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La filosofia di Unamuno si risolve in un personalismo e in un esistenzialismo esasperati

di Francesco Lamendola - 22/01/2014




 

La figura di Miguel de Unamuno (Bilbao, 29 settembre1864 – Salamanca, 31 dicembre1936) - narratore, drammaturgo, filosofo, saggista – è fra le più rappresentative della crisi dell’uomo moderno, per l’acuta, spasmodica lucidità con cui egli ha descritto il vicolo cieco nel quale viene a trovarsi la volontà di vivere, allorché questa perde il legame originario con l’essere.  Si può dire, pertanto, che la grande lezione unamuniana consiste nell’ammonimento a tutte quelle filosofie, a tutte quelle visioni del mondo che tentano di affrontare i problemi dell’uomo senza aver adeguatamente messo a fuoco la natura essenziale dell’uomo stesso, e più precisamente la sua inquietudine ontologica. Oggi il discorso sulla inquietudine ontologia viene passato volentieri sotto silenzio, perché non piace alla cultura dominante, razionalista e materialista; lo si confonde volentieri con quello sulla inquietudine storica, come se fosse semplicemente una questione di circostanze e come se, una volta rimosse le cause di inquietudine legate a un determinato momento storico, a una determinata congiuntura politica, sociale, culturale, l’uomo potesse automaticamente eliminare da sé l’inquietudine, espellerla come un corpo estraneo. L’inquietudine, invece, continua ad annidarsi nel profondo della nostra struttura esistenziale, perché fa parte della nostra essenza: è una struttura, non una sovrastruttura; e la cosa più giusta che possiamo fare davanti ad essa è quella di ascoltarla, di metterci in atteggiamento di apertura e d’interrogazione; non tacitarla, tentando di placarla o di sommergerla sotto mille altri voci e mille altri rumori.

Miguel de Unamuno è stato grande, perché non ha accettato di ignorarla, né di placarla; ma non è stato abbastanza grande da impostare la sua ricerca nell’unica direzione in cui essa può rivelarsi fruttuosa: quella dell’umiltà, della disponibilità, della docilità alla corrente dell’essere; quella della riscoperta del legame originario fra l’essere dell’uomo, precario, imperfetto, contingente, e l’Essere assoluto, da cui ogni cosa scaturisce e acquista significato.

Superba e orgogliosa è stata la ricerca di Unamuno; più che una ricerca, è stata una denuncia, una protesta, una rivolta: un movimento nobile, ma sterile, perché incentrato tutto sul piccolo io, la cui consistenza pure egli negava a parole, sul piccolo io tirannico che sempre vuole e sempre brama e sempre spera e sempre teme; il piccolo io che non vede mai altro che se stesso, che non ascolta altri che se stesso, che non intende altre ragioni che le proprie. L’io in rivolta di Unamuno, molto simile a quello di Pirandello, è un io sostanzialmente infantile, egocentrico, testardamente aggrappato alle proprie ragioni, davanti alle quali preferirebbe dare torto al mondo intero, piuttosto che a se stesso: espressione di un esistenzialismo estremista e di un soggettivismo altrettanto esasperato, quasi una deformazione del personalismo cristiano, forzato e gonfiato oltre ogni limite ragionevole, per cui nulla resta oltre alla persona e il mondo finisce per divenire una creazione solipsistica della mente individuale. È un Berkeley senza Dio, quello di Unamuno: il suo essere è l’essere che cerca di spiegare gli interrogativi della vita restando entro l’orizzonte della vita stessa, che cerca di giustificare i propri moti senza aprirsi all’orizzonte di una realtà più alta, nella quale esso trovi armoniosa collocazione come parte del Tutto. In altre parole, la filosofia di Unamuno si risolve in un corto circuito, proprio come la filosofia di Nietzsche; perché il finito non può spiegare l’infinito, il contingente non può comprendere il necessario; e, se il finito e il contingente aspirano a farsi ciò che non sono, ossia infinità e necessità, fatalmente vanno incontro alla propria nemesi.

Come Leopardi, Unamuno vede che la vita è dolore, infelicità, sofferenza; che niente sembra avere un senso; che il mondo in cui viviamo è dominato da leggi misteriose, indecifrabili, che non possono essere benevole, perché da esse non scaturisce alcun bene, ma solo la perpetuazione delle specie, mentre nessun sollievo, nessuna speranza autentica, nessun orizzonte di senso vengono offerti alle persone che s’interrogano e soffrono.

Come per Leopardi e come per Pirandello, inoltre, si direbbe che, per Unamuno, la ragione ci sia stata data per beffa o per castigo: poiché nel momento in cui gli uomini si interrogano sul mistero della vita, ecco che si allontanano dalla vita stessa, si alienano, si condannano all’estraniamento; mentre vivere è lasciarsi trasportare dalla grande corrente della vita stessa, che non chiede, non domanda, non vuole nulla, ma segue unicamente il flusso fatale che la trascina.

Come Bergson, ma anche come Schopenhauer e come Eduard von Hartmann, Unamuno vede la vita umana come parte di un movimento cosmico, come espressione di una forza cieca e primordiale, che non sa nulla di ragioni e di “perché”, ma vuole unicamente se stessa, si slancia in avanti per espandersi, lotta per conservarsi, a null’altro intenta e a null’altro interessata che proteggersi, difendersi, propagarsi, e rimuovere o aggirare ogni ostacolo le si frapponga.

Come Pirandello, Unamuno ritiene che gli uomini si trovino a dover recitare una commedia incomprensibile, che è la loro stessa vita, ma che siano privi di un io, di una unità coscienziale e, pertanto, che non abbiano un’essenza, ma solo una esistenza empirica, che rivestono di maschere; da ciò deriva, come per il drammaturgo siciliano, che il personaggio letterario è, paradossalmente, più reale della persona, nel senso che il personaggio non ha l’esistenza ma possiede, in compenso, una precisa essenza.

Come Kierkegaard (e in polemica con Hegel e l’hegelismo), Unamuno pensa che la filosofia non abbia nulla da dire finché si ostina a ragionare per categorie astratte, a cominciare da quella di “uomo”: perché, di fatto, non vi è alcun “uomo”, ma solo degli uomini singoli e concreti, che vivono, soffrono, sperano, lavorano, amano e muoiono: ed è di questi singoli uomini concreti che la filosofia deve occuparsi; è al dramma esistenziale di ciascuno, e non dell’uomo in generale, che deve sforzarsi di dare una risposta.

Come Heidegger, Unamuno vede l’essere umano essenzialmente come un essere-per-la-morte, nel senso che la sua principale, se non unica certezza, è proprio quella di dover morire; e anche nel senso che la consapevolezza della morte, della propria morte, che ripugna profondamente a ciascuno, è la sfida suprema, lo scacco inaccettabile, contro il quale l’uomo non può che levare il suo disperato grido di protesta.

Come Max Stirner, Unamuno si disinteressa della società e nega anzi ad essa qualunque diritto, in nome della rivolta del singolo, del diritto del singolo di esistere come tale, cioè come singolo, come individualità unica e irriducibile, come individualità che non accetta niente che la mortifichi, che la sacrifichi in nome di valori più alti o più grandi: perché valori più grandi non esistono, non esistono per me, per te, per lui, per noi uomini concreti.

Come i decadentisti, infine, Unamuno è in rivolta contro le promesse illusorie di progresso e contro le fallaci sicurezze della scienza: egli vede che l’accrescersi della conoscenza razionale del mondo non ha minimamente alleviato l’angoscia e lo smarrimento in cui versano gli esseri umani, semmai li ha accresciuti, mostrando loro l’irrimediabilità della loro condizione mortale; per cui volge le spalle alla ragione scientifica e cerca altrove la risposta alla grande domanda. E la grande domanda è sempre la stessa: perché? Perché esistono le cose, piuttosto che il niente? Perché io mi trovo qui, adesso, circondato da una realtà enigmatica, consegnato alla mia solitudine, al mio isolamento, o, peggio, al malinteso con i miei simili, all’incomprensione, al conflitto; perché aspiro a una verità, a una certezza che continuamente mi sfugge e che sembra farsi beffe di me, della mia sete di certezza e di armonia? E, soprattutto: perché vivo, se sono condannato a morire?

Osserva Carla Calvetti nella sua interessante monografia «La fenomenologia della credenza in Miguel de Unamuno» (Milano, Marzorati, 1955, pp. 11-18)

 

«… se Miguel de Unamuno opponendosi a coloro che pretendevano di catalogarlo in una precisa confessione religiosa, alludendo al suo singolarissimo modo di consumare e di risolvere il problema, rispondeva sdegnosamente: “Io non voglio lasciarmi incasellare, perché io, Miguel de Unamuno, come ogni altro uomo che tende alla piena coscienza, costituisco una specie unica”, non per questo disdegnava di riconoscere come umano il problema religioso, né soprattutto di parlare dell’uomo in quanto tale e dei caratteri che lo costituiscono. Uomo è quell’essere ”di carne ed ossa, che nasce, soffre e muore – soprattutto muore -, quello che magia, beve, gioca, dorme, pensa ed ama, l’uomo che si vede e si ascolta, il fratello, il vero fratello. Perché c’è un’altra cosa, che chiamiamo pure uomo, ed è il soggetto di non poche divagazioni più o meno scientifiche: il bipede implume della leggenda […]. Un uomo che non è di nessuna parte, né di queste poca né di un’altra, un uomo che non ha né sesso, né patria: un’idea insomma, Cioè un non-uomo.  Il nostro è l’altro, quello di carne ed ossa: io, tu, lettore mio, quanti gravitano sulla terra. E questo uomo concreto, di carne ed ossa, è il soggetto e il supremo oggetto a sua volta di ogni filosofia, checché ne dicano certi pseudo-filosofi”. […] Sintetizzando direi: l’estrema esigenza esistenziale di Miguel de Unamuno, ha condizionato la sua posizione anti-essenziale, irrimediabilmente chiusa ai valori universali, determinando la sua singolare concezione intorno all’uomo, presentato nella sua concretizzazione vitale. […] “L’uomo muore, soprattutto muore”, questa la tragica realtà dell’uomo concreto a cui il formidabile agonista non può e non vuole arrendersi, perché più reale della stessa morte è il “conato di seguitare ad essere uomo, di non morire”. E proprio in questo significato agonistico, espressione dell’incessante contrasto fra lo spettro della more, costantemente presente, e la insopprimibile esigenza di vivere e di persistere, sta il senso della contraddittoria speculazione unamuniana, tragicamente tesa nella lotta fra la ragione, ritenuta anti-vitale, e la vita anti-razionale, nel disperato tentativo di dare un’umana risposta all’ansia di immortalità in cui si risolve la sostanza stessa dell’uomo. […]

Negata la possibilità alla verità di accostarsi al reale la cui essenza si risolve “nello sforzo per essere di più, per essere in maniera totale”, o, se vogliamo, “nel conato di non morire”, affermato anzi che la ragione, in luogo di giustificare teoreticamente tale sforzo, dimostra se mai la impossibilità di una persistenza dopo la morte, il conflitto fra un intelletto chiuso in un mondo di spettri di cui le pretese verità appaiono le espressioni, e la realtà, fondata sulla vita e le esigenze che le sono coessenziali – prima fra tutte l’istanza di perpetuazione -, risulta inevitabile. In questo senso si può dire che se il reale equivale allo “sforzo nel seguitare ad essere uomo, nel non morire”, per ripetere un motivo caro a Spinoza, - a cui Unamuno applica una dinamica agonistica trasformandola nello “sforzo di essere di più, per essere in maniera totale, quale appetito di in finitudine e di eternità” -, proprio perché tale conato è frustrato dalla ragione nelle sue profonde esigenze vitali, la realtà, che risolve esistenzialmente la sua essenza nella irrassegnazione alla morte quindi nella “tensione a persistere indefinitamente”, è antirazionale, come il razionale è antivitale. […]

Ciò posto, mentre “di continuo la volontà di non morire mai, l’irrassegnazione della morte, fabbrica la dimora della vita, di continuo la ragione la sta abbattendo a forza di venti e di acquazzoni” in una tragica lotta; di più: “nel problema concreto, vitale che ci interessa, la ragione non prende alcuna parte.  In realtà fa qualcosa di peggio che negare l’immortalità dell’anima, il che sarebbe una soluzione; è che disconosce il problema, come il desiderio vitale ce lo presenta. Nel senso razionale e logico del termine problema, non c’è tal problema. Il fatto dell’immortalità dell’anima, della persistenza della coscienza individuale, non è razionale ed è fuori della ragione.  È, come problema, a parte la soluzione che gli si possa dare, irrazionale” (“Del sentimento tragico de la vida”, p.548).»

 

La ragione, dunque, non solo non risponde alla domanda circa il senso della morte, ma addirittura ignora tale domanda, dichiarandola estranea ai suoi orizzonti; e, così facendo, consegna l’uomo alla perenne angoscia e alla disperazione, preso fra il bisogno sempre risorgente di trovare una risposta a tale domanda, e l’impossibilità di porre la domanda stessa, almeno in termini razionali.

A quanto pare, Unamuno non si è chiesto se la risposta, a questo punto, debba essere per forza irrazionale, o se non posa e non debba essere cercata nella sfera del sovra-razionale: cioè in qualcosa che non va contro la ragione, ma oltre la ragione, senza negarla e senza disprezzarla; qualcosa che attiene alla sfera dell’Essere, e che non si pone all’uomo come la negazione della ragione, ma come il suo inveramento e come il suo supremo, ineffabile disvelamento…