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Il problema dell’Euro è che non è la moneta di tutti

di Alain De Benoist - 05/02/2014

Fonte: insorgente

  Il problema dell’Euro è che non è la moneta di tutti

La decisione di dotare l’Europa di una moneta unica venne assunta da François Mitterrand e da Helmut Kohl, in occasione del vertice europeo che si tenne a Roma nel dicembre 1990. Soltanto il primo gennaio 1999, però, l’euro è entrato ufficialmente in vigore, e soltanto dal primo gennaio 2002 biglietti e pezzi metallici il cui valore era espresso in euro si sono sostituiti in Europa a un certo numero di monete nazionali. L’euro, quindi, non ha ancora compiuto dieci anni. Ed eccolo già messo in discussione, dato che la crisi dell’euro è ormai al centro delle tormente monetarie.

Alcuni, che vedono in questa crisi la prova che la loro ostilità alla costruzione europea era perfettamente giustificata, se ne compiacciono. Con la crisi dell’euro, dicono costoro, si approssima al crollo il dogma dell’irreversibilità della costruzione europea. Noi non la pensiamo così. Non c’è, in realtà, nessun motivo per rallegrarsi dell’eventuale scomparsa dell’euro, di cui a beneficiare sarebbero principalmente gli Stati Uniti d’America, che da tempo temono di vedere l’egemonia del dollaro minacciata dalla nascita di una nuova moneta di riserva. Ma non c’è neanche motivo per confondere la costruzione europea con l’attuale moneta unica. L’euro e l’Europa non sono sinonimi. Lo testimonia già oggi il fatto che alcuni paesi dell’Unione Europea (Danimarca, Svezia, Gran Bretagna) non sono mai entrati nella zona euro. Come ha scritto Mark Weisbrot nel «Guardian» di Londra, «non c’è alcuna ragione perché il progetto europeo non possa proseguire, e l’Unione europea prosperare, senza l’euro» (nota 1).

La creazione dell’euro sarebbe stata una cosa eccellente a patto di rispettare due condizioni: che il livello della moneta unica non fosse indicizzato sul vecchio marco e che la sua adozione venisse accompagnata da un sistema di protezione commerciale alle frontiere. Ma nessuna di queste condizioni è stata adempiuta. Invece di assicurare una protezione comunitaria, si è deciso di giocare la carta del libero-scambismo integrale. Nel 1994, si è assistito allo smantellamento della tariffa estera comune che, fino a quel momento, proteggeva in parte l’Europa dalla concorrenza in condizioni di dumping sociale dei paesi a basso salario. La cronica sopravvalutazione dell’euro ha successivamente accentuato gli squilibri. Nel contempo, si è artificiosamente legata una moneta unica ad economie divergenti da ogni punto di vista. La crisi era, di conseguenza, inevitabile. Il problema di fondo dell’euro discende da un dato evidente : non vi può essere una moneta unica che associ paesi di livello strutturalmente divergente. Non si può infatti applicare la medesima politica monetaria, vale a dire lo stesso tasso di cambio (che determina importazioni ed esportazioni) e lo stesso tasso di interesse ad economie con strutture e livelli differenti. Una zona di questo tipo si trasforma inevitabilmente in zona di trasferimenti, giacché i più ricchi devono pagare per i più poveri allo scopo di creare un palliativo alla loro debolezza economica. È quel che la crisi greca ha dimostrato.

Il deputato neo-gollista Philippe Séguin lo aveva detto già il 5 maggio 1992 in un suo intervento all’Assemblée nationale francese: «Dal momento in cui, in un determinato territorio, esiste una sola moneta, gli scarti del livello di vita tra le regioni che lo compongono diventano ben presto insopportabili. E, in caso di crisi economica, è la disoccupazione ad imporsi come unica variabile di aggiustamento». Due anni più tardi, Jimmy Goldsmith affermava profeticamente: «Il progetto di moneta unica [...] significherebbe che un paese come la Grecia non potrebbe aggiustare la propria moneta in rapporto, ad esempio, a quella dell’Olanda. Sappiamo come va a finire: o il trasferimento di sovvenzioni verso i paesi in difficoltà, o il trasferimento di disoccupati di quel paese verso altri più prosperi» (nota 2) .

. Nel 1998, infine, Maurice Allais, premio Nobel per l’economia, aveva messo in guardia: «Una liberalizzazione totale degli scambi e dei movimenti di capitali non è possibile ; è auspicabile solo nel quadro di insiemi regionali che raggruppino paesi economicamente e politicamente associati, e di sviluppo economico e sociale comparabile» (nota 3) .

L’euro è dunque stato adottato in paesi fortemente divergenti dal punto di vista economico, situazione che i «criteri» di Maastricht non hanno minimamente corretto. Anzi : più l’integrazione economica si è approfondita, più quella divergenza è cresciuta. La convergenza dei tassi di interesse a breve termine, dal suo canto, ha portato una maggiore divergenza delle politiche fiscali. L’applicazione di un tasso di interesse unico ad economie provviste di un diverso tasso di inflazione è stata una delle maggiori cause del rigonfiamento del debito in paesi come la Grecia, la Spagna o il Portogallo. «L’euro è stato per i debiti sovrani europei ciò che la libera vendita di armi da fuoco è per il considerevole numero di omicidi negli Stati Uniti: un’istigazione al delitto», ha fatto notare Nicolas Saint-Aignan.

Tradizionalmente, uno Stato che va in deficit nel commercio estero ha la possibilità di raddrizzare la situazione svalutando la moneta nazionale (il prezzo delle sue esportazioni sarà ridotto per gli acquirenti in misura del tasso della svalutazioni). Ma le «svalutazioni competitive» ovviamente non sono più possibili con l’euro. Inoltre, l’euro è da anni sopravvalutato (oggi vale all’incirca 1,4 dollari, contro l’1 dollaro del momento in cui venne creato). Questa sopravvalutazione è il risultato del gioco dei mercati. Una moneta forte rassicura gli eventuali prestatori sulle capacità di rimborso di coloro che essi finanziano, il che consente loro di non esigere tassi di interesse troppo elevati. Viceversa, una moneta debole li spinge a tassi di interesse maggiorati.

Avendo ottenuto già in partenza che il livello dell’euro fosse allineato sul vecchio marco, i tedeschi sono gli unici (assieme agli austriaci e agli olandesi) ad aver realmente tratto beneficio dall’euro. Nel 2009, la Germania ha accumulato 140 miliardi di euro di eccedenze nella sua bilancia commerciale, essenzialmente a detrimento dei suoi partners della zona euro e dei membri dell’Unione europea non appartenenti a questa zona (rispettivamente 82,6 e 3,2 miliardi). L’elevato apprezzamento dell’euro è invece all’origine dei deficit esterni di tutti i paesi del Sud Europa. Dato che le loro esportazioni diminuiscono a causa del livello dell’euro e le loro importazioni continuano ad aumentare, i loro deficit esterni sono esplosi, comportando una diminuzione dell’investimento produttivo e la moltiplicazione delle delocalizzazioni.

Con la vicenda greca, si è già cominciato ad orientarsi verso giganteschi trasferimenti finanziari dai paesi del Nord verso il Sud, trasferimenti che inevitabilmente diverranno a breve insostenibili. Non è facile, ad esempio, immaginare che i tedeschi – che in passato hanno dovuto già riassorbire la rimessa a nuovo della ex Ddr – accetteranno di vedersi raddoppiare o triplicare le tasse per venire in aiuto agli altri paesi d’Europa messi in difficoltà. L’appello alla solidarietà rischia così non di rafforzare l’Europa ma di indebolirla. «Volendo salvare l’euro», argomente Nicolas Dupont-Aignan, «i dirigenti ciechi stanno distruggendo l’Europa. Perché l’Europa ha senso solo se consente a ciascun popolo di prosperare più assieme agli altri che da solo, isolatamente». La classe politica dominante ha scelto la fuga in avanti: fare di tutto per «salvare l’euro» senza toccare minimamente i fondamenti del sistema finanziario vigente. È soltanto realismo? L’economista statunitense Nouruel Roubini ha recentemente lasciato prevedere la disgregazione della zona euro nei prossimi cinque anni. Egli prevede addirittura per il 2013 lo scatenamento della «tempesta del secolo» («perfect storm»).

La fine dell’euro, secondo lui, permetterebbe ai paesi del Sud Europa di ristabilire la loro competitività per il tramite di una svalutazione massiccia delle loro monete nazionali reintegrate. Questa opinione è condivisa da molti altri esperti, alcuni dei quali non esitano più a preconizzare un ritorno a quelle vecchie monete nazionali. L’argomento basilare che generalmente viene opposto ad un’eventuale uscita dall’euro è che i paesi che la azzardassero vedrebbero istantaneamente aumentare il proprio debito, giacché questo resterebbe definito in euro. Si può rispondere che, in contropartita, quei paesi potrebbero adottare provvedimenti in grado di favorire la crescita della domanda interna e il ristabilimento della competitività, il che consentirebbe loro, al contrario, di far meglio fronte all’indebitamento. Un ritorno alle monete nazionali associato a una forte svalutazione – paragonabile a quanto è accaduto nei paesi dell’Est quando hanno abbandonato il rublo dopo il crollo del sistema sovietico – abbasserebbe il costo dei prodotti per gli acquirenti stranieri e stimolerebbe in proporzione le esportazioni, il che darebbe mezzi migliori per regolare il debito. Si è altresì fatto osservare che ogni svalutazione consecutiva ad un ritorno alle monete nazionali si tradurrebbe fatalmente in un rincaro dei prodotti importati al di fuori della zona euro. Ma quest’ultimo in realtà è piuttosto debole: per la Francia, ad esempio, le importazioni di bene e servizi al di fuori della zona euro rappresenta solo il 13% del Pil.

La soluzione ottimale, però, consisterebbe ovviamente nel procedere a una svalutazione massiccia, nominale e reale, dell’euro precedentemente ad un ritorno alle monete nazionali, il che consentirebbe di uscirne senza danni. L’abbassamento della parità dell’euro nei confronti del dollaro favorirebbe la riduzione dei deficit esterni e contribuirebbe a rendere più sostenibili i debiti sovrani dei paesi che avessero rimesso in uso la moneta precedente. Per evitare l’appesantimento del debito, quest’ultima potrebbe essere convertita in una moneta comune che rappresentasse la media delle monete nazionali.

In un testo pubblicato su «Le Figaro», cofirmato da Jacques Sapir e Philippe Villon, l’economista Gérard Lafay a perciò preso posizione a favore della trasformazione dell’euro in una semplice moneta comune. Sarebbe infatti perfettamente possibile conservare l’unico incontestabile vantaggio dell’euro – costituire, nel lungo termine, una moneta di riserva – trasformando l’attuale moneta unica in una moneta comune il cui livello sarebbe determinato sulla base dell’euro e delle monete nazionali restaurate. «Questo nuovo sistema permetterebbe di modificare una volta all’anno le parità fra le diverse monete europee, onde assicurare a ciascun paese una ragionevole competitività monetaria all’interno dell’Unione europea, e ciò continuando ad avere, di fronte alle altre grandi valute mondiali, una divisa europea unificata», ha scritto Nicolas Dupont-Aignan. La moneta comune stabilisce una barriera nei confronti del resto del mondo, ma non impedisce l’aggiustamento delle parità di cambio fra i paesi membri. Anche se l’euro si mantenesse al livello attuale in un certo numero di paesi della zona, rimarrebbe ancora la possibilità di stabilire una moneta comune solo con taluni paesi, nel quadro di un sistema di cambi fissi ma rivedibili e di uno stretto controllo dei capitali.

Questa soluzione è assai diversa da quella del «governo economico» europeo che alcuni vorrebbero instaurare per rimediare alla crisi. Coloro che sostengono una soluzione di questo tipo parteggiano di fatto per un federalismo fiscale (nota 5) . Ma nessuna unione monetaria o fiscale ha mai potuto sopravvivere in assenza di una unione politica. Porre in essere un governo economico prima e in assenza di un governo politico sarebbe un’aberrazione.

Uscire dall’euro non basterebbe tuttavia ad affrancarsi dalla dittatura delle banche e dei mercati. Il ritorno alle monete nazionali non è infatti una panacea. Non regolerebbe alcuno dei problemi strutturali delle attuali società e non costituirebbe in alcun modo una rottura con la logica del Capitale. «Recuperare la nostra sovranità monetaria non avrebbe senso se ciò non dovesse accompagnarsi ad un cambiamento radicale della nostra politica», sostiene con piena ragione Jacques Sapir, secondo il quale un’eventuale uscita dall’euro dovrebbe essere preparata «come un’operazione militare» (nota 6). Qualche Stato sarà costretto ad abbandonare l’euro? Gli scricchiolii che si fanno sentire nella zona euro annunciano un crollo generalizzato? Ci stiamo incamminando a breve termine verso una crisi terminale? E, a lungo termine, verso una bancarotta mondiale? La costruzione europea, in ogni caso, conosce oggi una situazione di crisi storica come non ne ha mai conosciute dagli inizi, nel 1957.

L’Europa, nella quale gli Stati-nazione di un tempo si sono trasformati in Stati-mercato, è contemporaneamente in via di marginalizzazione geopolitica, invecchiamento, destrutturazione sociale, deindustrializzazione e pauperizzazione. Non sfuggiremo alla prova di forza.

Alain de Benoist


NOTE


1. Why the Euro is Not Worth Saving, in «The Guardian», 11 luglio 2011.


2. Jimmy Goldsmith, Le piège, Fixot, Paris 1994.


3. Maurice Allais, La crise mondiale d’aujourd’hui, Clément Juglar, Paris 1999.


4. « Financial Times», 14 giugno 2011.


5. G. Dussouy et B. Yvars, dell’Università die Bordeaux IV, si sono così pronunciati a favore della riattivazione di un progetto federalista europeo, l’unico in grado, secondo loro, di «radunare le ultime forze vive del continente» (Bien-être et consolidation de l’Etat de droit dans l’UE dans le contexte de la globalisation, testo on-line datato luglio 2010).


6. Cfr. Jacques Sapir, La fin de l’euro-libéralisme, Seuil, Paris 2010; La démondialisation, Seuil, Paris 2011.