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Inevitabile, per i nichilisti senza sorriso, l’amare civiltà refrattarie alla bellezza

di Helmut Leftbuster - 16/02/2014

Fonte: qelsi


imageLa vicenda dell’arabo cacciato dalla capitale saudita perché troppo bello è paradigmatica: il culto della bellezza fisica non è mai appartenuto ad altre civiltà che non fossero quella grecoromana.
Trovate una sola statua, una scultura, un dipinto, una fotografia provenienti dal mondo arabo, mediorientale, cinese o africano che inneggino al culto della bellezza fisica di quei popoli.
Insomma, trovatelo un “Narciso” cinese, arabo o meticcio: non scorgereste traccia nemmeno della traduzione del nome!

Unica eccezione extraoccidentale, quella civiltà nipponica che vide nel poeta-combattente Yukio Mishima un contemporaneo araldo di estetica tradizionale, a tal punto da costringerlo al suicidio pur di evitare d’assistere al declino del Giappone moderno: “le vesti sovrabbondanti ed i busti stretti delle nobildonne dell’epoca Rococò appaiono come una forma del tutto grottesca se paragonate alla naturalezza di un corpo nudo”, scrive Mishima; e ancora: “pur essendo un maschio, mi sembra del tutto naturale supporre che un corpo perfetto contribuisca ad elevare lo spirito e che, nel medesimo tempo, si debba nobilitare il corpo perfezionando lo spirito” (da “Lezioni Spirituali Per Giovani Samurai, 1968)

Persino l’Impero romano d’Oriente, oramai impregnato di cultura bizantina prevalente su quella d’origine, arrivava ad abiurare la grandezza estetica dei Padri d’Occidente, così da farci apparire già nel quinto secolo, nel celebre mosaico, la corte di Giustiniano segaligna, monodimensionale, bardata in abiti sformanti, del tutto priva di quei sensuali seni e di quei vigorosi pettorali che fecero di Roma la più grande musa di beltà della Storia.

Va osservato che il Cristianesimo, soprattutto quello degli inizi, non preservò consapevolmente gli stilemi estetici del classicismo; emblematico il caso del bosco sacro dedicato dall’imperatore Adriano, esteta fra gli esteti, al dio Adone, in Betlemme, che verrà abbattuto dall’imperatrice Elena nel 326 per far posto all’edificazione della basilica della Natività. Eppure, se il mondo grecoromano è arrivato sino a noi, non solo negli scritti intrisi del suo spirito, ma nelle statue, nelle effigi, nella filosofia, nelle leggi e persino nella morfologia prevalente fra i suoi eredi d’Occidente, è stato proprio grazie alla paziente “traditio” perpetrata all’interno di eremi e monasteri, e all’orgogliosa coesione bellica di quella cristianità occidentale intendibile come Sacro Romano Impero, i cui eserciti, sovrani e gesta politiche ci hanno difesi e preservati – è un dato storico effettuale incontrovertibile – così come siamo oggi allo specchio.

Ora, al cittadino comune non compete indagare le cause delle differenze fra civiltà, tema appannaggio di etnologi ed antropologi, sebbene molti di essi, come osserva Ida Magli ne “La Dittatura Europea”, messasi la museruola del politicamente corretto, soprassiedano volentieri dal portare avanti tale genere di approfondimenti; tuttavia, al cittadino comune spetta il diritto di difendere ciò che egli è, così come ogni essere umano ha sempre fatto con ciò che è stato, con ciò che suo padre fu, e con ciò che suo figlio sarebbe diventato.

Purtroppo, invece, da qualche decennio, una sorta di strano morbo, di “sinistra” follia ideologica nichilista, sembra volerci convincere che Policleto e Lisippo, che non erano extraterrestri o ufficiali delle SS, ma distillatori di bellezza ispiratisi semplicemente alla natura dei corpi dei loro contemporanei, nostri predecessori, vadano dimenticati, oscurati, derisi come paccottiglia retrò, quando non additati alla stregua di soggetti eversivi.

Come si può odiare ciò che si è, per abbracciare incondizionatamente ciò che non si è?! Accade quando lo specchio diventa un nemico; e lo specchio diventa un nemico quando non ci si considera più abbastanza avvenenti da reggerne lo sguardo, sino al punto di non-ritorno della resa.
Ebbene, nel caso di una civiltà, che cosa può indurre a tale resa, se non la stanchezza culturale, il malessere ideologico, l’accidia collettiva, conditi con quel pizzico di arroganza intellettuale tipica di quegli “accademici” che amano distruggere il tutto perchè hanno il nulla nell’anima?
Tautologico che soggetti del genere preferiscano confrontarsi con una drastica diversità, magari meno progredita nello spirito e nelle forme, piuttosto che col loro simile, il quale, già solo sorridendo, ricorda loro ciò che dovrebbero essere per potersi sentire nuovamente adeguati a sostenere l’eredità di Socrate, di Platone e di Fidia. E quindi per dimenticarsene, si ubriacano di mondialismo sino a non sapersi più riconoscere come appartenenti a qualcosa, restando così degli apolidi amorfici capaci di amare solo ciò che di più distante dall’originario proprio riflesso archetipo possa esserci.

Ecco perchè la bellezza sta morendo: perché nessuno combatte più per la propria, e perché tutti stanno sostituendo lo specchio con un tablet in cui non cercano altro che alterità e cavolate.

Eppure, nonostante il momentaccio storico, nelle segrete artistiche della civiltà contemporanea qualche sacca di resistenza ancora la si trova (in questo caso raspando nella musica metal, genere non a caso tipicamente occidentale, e forse, estrema roccaforte generazionale dell’occidentalismo estetico e culturale, ma ci torneremo su).image
Dunque, forza, amici, sorridiamo: ancora esistono cantori disposti, oltre che a “cantare” le glorie del passato, ad incarnarne orgogliosamente la fierezza: sì, “incarnarne” scriviamo: poiché la bellezza fisica, nel caso degli Uomini, è fatta di carne e, secondo l’ideale estetico grecoromano imperniato sul Platonismo, è impossibile accedere alla bellezza dell’Idea senza varcare la porta della bellezza esteriore.

Onoriamo la bellezza di ciò che siamo e combattiamo perché l’orgoglio resti il più bel sentimento di sempre e non divenga “reato”, come forse vorrebbero quelli che non si sorridono mai per paura di restituir troppa bellezza a ciò che sono.