratta quindi di stabilire quali dei contratti ridenominare da euro a valuta nazionale, e quali no, nell’istante iniziale da cui parte la transizione.

Ad esempio la prolungata, e per noi letale, fase dello “spread”, potrebbe essere almeno parzialmente risarcita dalla conversione immediata in nuova valuta di tutti i titoli pubblici in essere, cosa che penalizzerebbe in caso di successiva svalutazione solamente i grandi detentori esteri, peraltro già percentualmente ridimensionati e comunque orientati all’abbandono graduale di tali speculazioni.
Un altro vantaggio di questa soluzione valutaria è la completa libertà di ogni Paese di aderirvi o meno, o in altri termini la possibile unilateralità di tale decisione.

Salari, pensioni e riscossione imposte e tributi, oltre ai listini prezzi, sono ovviamente i primi da ridenominare nella nuova valuta locale, in regime di doppia circolazione valutaria (con l’euro) anche tra privati, gestita però da una governance pubblica del sistema bancario, autonoma e indipendente, oltre che dai partiti, anche dall’architettura monetaria imposta da BIS e BCE. Infatti un’economia virtuosa del terzo millennio non può che essere fondata su una moneta fiat di Stato emessa senza debito.

Che sia più realistico uscire dal modello economico “occidentale” o dalla NATO lo dirà la storia, ma che entrambe le cose siano un bene per l’Italia e per l’umanità già lo dicono cuore e ragione uniti in armonia: il progetto alternativo c’è, possibile, salvifico e desiderabile.

Alberto Conti

Fonte: www.comedonchisciotte.org

Gennaio 2014