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L’ultimo combattente

di Luciano Garofoli - 29/01/2014

Fonte: effedieffe

Qualche anno fa, Pippo Franco – uno dei nostri comici satirici più intelligente e simpatico – commentando il suicidio di Mishima, canticchiava: «Sentite che ve dice er Sol Levante....ma noi invece c’avemo er Sol Ponente che si t’ammazzi nu’ je frega nniente!».

In queste rime satiriche, in fondo, era condensata tutta la differenza e la filosofia che divide noi Italiani Occidentali, ormai schiavizzati, decadenti, disincantati, abulici, menefreghisti e fancazzisti, scansafatiche e dediti solo alla ricerca sfrenata del piacere fine a sé stesso, dai Giapponesi Orientali. Loro, al contrario di noi, sono ancora seguaci degli ideali, realisti, solidaristi e concentrati sul lavoro inteso non solo come forma di autorealizzazione personale, come fonte di guadagno materiale, ma anche mezzo di esaltazione della Patria e dell’Imperatore.
Nel marzo del 1974 lo studente Suzuki Norio si mise sulle tracce di Onoda Hiroo che dal 1959 fu prima dato per disperso e poi considerato morto nella giungla dell’isola di Lubang, nelle Filippine. Alla fine riuscì a scovarlo: era ancora vestito con la sua divisa di tenente dell’esercito imperiale, lacera, rattoppata, ma tenuta sempre in ordine per quanto gli era stato possibile, in un ambiente ostile e che certamente non offriva grandi possibilità per essere in ordine: spesso la forma in molte cose è sostanza e nei suoi doveri di soldato del Tenno c’era anche quello di essere sempre decoroso e presentabile. Suzuki gli disse che la guerra era finita nel 1945 e che lo stesso Imperatore Hirohito aveva annunciato la sconfitta alla radio quel fatidico 15 agosto 1945 ed aveva chiesto al suo valoroso popolo di «sopportare l’insopportabile». Onoda, compito e serio, rispose che quella era una panzana e frutto della propaganda americana come i volantini firmati da Douglas Mac Hartur con cui gli aerei americani avevano inondato la foresta: «L’Imperatore non parla alla radio». E lui aveva ricevuto degli ordini precisi dal suo comandante, quelli di compiere atti di guerriglia contro il nemico e di resistergli.
Insieme ad altri quattro soldati, aveva applicato la regola del mordi e fuggi; poi due erano morti in combattimento, l’ultimo nel 1972 contro il nemico — che non erano più gli americani, ma la polizia filippina, ma questoOnoda non lo sapeva e la cosa non lo interessava affatto. Il suo Imperatore era il Tenno, un Dio sovrano celeste come lo erano stati tutti i suoi antenati e predecessori, il figlio del Sole, mentre Mac Hartur era soltanto un ridicolo generale americano che andava in giro fumando una pipa ricavata da una pannocchia di mais. No, non si sarebbe arreso così facilmente, avrebbe deposto le armi solo se avesse ricevuto precisi ordini dal suo superiore in grado, che gli aveva ordinato di resistere. Il suo fucile è ancora efficiente e sparava, la sua katana lucida ed affilata; era uno dei suoi doveri quello di mantenere in efficienza le armi, come in ordine la divisa!
Di certo noi e la nostra stampa «illuminata» lo avremmo coperto di contumelie, lo avremmo ridicolizzato egli avremmo tirato addosso la parolina magica che avrebbe risolto il caso: è un fascista, un allucinato e fanatico fascista!! Non lo avremmo rivoluto nemmeno in Italia: ci avrebbe disonorato davanti al mondo! Se non voleva arrendersi erano fatti suoi e della sua cieca e fanatica insulsaggine. In Giappone la cosa fu presa invece sul serio, gli mandarono il suo comandante, per fortuna ancora vivo, lui lo convinse a cedere le armi. Uscì dalla foresta a testa alta, invitto, magro, con lo sguardo fisso verso l’infinito, la barba lunga, il fucile imbracciato, la divisa lisa e rattoppata, il berretto in testa, come si conveniva ad un vero soldato del Mikado. Consegnò, facendo l’inchino, il fucile alla polizia, rispose sull’attenti al saluto dei militari filippini.
Capimmo tutti che avevamo davanti il prototipo di un militare diverso da quello che conoscevamo noi italiani, sempre pronto a tirarsi indietro, ad arrendersi alle avversità che si presentano, con la scusa che è sempre meglio salvare la pellaccia invece della dignità e dell’onore e sempre pronto a scaricare su qualcun altro la responsabilità degli eventi bellici che, guarda caso, nessuno voleva ed auspicava. Onoda era invece un vero soldato giapponese ed all’onore ed alla sua personale dignità non poteva e doveva mai rinunciare! Così comandava il Bushido!

Onoda volle fare tutto per bene e secondo logica: andò fino a Manila per consegnare la sua katana nelle mani del presidente Marcos con deferenza ed inchinandosi, ma non chiese scusa di niente, non si lasciò andare a falsi piagnistei umanisti e non prese nessuna distanza da chi lo aveva mandato a combattere per il Giapponee per l’Imperatore: aveva solo fatto il suo DOVERE. E Marcos lo contraccambiò perdonandogli i saccheggi e gli omicidi che aveva commesso pensando di essere ancora in stato di guerra. Salutò la bandiera e tornò a Tokyo.
Qui l’accoglienza che ricevette non fu quella da ultimo dei mohicani, non trovò all’aeroporto un’orda urlante, che lo insultava, lo copriva di sputi e di improperi come toccò ai nostri reduci alla fine della prima ed anche della seconda guerra mondiale: la folla lo salutò come un eroe.
Del resto anche Mishima ebbe lo stesso tipo di rispetto. Nessuno osò infangare il suo nome, nessuno si prese la libertà di etichettarlo come un fascista ed un volgare criminale. Eppure, davanti alle telecamere, prima di suicidarsi, alla maniera dei Samurai, aveva accusato la classe dirigente del suo Paese di essere una massa di vili per aver accettato la resa alle umilianti condizioni, che in pratica evirava il Giappone privandolo di qualsiasi autodifesa ed asservendolo in modo totale agli Americani. Per lui, la guerra era stata persa in quanto il popolo giapponese «aveva cominciato ad aver paura della morte».
Onoda, dopo il suo ritorno in patria, fu ricevuto dall’Imperatore ed a lui prostrandosi faccia a terra come richiedeva il protocollo chiese scusa per non essere stato capace di dargli la vittoria! Un altro mondo, un’altra concezione della vita!
Aveva 52 anni. Il suo reinserimento in una società nipponica così tanto cambiata e svilitasi rispetto a quella che aveva lasciato quando era andato in guerra, fu difficile. Le parole erano le stesse, ma il significato era molto diverso. Lui affermava che nella giungla il suo unico pensiero era stato soltanto quello di compiere il suo dovere: nel Giappone del 1974 quelle parole avevano un senso soltanto se riferite al campo del lavoro, del guadagno e dell’economia reale, quindi relative soltanto al campo della materialità, mentre il tenente Onoda le proiettava nel campo dello spirito e le legava ad un patto di fedeltà che non aveva bisogno di nessuna contropartita di alcun genere: era una naturale continuazione di uno svolgersi della vita in maniera sempre identica fin dalla sua infanzia: erano il traditur che lo legavano al passato del suo Paese ed al suo futuro: era stato sempre così perché quella era la vita.
Il suo modo di essere fece scrivere ad uno dei più diffusi mezzi di informazione, il Mainichi Shinbun di Tokyo: «Onoda ci ricorda che esiste anche l’aspetto spirituale, qualcosa che potremmo aver dimenticato nella società attuale». Pubblicò le sue memorie che ebbero un successo strepitoso e lo resero ricco: in fondo il Paese del Sol Levante si adattava a quello che i vincitori gli avevano imposto dopo la sua sconfitta, ma l’atteggiamento della gente era quello che avevano i Francesi rispetto al problema dell’Alsazia e della Lorena: pensarci sempre, ma non dirlo mai!
Abbandonò il Giappone americanizzato, se ne andò in una colonia giapponese in Brasile, sposò una maestra della cerimonia del tè, mise in piedi una fattoria ottenendo quel successo che la laboriosità ed il genio del suo popolo hanno sempre saputo conquistarsi in qualunque campo ed a qualsiasi latitudine. Tornò in patria, più tardi; vi fondò una scuola di sopravvivenza, ma spesso tornava in Brasile nella sua fattoria: forse per ritrovare il sé stesso della giungla.
Il 17 gennaio ha definitivamente preso congedo da una vita onorevole e coerente, stroncato da un infarto a 91 anni. Il tenente Onoda se ne andato, ma vedrà il Sol Levante baciare i petali rosa del ciliegio che fiorirà a primavera, in suo onore; se ne è andato salutato dalla commozione di un popolo diventato moderno, ma che sta riscoprendo il bisogno di avere degli eroi e che sta pian piano ritrovando, con dignità, modestia, fermezza, anche la consapevolezza della sua grandezza  riaffacciandosi alla vita, dopo il lungo tunnel dell’umiliazione e della sconfitta.