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Per Kojève, solo un Libro ci può salvare dalla modernità sospesa fra crisi e messianismo

di Francesco Lamendola - 14/02/2014


 


 

Strana lettura di Hegel, quella fatta dal filosofo francese di origine russa Alexandre Kojève (Mosca, 1902 - Bruxelles, 1968), nipote del famoso pittore Vasilij Kandinskij. Una lettura che mescola al nume dell’idealismo tedesco massicce dosi di marxismo, di esistenzialismo, di psicanalisi e di buddismo zen, presentandone una interpretazione alquanto originale ma, forse, pochissimo fedele all’originale (ma non era stato proprio Hegel a prendersela, nella prima sezione della «Fenomenologia dello spirito», con il realismo “ingenuo”, reo di non aver capito che il soggetto fonda l’oggetto e non viceversa?). E, tuttavia, una lettura che ha letteralmente stregato una intera generazione di intellettuali europei e specialmente francesi, tanto da aver contribuito a tracciare una nuova mappa della filosofia: da Sartre a Lacan, da Bataille a Blanchot, da Derrida a Nancy.

Quando Kojève decise di tenere  una serie di seminari sulla «Fenomenologia dello spirito», fra il 1933 e il 1939, presso l’École pratique des hautes études, la risonanza fu enorme, e non solo nell’ambito strettamente filosofico: ad essi parteciparono filosofi come Raymond Aron e Maurice Merleau-Ponty, ma fecero loro eco anche scrittori, sociologi, psicanalisti, tra i quali Pierre Klossovski, Georges Bataille e Jacques Lacan. Marxianamente, Kojève mise l’accento sulla dialettica servo/padrone, trascurando altri aspetti, pur fondamentali, dell’opera hegeliana, col risultato di dare a battesimo una versione dell’hegelismo, come dicevamo, a dir poco “strana”, nel senso di discutibile, opinabile, soggettiva.

Data da allora, forse, la “moda” di prendere un autore e di “leggerlo” in chiave “moderna”, facendogli dire tutto e il contrario di tutto, comunque qualcosa di molto diverso da ciò che, presumibilmente, il poveretto pensava di aver detto, per quanto non sia escluso che l’idea di un simile dibattito postumo sulle proprie idee potrebbe lusingare qualunque filosofo – o almeno qualunque filosofo si accontenti che il suo nome vada in giro, in un modo o nell’altro, magari per mezzo di esegesi che ne travisano totalmente il pensiero. O, se non data da allora, è abbastanza verosimile che  una simile maniera di “interpretare” i filosofi abbia tratto dalla lettura hegeliana di Kojève una forza particolare e una specie di patente di nobiltà: perché, a ben guardare, chi ci guadagna è soprattutto l’”interprete”, il quale, prendendo il timone di una filosofia magari giudicata un po’ vecchiotta, se non proprio sorpassata, riesce, senza troppo averne l’aria, a godere di una buona dose di luce riflessa, quale non avrebbe potuto mai sognare se si fosse affidato alla sola risorsa delle sue magre virtù speculative originali.

Data da allora anche una certa qual moda del “pastiche”, che, specialmente nella terra d’origine del surrealismo, può sempre permettersi il lusso di giocare su due binari, quello “serio” e quello, appunto, “surreale”: il primo, perché c’è caso che qualcuno scopra chissà quali analogie e corrispondenze fra cose diversissime e lodi l’acume e l’originalità dell’esegeta; il secondo perché, male che vada, si può sempre suggerire che, in fondo, era tutto uno scherzo: ma, come Breton insegna, si può forse stabilire una netta linea di confine tra serietà e scherzo, tra speculazione e parodia? La realtà stessa non è tutta parodistica, intrinsecamente, irreparabilmente, sì che, alla fine, le cose più vere e intelligenti le dicono proprio i buffoni? E i buffoni non sono tanto più efficaci quando non  solo scherzano, ma sbeffeggiano, stralunano gli occhi, cacciano fuori la lingua e fanno gli sberleffi? Non è forse questo il senso del famoso orinatoio di Marcel Duchamp, presentato al pubblico in qualità di “opera d’arte”, degno, magari, di figurare, come già la «Venere di Milo» o la «Primavera» di Botticelli, come simbolo della propria civiltà figurativa?

Si noti che tale è, in fondo, anche la posizione di Pirandello e di molti altri intellettuali del Novecento: se la vita è una commedia, una buffonata, una farsa (tragica, peraltro), non è forse il pazzo, il pazzo che ride, che fa gli sberleffi, il campione della “vera” saggezza? Esisteva dunque, ed esiste, un retroterra culturale, se così abbiamo ancora il coraggio di chiamarlo, più che propizio, specialmente in Francia e specialmente a Parigi, auto-elettasi capitale dell’intelligenza mondiale, per le operazioni ermeneutiche più arrischiate e funamboliche. Nel clima delle avanguardie scatenate, quintessenza dell’idea illuminista del “progresso” - inteso come conquista della contemporaneità che fa impallidire il passato -, la storia della cultura è quella di una continua corsa verso il “meglio”. E in fondo, a ben guardare, c’è una logica in questo: dove, altrimenti, sarebbe stato possibile, a cavallo della seconda guerra mondiale, procede a una tale “renovatio” del pensiero hegeliano, a una rivalutazione in grande stile del più inverosimile, strampalato sofista della filosofia moderna, che spacciava per moneta buona le sue indecifrabili fumisterie? Si cita un aneddoto significativo sulla vita del filosofo tedesco: richiesto di spiegare il senso di un passaggio dei suoi scritti, rispose al discepolo allibito: «Quando scrivo, siamo solo in due a capire: il buon Dio ed io; ma dopo che li ho scritti, temo che ne rimanga uno solo, e quello non sono io».

Che cosa c’è ancora, di Hegel, nella “lettura” che ne fa Alexandre Kojève? Vediamo. Per Hegel, come ogni studente di filosofia sa bene, all’origine di tutto c’è l’Idea; e già qui, se quello studente avesse un po’ di senso critico, e se i suoi professori lo incoraggiassero in tal senso, non potrebbe non farsi un paio di semplici domande: l’Idea - e sia pure con la lettera maiuscola -, dunque, e non l’essere, è all’origine di tutto? È il pensiero, allora, che crea l’essere, e non viceversa? A quel punto il nostro studente comincerebbe a capire perché Maritain, l’ultimo Maritain (quello de «Le paysan de la Garonne») negava a Fichte, Hegel e Schelling la qualifica di filosofi e li chiamava, piuttosto, “ideosofi”: essi, infatti, a loro volta, negano puramente e semplicemente tutto quello che, per due millenni e più, tutti i pensatori occidentali hanno sempre considerato indiscusso e indiscutibile, la sola base possibile per una indagine razionale del reale: la priorità dell’essere sul pensiero, l’anteriorità dell’essere al pensare. Ma andiamo avanti.

Per Hegel, il processo dialettico dell’Idea si articola in tre momenti (non in senso cronologico): l’Idea in sé o Logos, l’Idea fuori di sé o Natura, l’Idea per sé o Spirito. Lo Spirito, dunque, è l’Idea che diviene cosciente di sé, passando attraverso il momento della negazione e del confronto con ciò che era originariamente. In fondo, si tratta di una rivisitazione dell’idea di Eraclito che tutto scorre: dunque scorre anche l’Idea, che è la base del reale. Tutto scorre, per Hegel, ma non a caso, bensì secondo una logica intrinseca, poiché tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale, è reale. Nella storia umana, per esempio - che è, per Hegel, essenzialmente storia di popoli: a lui poco interessa la storia dell’anima individuale – anche ciò che sembra la negazione dell’Idea, alla fine si afferma e trionfa, contro tutte le apparenze e i pronostici verosimili: è questa la cosiddetta “astuzia della ragione”, che si serve, per realizzare i suoi fini, anche di chi non crede affatto di servirla.

Qui, dunque, oltre a Eraclito, abbiamo anche Spinoza: Dio è il mondo; la ragione delle cose, è la ragione del mondo; non serve cercare la presenza di Dio al di sopra del mondo, Dio non è fuori del mondo, è l’Idea che presiede al mondo e che attua il divenire del mondo. Ed è un Dio razionale, come quello dei razionalisti e degli illuministi, con la sola, notevole differenza che non si distingue dal mondo stesso. Il vantaggio di tutto ciò, per Hegel, è che questa concezione gli consente di collocare la filosofia un bel gradino più in su della religione, e che consente a lui stesso di assidersi in trono, se non proprio come Dio, almeno come il suo unico e legittimo profeta, dato che lui solo ha compreso che cosa sia la realtà, a differenza di tutti i filosofi delle epoche precedenti, e dato che lui solo ne ha svelato perfino i piccoli trucchi, i quali non hanno segreti al suo sguardo penetrante (“l’astuzia della ragione”!).

Questa impalcatura è stata rivista e ristrutturata dalla lettura di Alexandre Kojève, il quale la attualizza, ma, al tempo stesso, ne conserva e ne riafferma la caratteristica di fondo: l’assoluta auto-referenzialità, la granitica certezza di aver detto una definitiva parola di verità.

Kojeve sostiene che la concezione della storia di Hegel non presuppone un movimento di per sé ragionevole; che la storia sia un movimento razionale, ciò appare solo “post factum”, non tanto dopo questo o quell’evento, ma proprio alla fine della storia (e, di nuovo, bisogna pensare che solo Hegel, e naturalmente Kojève, possiedano un telescopio abbastanza potente per spingere il loro sguardo fin laggiù). In se stesso, invece, il movimento della storia è insensato e irragionevole, e vano sarebbe cercarvi, a tutti i costi, una intima razionalità. Allo stesso modo, Kojève apporta una variante sostanziale nella filosofia hegeliana: sostiene, infatti, che il soggetto hegeliano non è un portatore immediato di razionalità e di libertà - come si era fino ad allora creduto, evidentemente sbagliando, anche e soprattutto da parte degli hegeliani ortodossi, tanto di “destra” che di “sinistra” -, perché la razionalità e la libertà sorgono dal loro esatto contrario: la prima da un fondamento irrazionale, mentre la seconda trae origine dall’illibertà, che non consiste nella scelta tra due dati, ma è la negazione del dato stesso.

Un Hegel molto esistenzialista, dunque, piuttosto kierkegaardiano che hegeliano: un Hegel che farebbe rivoltare  il maestro nella tomba, probabilmente, dato che l’intero castello delle fumisterie hegeliane si regge precisamente sulla concezione dialettica dell’Idea, intesa come reale alternativa tra possibilità diverse e non come rifiuto e negazione della scelta. Un Hegel, in compenso, che poteva piacere a Heidegger e a Sartre, soprattutto a Sarte, con quella impostazione del problema della libertà come una sorta di necessità, ma anche di maledizione; e che poteva piacere, e piacque infatti, ai marxisti, con quella pretesa di sapere come andrà a finire la storia mondiale – senza badare troppo al fatto che una simile “fine” della storia è l’esatta negazione della dialettica dell’Idea, la quale è continuo movimento e trasformazione e non certo un desiderio di andare a sedersi, una volta per tutte, sulla poltrona di ciò che infine “deve” essere.

Riassumendo: la storia, per Kojève, ha un senso (e fin qui, egli è indiscutibilmente d’accordo con Hegel). Tale senso si rivelerà pienamente solo alla fine di essa, mentre, al presente, la storia oscilla fra crisi ed escatologia, ovvero fra angoscia e messianismo: ed è questa la caratteristica fondamentale della modernità. La storia moderna, dunque, è il culmine della storia di tutti i tempi (siamo abbastanza vicini al “promontorio estremo dei secoli” di cui parla, con orgoglio, il futurista Marinetti). Ma come fare per riconoscere la moneta buona in mezzo a quella falsa; come fare per riconoscere i segni della storia e a distinguerli da ciò che è effimero, transitorio, destinato a rimanere indietro? Come capire quando la “morte dell’uomo”, di cui parlano tanti filosofi moderni da Heidegger in poi, non significa semplicemente “una” fine, ma “la” fine, la fine della storia: e come distinguere questa escatologia, vera ed autentica, da quelle false e illusorie, che già tante volte sono state salutate, a torto, con frenetico entusiasmo o con soprassalti di terrore? Insomma: come evitare di cadere vittime di abbagli, come quello, clamoroso, in cui incorse proprio Hegel nei confronti di Napoleone, visto prima come l’incarnazione dell’Idea, cioè dello Spirito assoluto, poi sostituito da agenti ben più qualificati e agguerriti, a cominciare dallo Stato prussiano, l’ultima e definitiva parola dello Spirito quanto al divenire e al significato della storia universale?

Per Kojève (che riprende da Hegel l’abitudine di scrivere con la maiuscola i concetti di cui non sa dare una vera spiegazione) solo il Libro ci può salvare: non un libro qualsiasi, ma il Libro con la “l” maiuscola, inteso quale suprema incarnazione della saggezza. Il Libro, infatti – e qui vien fuori la dimensione “buddista” del pensiero del Nostro – non ha alcuno scopo, semplicemente è. Oppure, per dir meglio – come osserva Matteo Vegetti, un giovane filosofo neo-hegeliano che a Kojève ha dedicato la monografia «La fine della storia» – esso ha ogni scopo dentro di sé, dunque “ha uno scopo e non ce l’ha” (questo linguaggio allusivo ed esoterico sarebbe molto piaciuto a Hegel). Dunque, per appartenere all’ordine del mondo e abitare il Logos assoluto, bisogna  scegliere di non scegliere.  Questa è la missione del Saggio (ancora con la “s” maiuscola), questa la sua eredità spirituale: riconciliarsi con se stesso, affidandosi al reale senza opporre resistenza. Hegel, crediamo – e Kojève con lui -, incorre però in un incidente con se stesso quando afferma che ciò corrisponde a un “affidarsi all’Essere” (ILH, p. 563): perché l’Essere, nella sua filosofia, viene interamente sostituito dall’Idea. In compenso, il concetto della auto-riconciliazione è fatto per piacere agli psicanalisti, i quali, con i marxisti e gli psicanalisti, formavano, fino a ieri, lo “zoccolo duro” della intellighenzia occidentale. Non sarà del tutto attendibile, allora, la lettura di Hegel fatta da Kojève: in compenso, sembra costruita apposta per piacere ai più, ritagliando scampoli di culture alla moda.