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Come mosche

di Lorenzo Parolin - 05/02/2014


 


 

È sabato pomeriggio e mi sto godendo mezzora di “relax”, sdraiato sul divano. Fuori c’è un bel sole, ma non è una giornata da finestre spalancate. A pancia all’aria, con gli occhi chiusi, seguo le evoluzioni di una mosca che ritmicamente va a cozzare contro il vetro. Essa vede luce oltre la finestra, ma il vetro la ferma. Torna indietro, prende la rincorsa e picchia un poco più in là e poi un po’ più in qua e ci riprova, con più o meno forza, finché non cade esausta. Il ferma vetro della finestra è pieno di insetti che durante la settimana hanno cercato inutilmente una via d’uscita.

Di lontano si ode appena una melodia di Vivaldi. Ad un tratto, gli strumenti ad arco ingrossano la voce per imitare i tafàni e, quasi spaventata, si stacca dal soffitto una grossa mosca che, con ronzio cupo e ritmo cadenzato, va a picchiare contro il vetro, e insiste e continua che quasi mi fa pena; ogni volta prende una rincorsa più lunga e quando sbatte rimane tramortita e cade, ma a mezz’aria riprende il volo e continua e continua.    

All’improvviso però il volo si fa più largo, spazia intorno alla stanza e poi il ronzio si allontana. Ce l’aveva fatta. Dal lato opposto alla finestra, attraverso la porta che era sempre rimasta aperta, la mosca aveva conquistato la libertà. In quell’istante si è accesa nella mia mente una grande luce. Avevo finalmente capito dov’era la felicità: l’avrei trovata dalla parte opposta a quella in cui la stavo cercando affannosamente. Era sempre stata mia convinzione che nessuna persona sana di mente potesse prendere sul serio il comandamento che dice: “ama il prossimo tuo come te stesso”, e ritenevo logico il suo contrario, cioè: “ama te stesso sopra tutto”. Ma c’era qualcosa che non quadrava in quest’ultimo modello, perché la felicità, almeno la mia, non si faceva vedere. Nonostante avessi raggiunto un alto grado di cultura, godessi di ottima salute, avessi successo, potere, piaceri, agiatezza, raffinatezze e tutto il desiderabile, avvertivo un senso di vuoto come se mi mancasse sempre qualcosa. Infatti mi mancava l’esperienza dell’amore: non gli amplessi con i quali viene spesso confuso, ma il fare del bene e aiutare gli altri. L’esistenza della via dell’amore mi era nota da sempre, ma, avendole girato le spalle, tutto continuava ad avvenire come se non ci fosse. Quel giorno ho capito che la mia felicità non aveva sede in me, ma era stata frazionata dalla “Natura” e posta dentro il “prossimo”. Per trovarla dovevo andare da chi la custodisce e riuscire ad aprirgli il cuore, perciò, la chiave della felicità è l’amore. Nessuno può essere felice da solo, perché, mancandogli la parte che risiede negli altri, sarebbe un povero mutilato; solo accogliendo l’altro, senza usarlo, il senso di vuoto e di incompletezza sparirà, per lasciare posto alla felicità. E la natura non è ingiusta se a qualcuno concede più talenti o più fortuna che ad altri, perché ciò è ininfluente ai fini della felicità. Felice diventa solo chi ama il prossimo, qualunque sia la sua condizione sociale, ed essere potente o ricco non dà alcun vantaggio, anzi, c’è il pericolo che molti possano credere all’equivalenza: potere più ricchezza uguale felicità, e si sviluppino dalla parte sbagliata. Può addirittura succedere che, assetati di potere e di ricchezza, si arrivi a opprimere e a sfruttare la fonte della propria felicità: il prossimo. Come potrà mangiare uva chi bastona in continuazione la propria vigna?

A volte mi stupisce il fatto che io abbia impiegato tanto tempo a capire una cosa così importante; allora mi accorgo che nella nostra società manca la cultura dell’amore. Infatti si insegna sempre a fare i propri interessi e a chi fa il contrario  si dice: ”Bauco, sveiate!”  In questo clima, chi può lasciarsi anche solo sfiorare dal dubbio di essere nell’errore? Nessuno! E tutti seguono la corrente.

Qualcuno potrà chiedere: “Perché così pochi praticano il comandamento della carità, se può dare in cambio la felicità?”

Perché amare il prossimo è fatica, costa denaro, prende tempo e implica dare per primi, fare per primi, piegarsi per primi e fare tutto senza scopo di ricevere qualcosa. La gente, invece, non è disposta a rischiare niente, vuol essere sicura di ricevere prima di dare e non si rende conto che, con l’amore, anticipando uno, si può ricevere cento; infatti, questa è la remunerazione dell’amore, ma essa arriva sempre in un secondo tempo.

Ci si può chiedere da dove sbuchi questo comandamento e la risposta è che esso è piovuto dal cielo. Dio ha visto che l’uomo non sapeva più che pesci pigliare, allora è intervenuto facendogli un dono: gli ha rivelato le regole per una vita perfetta. Per chi non crede in Dio, le cose sono complicate; egli non potrà accettare quelle leggi: vorrà farsele con le sue forze, vorrà sperimentarle e migliorarle, ma le varianti possibili sono così tante che, dopo millenni, le regole umane sono ancora lontanissime dall’essere buone, e un osservatore esterno, guardando l’uomo nel processo di affinamento delle leggi fatte da lui, troverà che egli è ancora orientato verso il vetro, come la mosca.[rif.L1/31]