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L’ateismo è l’esito ultimo e consequenziale di tutta la filosofia moderna

di Francesco Lamendola - 02/02/2014


 


 

La filosofia moderna è caratterizzata da un progressivo allontanamento dalla metafisica, dalla filosofia dell’essere e dall’idea di Dio (dall’idea di Dio, si badi: non dal sentimento di Dio, che può ancora sopravvivere, ma come una manifestazione pratica, come una nostalgia della tradizione, come una abitudine mentale). A partire dall’Umanesimo e dal Rinascimento, si è passati dal concetto dell’autonomia dell’essere umano, a quello dell’autosufficienza della ragione, a forme di laicizzazione e di secolarismo sempre più spiccate, sempre più dure, sempre più aggressive; si è passati al “cogito” cartesiano, che fa piazza pulita di secoli di metafisica, all’autocastrazione del pensiero nel criticismo kantiano, poi al capovolgimento del rapporto tra pensiero ed essere nell’idealismo di Fichte, Hegel, Croce e Gentile (che Maritain chiamava “ideosofia”, negandogli la qualifica di “filosofia”), all’annuncio nietzschiano della “morte di Dio”, quindi, con la fenomenologia e con l’esistenzialismo, all’eliminazione degli ultimi, possibili spazi di riflessione sull’essere e alla riduzione del reale, di tutto il reale, alla sola esperienza soggettiva dell’io pensante.

Ora, la domanda che ci interessa, dal punto di vista filosofico, è la seguente: tale sviluppo era logico e inevitabile, date le premesse, oppure è stato determinato da una serie di variabili estemporanee, che non erano necessariamente contenute nelle premesse iniziali? In altre parole: l’ateismo filosofico è un esito necessario della filosofia moderna o è il risultato di una certa linea di sviluppo imboccata da una certa parte della filosofia moderna, divenuta infine prevalente nel quadro del paradigma culturale della modernità?

La risposta che si vuole dare a questa domanda è essenziale per comprendere non solo la natura dell’ateismo filosofico contemporaneo, ma anche per impostare nella giusta prospettiva ogni eventuale dialogo con la filosofia moderna, da parte di coloro i quali non sono disposti a rinunciare al fondamento filosofico dell’essere. Non si tratta, pertanto, di una questione di poco conto; né si tratta di una generica volontà di dialogare ad ogni costo con la filosofia moderna, ma del riconoscimento della natura e dei limiti che un simile dialogo richiede. Un dialogo, infatti, esige che i soggetti dialoganti siano portatori di una propria specificità e di una alterità reciproca, il che non significa necessariamente scontro o incomprensione fra essi, ma vuole che vi siano chiarezza e distinzione dialettica da parte di ciascuno.

La filosofia classica, se così vogliamo chiamarla, ovvero la filosofia pre-moderna (dalle origini all’Umanesimo) è sempre stata, prima di tutto e sopra tutto, la filosofia dell’essere. A partire da Cartesio, invece, diventa la filosofia del soggetto pensante: movimento che si accentua e raggiunge proporzioni aberranti con l’hegelismo: non è più l’essere che crea il pensiero, ma il pensiero che crea l’essere. A partire da quel momento, l’essere diventa non necessario, e scompare, praticamente, dall’orizzonte filosofico. La filosofia moderna è la filosofia dell’io soggettivo, il delirio solipsistico dell’io soggettivo, la disperazione, l’angoscia, la nausea dell’io soggettivo (Sartre), una lunga marcia verso la morte (Heidegger), dopo che l’io soggettivo si è proposto di creare il paradiso in terra (illuminismo, marxismo, positivismo) e ha miseramente fallito, e dopo la sconcertante scoperta del fondo melmoso da cui partono le pulsioni inconsce (psicanalisi freudiana).

Ora l’intelligenza si affida alle macchine e chiede ad esse, ai computer ed ai cyborg, di creare le condizioni per la “felicità” sulla terra; ma del pensiero in quanto tale, della ricerca filosofica in quanto ricerca intorno all’essere, non si parla più, essa è considerata un intollerabile anacronismo, qualche cosa di cui l’uomo moderno non sente il bisogno e, quindi, può benissimo fare a meno. L’uomo moderno sta diventando, e in parte è già diventato, “naturaliter” ateista, nel senso che la domanda dell’essere, la nostalgia dell’essere, la ricerca dell’essere, sembrano aver perduto per lui qualsiasi significato, sommerse dalla quantità delle cose materiali che la civiltà della tecnica immette continuamente nel suo orizzonte esistenziale, mentale, affettivo. La rincorsa degli enti corrisponde all’oblio dell’essere, ne è la causa e l’effetto al medesimo tempo; e vede l’uomo sempre più auto-centrato, ma, nello stesso tempo, sempre più alienato da se stesso, sempre più infelice, sempre più smarrito e scoraggiato.

Un pensatore moderno non abbastanza conosciuto, Cornelio Fabro (1911-1995), friulano di Talmassons, grande conoscitore e divulgatore del pensiero di Kierkegaard in Italia, è stato una delle menti più lucide nel riconoscere la vera origine e la vera natura dell’ateismo filosofico contemporaneo. La sua voce, così come quella di un altro grande filosofo e teologo svizzero-italiano, Romano Amerio (1905-1997), è giunta solo ad un pubblico ristretto, probabilmente perché troppo lucida e coraggiosa, troppo schietta e in contrasto con il clima di malinteso ecumenismo e di equivocità accomodante che gli ambienti dominanti della cultura filosofica italiana, compresi quelli cattolici, cercavano di imporre negli anni Sessanta e Settanta del secolo appena trascorso, specialmente nel clima creatosi a seguito del Concilio Vaticano II.

Da buon friulano di ceppo verace, Fabro non era uomo da indulgere in soverchia diplomazia: diceva pane al pane e vino al vino, senza arroganza e senza superbia, ma con assolute linearità e coerenza, senza troppo preoccuparsi se i tempi non erano propizi a una tale franchezza e se, fatalmente, la sua posizione sarebbe stata interpretata come retrograda, reazionaria e di sterile chiusura. Fabro non faceva un discorso ideologico (anche se aveva le idee chiare nell’ambito del pensiero politico: fu un nemico irriducibile del “compromesso storico”), non cercava di piacere né temeva di dispiacere; si limitava ad una riflessione filosofica in senso stretto, per poi trarne le necessarie conseguenze: se la filosofia è, prima di tutto, il discorso sull’essere, e se tale è sempre stata, da Platone a Tommaso ed oltre, allora ne consegue che la filosofia moderna ha smesso di essere filosofia, è diventata un’altra cosa; e questa non-filosofia, che si spaccia però per filosofia, non è stata frutto di un caso imprevedibile, ma la logica e necessaria conseguenza della svolta inaugurata dal “cogito” cartesiano e, poi, dal criticismo e dall’idealismo. Quindi, per Fabro, l’ateismo non è stato la molla segreta di un movimento di idee inteso a negare Dio, ma l’inevitabile conseguenza di una filosofia che, a partire da un certo momento, ha rovesciato la relazione fra il pensiero e l’essere, fra la creatura e il creatore, e, poi, non ha potuto fare a meno di constatare come non ci fosse più spazio per un discorso sull’essere, e dunque su Dio, nel proprio orizzonte concettuale.

Riportiamo una sintesi efficace della posizione di Cornelio Fabro riguardo al problema dell’ateismo nella cultura moderna, nelle parole di Giuseppe Pirola («Cornelio Fabro, critico della filosofia moderna», su «La civiltà cattolica», n. 3823, 2009, pp. 26-28):

 

«Il tema dell’ateismo fu trattato da Fabro in un volume edito nel 1961 [cioè “Introduzione all’ateismo moderno”]. Esso si stava imponendo all’attenzione non solo del mondo cattolico. Nello stesso anno era uscito “L’eclissi del sacro nella civiltà industriale” di Sabino Acquaviva, uno studio sociologico che fece scalpore, suscitò vivaci discussioni e diede inizio a una nuova e ampia ricerca sociologico-religiosa, con esiti e conclusioni diverse.[…] Lo stesso tema fu trattato in un Convegno del Centro di studi filosofici di Gallarate sempre nel 1961, i cui atti furono editi soltanto nel 1964, dominato dall’interpretazione che ne aveva dato Maritain. Al convegno Fabro non fu presente, né risulta fosse stato invitato; la sua interpretazione dell’ateismo della filosofia moderna non fu neppure menzionata. […] Fu in quel convegno che Del Noce, in una comunicazione, presentò l’abbozzo della sua interpretazione che poi sviluppò nel noto libro, dal titolo “Il problema dell’ateismo”, edito nel 1964.

Eravamo nel clima del dialogo tra Chiesa e mondo, inaugurato da Giovanni XXIII, e alle soglie del Concilio, aperto a Natale del 1961, che dell’ateismo moderno si occupò nella costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, uscita nel 1965. L’oggetto della questione anticipava quindi i futuri lavori del Concilio su quel tema. L’originalità della posizione di Fabro è rilevabile attraverso il confronto tra la sua analisi dell’ateismo e quella di Del Noce. Per Fabro l’ateismo filosofico è l’esito ultimo consequenziale di cui la modernità filosofica costituisce l’inizio in forza del principio del “Cogito ergo sum”, la scoperta moderna della soggettività per alcuni, inficiata per Fabro dall’immanenza dell’essere al pensare, cioè alla coscienza del soggetto pensante, che pone fine al principio primo della metafisica classica e, soprattutto, tommasiana, la priorità e trascendenza dell’essere al pensare, su cui poggia la relazione tra uomo e Dio per Tommaso. Questa interpretazione pone in evidenza il principio dell’ateismo della filosofia moderna e spiega perciò di quale ateismo si tratti. L’ateismo della filosofia moderna non consiste nel negare Dio; la negazione di Dio è soltanto logicamente consequenziale a un errore circa il nesso pensiero-essere. La conseguenza logica tra principio primo della filosofia moderna e ateismo è ineludibile. Logicamente infatti, l’assolutizzazione della soggettività è la premessa dell’ateismo filosofico, per la semplice ragione che se l’essere è immanente alla coscienza pensante, anche Dio non può risultare che egli stesso un prodotto della coscienza umana stessa, conclusione tratta da Marx stesso. Perdendo il nesso ontologico tra pensiero ed essere, anziché esaltare l’uomo come soggetto pensante, la filosofia moderna finisce con il perdere il senso ultimo possibile dell’esistenza umana. E riduce la filosofia moderna stessa a non-filosofia in risposta al problema dell’essere e dell’esistenza umana. Questa interpretazione di Fabro dell’ateismo non si limita all’ateismo filosofico, o a un problema pertinente e interno alla filosofia, ma indica quel rovesciamento del nesso pensiero-essere che ha rovesciato il modo di pensare il rapporto tra l’uomo e la realtà, con un effetto a pioggia su tutti gli ambiti delle scienze settoriali. Fabro conclude: “Incipit tragoedia hominis moderni”.

Una simile condanna senza resti della filosofia moderna sembrò eccessiva ad Abbagnano, che ne denunciò il rischio di un’autorescissione della filosofia cristiana dalla filosofia moderna e da ogni possibile dialogo con essa; parve una condanna unilaterale di Cartesio anche a un pensatore cattolico come Del Noce, che propose una propria visione alternativa di Cartesio. La durezza di Fabro però va colta nel suo senso di fondo: Fabro anziché opporre fede cristiana e filosofia moderna, mantiene la questione sul piano filosofico e pone alla filosofia moderna un problema preliminare a quello del suo ateismo consequenziale: che ne è della ragione umana e che ne è quindi della sua libertà  nella filosofia moderna, riportando la questione dell’ateismo alla questione filosofica di fondo: che ne è dell’essere e dell’esistenza umana nella filosofia? Fabro dà ovviamente la sua risposta che conosciamo ormai, cioè che la soluzione del problema antropologico consegue alla soluzione del problema ontologico; ma tenendo fermo che la storia della filosofia ha la sua origine e principio dinamico nel problema dell’essere e dell’esistenza umana o libertà. Ed è su questo problema che Fabro apre il dibattito con la filosofia moderna e contemporanea, avendo dato prova con la sua analisi della fenomenologia e dell’esistenzialismo che il richiamo al principio originario e dinamico della storia della filosofia non apre un conflitto tra soluzioni opposte, ma è il problema sul quale la filosofia intera è convocata perché in quel problema e nelle soluzioni proposte ne va della ragione umana stessa. Questa era la prospettiva di Fabro.»

 

Certo, si può non essere d’accordo con l’analisi di Cornelio Fabro; ma è difficile, molto difficile negare la linearità e la consequenzialità del suo ragionamento, che è un ragionamento, ripetiamo, non ideologico e perciò non preconcetto, ma prettamente critico-filosofico. La sua domanda, incalzante, implacabile, risuona tuttora senza risposta: che ne è dell’essere, che ne è dell’esistenza umana nella filosofia contemporanea? Se non c’è più posto per l’essere, allora non c’è più spazio per un orizzonte di senso nell’esistenza umana: e la pazzia, la rivolta contro se stessi e contro gli altri enti, diventano la norma, la logica conseguenza di questo vuoto, di questa privazione della tensione ontologica e della speranza.

Oggi stiamo assistendo a una sorta di mutazione antropologica: si direbbe che l’uomo contemporaneo non avverta più nemmeno la nostalgia dell’essere. Avverte però, e fin troppo, l’angoscia che ne deriva: solo che non osa spingere a fondo la domanda sul perché, e tende a scaricarne la causa su circostanze del tutto accessorie o su fattori secondari. Si è amputato della propria anima, e crede di soffrire perché ha smarrito il cappello o il fazzoletto…