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Il bello piace ai neuroni. L’estetica diventa scienza

di Pierluigi Panza - 02/02/2014



Per gli empiristi John Locke e David Hume il cervello era una tabula rasa e la comprensione delle cose avveniva a partire dagli stimoli esterni. Kant dimostrò che potevano esserci categorie a priori e Gustav Fechner, fondatore della psicofisica, ritenne di aver individuato un’equazione per quantificare il rapporto tra stimolo e sensazione (S = c logR ). Negli ultimi 150 anni, il comportamentismo e la psicologia cognitiva — le discipline che studiano il rapporto tra stimolo fisico e sensazione soggettiva provata — hanno fatto capolino diverse volte nella teoria della progettazione e della comprensione dell’arte e dell’architettura. Nel momento in cui, con la prossima Biennale di Venezia (Fundamentals ), l’architettura si appresta a fare i conti con l’unilateralismo e la perdita di identità determinate «dall’evoluzione dell’architettura verso un’unica estetica moderna globale» (secondo il curatore Rem Koolhaas), alzare la sfida significa pensare a un’estetica della progettazione che salvaguardi il patrimonio costruito e le identità, ma metta al bando il formalismo. 
La neuroestetica, fondata da Semir Zeki ha mostrato — attraverso campioni di individui sottoposti a risonanza magnetica — come materiali, forme, colori, oggetti, odori e paesaggi (sia reali che dipinti) attivino in ciascuno di noi specifiche aree del cervello identiche a quelle che si attivano di fronte a varie situazioni. Di fronte a quadri ritenuti orribili, ad esempio, si attiva la stessa area cerebrale di quando si prova paura, mentre di fronte a opere ritenute belle si attivano i neuroni delle medie orbite frontali della corteccia e del lobo parietale sinistro, le stesse che si attivano nell’amore romantico. 
Muovendo poi dalla scoperta dei neuroni specchio, effettuata nel 1996 dall’equipe composta da Rizzolati, Fogassi e Gallese, un teorico dell’architettura dell’Illinois Institute of Technology, Harry Francis Mallgrave, ha cercato di dimostrare come lo spazio si comprenda a partire dall’attività motoria del corpo umano. La teoria dei neuroni specchio, infatti, ha dimostrato come i neuroni che si attivano quando compiamo una determinata azione si attivino anche se vediamo un altro compiere o qualcosa indurre a quell’azione. Così le forme che si trovano nello spazio esterno attivano specifiche aree cerebrali in relazione alle azioni verso le quali indirizzano (oltreché in base a forme, colori, tattilità). Da qui la differenza di stati d’animo che generano le forme aguzze o quelle tonde, determinati colori, un ambiente conosciuto ma ora illuminato ora annebbiato (si pensi alle installazioni di Dan Flavin e di Olafur Eliasson) e le forme intenzionate (la maniglia che invita alla presa, eccetera). Mallgrave ha teorizzato questo in un libro che sta ottenendo una certa fortuna nel mondo anglosassone (Architecture and embodiment. The implication of the new sciences and humanities for design , Routledge, Londra New York, 2013) sino a spingersi a una comparazione facile da capire: se vedo un San Sebastiano vengono stimolate in me le condizioni emozionali come se io fossi trafitto (qualcosa del genere vogliono ottenere con le loro opere Plessi e Kapoor…). 
Oltre a offrire una nuova visione critica di ciò che piace nell’arte e nell’architettura, questa teoria empatica può essere considerata in fase progettuale per ottenere specifici stati d’animo nel fruitore. Per ottenere un effetto-straniamento, nel Museo ebraico di Berlino Daniel Libeskind ha utilizzato spazi a zig zag che si stringono, finiscono in zone buie e coni verticali per sentire rumori da lontano… È chiaro che questa nuova frontiera può far derivare le forme a partire da una comprensione dello spazio sganciata dalle rivendicazioni di linguaggi architettonici. Sebbene appaia rispondere meglio alla progettazione di oggetti di design, questa via riavvicinerebbe l’architettura alla settecentesca «architettura parlante» teorizzata da Germain Boffrand, quella in cui gli spazi progettati esprimono (e inducono a) qualcosa di specifico.