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Il Rinascimento è mai finito?

di Francesco Lamendola - 05/02/2014

 


 

È mai finito, il Rinascimento?

Si credeva di sapere quando e perché incomincia, quando e perché finisce; ma ora gli storici non ne sono più tanti sicuri, come lo erano in passato.

Per quanto riguarda l’inizio, a lungo si è vista – con Jakob Burckhardt – la civiltà rinascimentale come un fiore sbocciato nel deserto (del Medioevo), come una creazione eccezionale e irripetibile, sostanziata dalla volontà di ripristinare la civiltà classica, il suo stile, le sue forme, e, in buona parte, i suoi valori. Ma la cosa non appare più tanto scontata ed evidente: a partire da Johan Huizinga, si è via via imposta un’altra visione del Medioevo, che non viene bruscamente archiviato, ma che si spegne lentamente, che appassisce come un albero autunnale e che si trasforma in qualcosa di diverso, in un nuovo mondo di forme e di valori, legato però, mediante mille fili, al mondo originario dal quale deriva. Determinare la fine del Rinascimento, poi, ci sottopone un problema ancora più arduo: agli eventi tradizionali – la caduta di Costantinopoli, la scoperta dell’America – si oppone la considerazione che non vi fu una rottura drastica, nella linea di sviluppo della civiltà europea, se non fino alla Rivoluzione industriale: in questo senso, come sostiene Jacques Le Goff, il Medioevo finisce nel XIX secolo; e, di conseguenza, il Rinascimento, come generalmente lo s’intende, non è forse mai esistito.

Eppure, si dice, il Rinascimento rappresenta l’inizio della modernità. Una simile tesi può anche essere condivisa, a patto che si chiarisca a quale ambito si riferisce: se alla sfera delle idee e dei valori, o a quello della vita pratica; e, più ancora, se si riferisce alle élite intellettuali e artistiche, oppure alla massa della popolazione.

Dal punto di vista della cultura, il Rinascimento, se non altro per il disprezzo che riserva al Medioevo e per la sconfinata ammirazione che tributa all’antichità classica, certamente rappresenta una frattura nella storia europea, peraltro più psicologica e soggettiva, che reale. Gli scrittori, i filosofi, gli artisti rinascimentali sono orgogliosamente consapevoli di voler rappresentare qualcosa di nuovo, che però, paradossalmente, si richiama all’antico; non vogliono riconoscere il loro debito con la tanto biasimata civiltà medievale, da essi equiparata a una vera e propria “barbarie”: eppure è cosa evidente che, senza l’amore degli uomini di cultura del Medioevo per la classicità (non era ancora nata l’esecrabile categoria dei sedicenti “intellettuali”), anche se filologicamente “ingenuo” e sprovveduto, come quello di Dante per Virgilio, il Rinascimento stesso non sarebbe stato neppure concepibile.

Altra cosa è il modo di vivere: con la sola eccezione delle corti, nel XV e XVI secolo ben pochi cambiamenti si verificano nello stile di vita rispetto ai secoli precedenti, nelle tecniche produttive, nello stesso immaginario collettivo. L’invenzione della stampa, è vero, crea le premesse per una rivoluzione culturale, che sarà subito sfruttata dal luteranesimo e dal calvinismo; gli studi di Copernico creano le premesse per una rivoluzione non solo scientifica, ma altresì intellettuale e filosofica; i viaggi di scoperta, di commercio e di colonizzazione, raddoppiano e quadruplicano la scena della storia europea, dilatandola a dimensioni mondiali, con tutte le implicazioni culturali e spirituali che ciò comporta; e l’avvento del moderno capitalismo, con la nascita delle grandi compagnie commerciali e soprattutto delle banche e delle borse, pone i presupposti per l’ulteriore evoluzione dell’economia occidentale in senso industriale e finanziario.

Pure, tutte queste trasformazioni non bastano ancora a delineare una frattura irreparabile con il passato, tanto più che il passaggio dal vecchio mondo al nuovo avviene in maniera da mescolare abbondantemente i rispettivi contenuti. Colombo scopre l’America, è vero: ma senza averlo voluto, senza averla riconosciuta, e, soprattutto, con lo scopo iniziale di procurare al Papa e all’Occidente le risorse per riprendere la guerra contro il Turco e strappargli Gerusalemme e la Terra Santa, a maggior gloria di Dio e per la sicurezza dei pellegrini cristiani. Copernico spalanca nuovi orizzonti cosmologici, è vero: ma, in fondo, non fa altro che riprendere la vecchia ipotesi di Aristarco di Samo; né lui, né, forse, lo stesso Galilei, immaginano che quello sarà l’inizio di un radicale cambiamento nel modo di concepire il rapporto fra l’uomo e il creato e, in ultima analisi, fra l’uomo e Dio (con buona pace del Galilei di Bertolt Brecht, che tale consapevolezza possiede in pieno). Il libro stampato si diffonde ovunque e alimenta fenomeni culturali nuovi, compreso il diffondersi di opinioni religiose eterodosse: ma non si dimentichi che le persone in grado di leggerlo sono ancora pochissime e che il suo costo è ancora proibitivo per la grande maggioranza della popolazione; e, inoltre, che esercitare un controllo e una censura su di esso è ancora cosa relativamente facile, a differenza di quello che sarebbe oggi, nell’era della rete informatica. Quanto al capitalismo industriale e finanziario, sta muovendo appena i primi passi: prima che la trasformazione arrivi a segnare e modificare in profondità la vita delle popolazioni, occorreranno ancora non meno di tre secoli.

La cosa più importante di tutte, ad ogni modo, è che il Rinascimento riguarda piccole minoranze istruite; e, se è vero che il teatro di Shakespeare, per esempio, penetra fra le masse e incomincia a diffondere il nuovo ideale anche al fuori della corte, generalmente, in Europa, fino al XVIII secolo le popolazioni rurali, e buna parte di quelle urbane, rimangono ancorate, sostanzialmente, ai vecchi modi di pensare, di sentire, di pregare, di lavorare, di impiegare il tempo libero, del tutto indifferenti alle orgogliose declamazioni di Marsilio Ficino, di Tommaso Campanella, di Francis Bacon o alla “rivoluzione pedagogica” di un Vittorino da Feltre, che, in fondo, coinvolge poche decine o centinaia di bambini ed insegnanti (così come, assai più tardi, sarà per le tanto sbandierate “rivoluzioni pedagogiche” di Lev Tolstoj e di don Lorenzo Milani).

Si dirà che la distanza fra le élite dominanti e la massa del popolo è sempre esistita, sia nell’antichità, sia nel Medioevo, e che non è certo un elemento nuovo, introdotto dal Rinascimento. In un certo senso è vero, ma solo in un certo senso. Limitandoci al Medioevo (per non allargare eccessivamente il discorso), sarebbe forse più esatto dire che le élite culturali medievali detenevano e forgiavano un sapere che non era, certamente, alla portata dell’uomo della strada, ma le cui basi spirituali e le cui premesse culturali e religiose affondavano nello stesso terreno della concezione popolare dell’uomo, della vita, di Dio. Il contadino medievale e San Tommaso d’Aquino credevano nel medesimo Dio, nel medesimo tipo di valori, avevano la stessa idea dell’uomo, anche se, ovviamente, su livelli di approfondimento e di riflessione diversi.

A partire dal Rinascimento, invece (ma la cosa è già ben visibile in Petrarca), non è più così; nasce una élite intellettuale che si vanta di distinguersi dalla massa, che ostenta un sovrano disdegno verso i contadini, i lavoratori manuali, e che si sente infinitamente più vicina ai classici latini e greci che ai propri concittadini in carne ed ossa appartenenti ai ceti inferiori: tanto è vero che questa élite predilige esprimersi in latino, lingua sconosciuta alle persone comuni. In effetti, con il Rinascimento incomincia la frattura tra la società civile e il mondo della cultura “alta”: due universi separati, che non s’incontrano, che non cercano neppure di dialogare, di conoscersi, ma che vivono ignorandosi reciprocamente.

Gli intellettuali, d’altra parte, sentono di rappresentare l’innovazione vincente, di rappresentare il futuro, e, sostenuti da tale certezza, conducono la loro battaglia nella sicurezza della bontà della loro causa e nella vittoria finale: sanno che sono gli altri, le masse popolari, che, un poco alla volta, dovranno adeguarsi e riconoscere la giustezza della loro visione del reale, anche se, per il momento, non si affannano troppo a diffonderla e a volgarizzarla, quasi temendo di contaminarsi e di degradarsi. Per intanto, che i “villici” continuino pure a ritenere che la Terra è piatta (lo crederà ancora la “signorina Felicita” di Guido Gozzano, ai primi del Novecento): che importa? Il mondo della cultura va avanti a dispetto della loro “ignoranza” e delle loro “superstizioni”.

Si tratta di una linea di pensiero e di un atteggiamento mentale che le élite odierne hanno conservato pressoché immutato, di “avanguardia” in “avanguardia”: gli architetti, gli urbanisti, i pittori, i filosofi, i teologi, tutti vanno avanti per la loro strada, impongono le loro idee e le loro opere, incuranti dello scarso apprezzamento, della perplessità del “popolo”: ritengono che un certo grado di incomprensione sia lo scotto che il genio deve pagare all’ignoranza dei più, e s’immaginano di essere tutti dei geni che, incompresi sul momento, verranno alla fine riconosciuti da tutti, e le cui opere resteranno a testimonianza imperitura della loro lungimiranza e della loro “modernità”. Perché “moderno”, a partire dal XVI secolo, vuole dire “migliore” di ciò che esisteva prima: un’idea del tutto sconosciuta al Medioevo (ma anche all’antichità classica, se è per questo), il cui valore fondamentale, anche in ambito culturale, era la stabilità fondata sulla tradizione e per il quale la bontà di una cosa non si misurava dalla sua “novità”, ma, al contrario, dal suo essere collaudata, sperimentata e attestata “ab antiquo”.

Allo stesso modo, che le persone del popolo seguitino pure a pensare al mondo della politica come a un prolungamento di quello della morale; che importa se non hanno letto Machiavelli e non hanno compreso che la politica è una scienza autonoma, slegata da ogni principio morale astratto? Tanto, essi non contano nulla: sono sudditi, è sufficiente che obbediscano alle leggi e che paghino le tasse e le decime. Quando sarà ora di far loro aprire gli occhi, ci penserà lo Stato: per esempio, eccitando i loro sentimenti contro il nemico di turno, interno o esterno. Anche questa è un’idea della politica che nasce nel Rinascimento e si prolunga fino ad oggi.

Sia chiaro: non è che nel Medioevo non vi fossero uomini politici che agivano senza tener conto della morale e della religione; nessuno di loro, però, salvo rarissime eccezioni, avrebbe osato vantarsene. Perché, nel Medioevo, la politica era considerata un ramo della morale, e più precisamente della morale cristiana: le guerre, per esempio, dovevano essere interrotte dal venerdì a tutta la domenica, per rispetto alla Passione del Signore. I patti si giuravano sulla Bibbia e così pure si faceva nei tribunali; il potere politico era investito da Dio e se ciò, da un lato, faceva sì che fosse “sacro” agli occhi dei sudditi, dall’altro lato caricava i sovrani e i loro rappresentanti di una enorme responsabilità morale e li rendeva responsabili delle loro azioni davanti a Dio, per il tramite del Papa e della Chiesa. La scomunica, che poteva abbattersi anche sul sovrano più potente di tutti, cioè sull’imperatore, attendeva quanti trasgredivano a tale indefettibile principio.

L’idea che il potere sia qualcosa di puramente umano nasce con Machiavelli, si rafforza con Hobbes (che ne teorizza la netta separazione dalla religione) e si carica poi, con Locke e soprattutto con Rousseau, dell’ulteriore acquisizione che il vero sovrano è il popolo: gli Stati moderni sviluppano l’idea della sovranità popolare e attribuioscono all’uomo ciò che prima spettava a Dio. L’uomo moderno diventa, così, il Dio di se stesso: le sue leggi sono leggi puramente umane; la sua giustizia, una giustizia puramente umana: tutte idee che avrebbero meravigliato e scandalizzato l’uomo medievale, tanto l’analfabeta quanto lo studioso.

È quasi inutile precisare che, quando diciamo “Medioevo”, intendiamo una civiltà durata una decina di secoli e che, dunque, al suo interno si trovano differenze notevoli, mano a mano che ci si allontana dal suo nucleo originario, germanico e feudale, e ci si inoltra verso la modernità. Ma quando abbia inizio la modernità, è cosa assai ardua da determinare: come si è visto, c’è spazio per fissarla dal crollo dell’Impero Bizantino alla Rivoluzione industriale.

Ha scritto Jean Delumeau nel suo saggio «Che cos’è il Rinascimento?» (nel volume collettaneo «Il Rinascimento italiano e l’Europa», Fondazione Cassamarca, Colla Editore, 2005, vol. 1, pp. 37-39):

 

«Non è sbagliato chiedersi oggi: “Che cos’è il Rinascimento?”; o riformulare la domanda in questo modo: “Il Rinascimento è mai esistito?”. Più volte, anche rivolgendosi al grande pubblico, Jacques Le Goff ha dichiarato che il Medioevo è finito nel XIX secolo. Dal punto di vista della cultura materiale e delle conoscenze scientifiche certamente noi siamo molto più lontani degli uomini dei tempi di Luigi XIV di quanto costoro non lo fossero dai Greci dell’età di Pericle. L’industrializzazione, la ferrovia, l’invenzione del motore a scoppio, l’uso dell’elettricità e la rivoluzione informatica che è sotto i nostri occhi hanno respinto e continuano più che mai a relegare in blocco in una specie di preistoria, in rapporto a noi, tutti i periodi che hanno preceduto la modernità tecnica e scientifica. Partendo da questa analisi Jean Fourastié scriveva che rispetto ai “gloriosi [anni] Trenta” noi siamo “su un altro pianeta”. Da qui forse certa indifferenza o sufficienza da parte dei giovani nei riguardi di un passato da essi considerato, all’epoca del trionfo di internet e dei telefoni cellulari, nel suo insieme senza importanza. Ma se, per non essere privati delle nostre radici, ci rifiutiamo di fare tabula rasa del passato, ritorna allora la domanda: “Che cos’è il Rinascimento?”. L’interrogativo è tanto più legittimo dal momento che il concetto di Rinascimento è stato sottoposto a un processo riduttivo. Nei libri di storia si parla di “Rinascimento carolingio” e di “Rinascimento del XII secolo”. Perché si ricorre allo stesso termine? Perché, anticipando in qualche modo quello che avverrà su più grande scala nel XV e XVI secolo, i letterati contemporanei di Carlo Magno e quelli del XII secolo si sforzarono di promuovere un ritorno alle opere dell’antichità classica. La storiografia utilizza retroattivamente una formula che, a rigore, dovrebbe essere riservata solo al movimento iniziato da coloro che l’hanno inventato. Ora, “Rinascita”, da Petrarca a Vasari attraverso Villani e Alberti, significa “risveglio delle (antiche) muse addormentate”, un ritorno, grazie all’antichità meglio conosciuta,  all’eloquenza e alla grammatica,  una ripresa dei canini estetici dell’arte greco-romana. Non c’è dubbio che questo sguardo pieno di ammirazione verso un passato artistico e letterario simboleggiato da Atene e da Roma abbia provocato in Europa, a partire dall’Italia delle fine del XIV secolo, degli sconvolgimenti culturali che prima certo non si erano verificati né con il “Rinascimento carolingio” né con quello del secolo XII. Questa evidenza storica viene confermata dall’esperienza. Il lettore, anche quello superficiale, si accorge subito che le opere dei poeti francesi della Pléiade sono pervase di mitologia e i “Pensieri” di Montaigne di citazioni di autori latini e greci. Il turista riconosce immediatamente come rinascimentale un monumento caratterizzato da strutture architettoniche orizzontali, frontoni triangolari o curvilinei, archi di cortili interni a tutto sesto, pilastri istoriati, capitelli dorici, ionici o corinzi, decorazioni scultoree a ghirlande e palmette ecc. Oserei dire che per il turista in questione il problema di sapere se il Rinascimento  sia mai esistito non si pone. Lo vede con i suoi occhi in San Lorenzo a Firenze o nel castello di Anet.  A Vannes, per esempio, il contrasto tra la cattedrale gotica e l’annessa cappella circolare costruita nel 1537 nel più puro stile italiano delle poca ha un’evidenza pedagogica. Ampliando il discorso, appare del tutto chiaro, allo storico e a chi non è specialista, come il recupero di un patrimonio spesso precristiano abbia indotto senza dubbio anche alla riscoperta e alla riappropriazione di valori terreni. In questo senso il Rinascimento segnò la fine dell’era teologica medievale. L’arte accordò un’importanza sempre maggiore al viso e al corpo umano. Inoltre i palazzi, i giardini, le feste, le smanie edificatorie e anche il peso crescente dei fattori economici assottigliarono progressivamente, nella nuova cultura, l’interesse un tempo riservato a Dio. L’uomo si appropriò così di una parte dello spazio che prima era dedicato alla religione. La visita, anche rapida, a un museo permette di cogliere in maniera chiara questo passaggio dal Medioevo al Rinascimento. Tuttavia, nonostante l’evidenza, la parola “Rinascimento” è utilizzata con significati diversi, così come il termine “Medioevo” che le sta a fronte. L’origine è polemica. Nello spirito dei creatori del Rinascimento, il termine indicava la rottura e il desiderio, come diceva Leonardo Bruni, di “ridare luce all’antica eleganza di stile che si era perso e spento”. Si trattava, come affermò più tardi Jacques Carron nella prefazione a una nuova edizione degli “Adagia” d Erasmo del 1571, di fare riemergere “le belle lettere dal fango della barbarie”. Vasari lodò gli artisti toscani che, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, “abbandonando il vecchio stile, cominciarono a copiare gli antichi con alacrità e diligenza”. Marsilio Ficino espresse bene la coscienza, forse un po’ ingenua, che il Rinascimento ebbe di se stesso, e lo contrappose con disprezzo al periodo precedente con questa celebre affermazione: “Si tratta di una vera età del’oro che ha riportato alla luce le arti liberali prima quasi estinte: grammatica, eloquenza, pittura, architettura, scultura, musica. E tutto a Firenze”.»

 

Concludendo: la vera cesura non è fra Medioevo e Umanesimo, ma, semmai, fra Umanesimo e Rinascimento; l’uno ancora consapevole dei limiti umani (la “dotta ignoranza” di Nicola Cusano), l’altro che, pur riconoscendoli (“virtù” contro “Fortuna” di Machiavelli), pretende di oltrepassarli con le sole forze umane (gli “eroici furori” di Bruno), iniziando ad avvitarsi in quel circolo chiuso che si prolunga, dimentico dell’essere, fino a Kant, a Hegel, a Nietzsche, a Husserl e a Sartre. In questo senso, il Rinascimento non è mai finito: e noi ne siamo gli eredi diretti, nel bene e nel male...