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Il sogno imperiale di Antemio naufraga nel 472, con il terzo sacco di Roma

di Francesco Lamendola - 18/02/2014


 


 

Il ventennio che va dal sacco di Roma da parte del re vandalo Genserico (2 giugno del 455) alla deposizione dell'ultimo imperatore romano d'occidente, Romolo Augusto, da parte del generale barbaro Odoacre (4 settembre 476), è uno dei più convulsi e drammatici nell'intera storia d'Europa. Mentre i popolo germanici continuano a strappare lembi sempre più vasti dell'Impero per fondare i nuovi regni romano-barbarici, in Italia i sempre più potenti generali, di stirpe germanica anch'essi, fanno e disfano gli ultimi fantasmi di sovrani, dopo che l'estinzione della dinastia di Teodosio ha aperto una crisi nella successione che non verrà mai più superata. Tra essi spicca la figura di Ricimero, vero burattinaio di quest'ultimo scorcio di vita dell'Impero Romano, che restando nell'ombra manovra spregiudicatamente degli effimeri sovrani-fantoccio.

Il primo degli imperatori fantoccio che regnarono in questo periodo fu Eparchio Avito, senatore gallico sostenuto dal re visigoto Teoderico II, del quale era, in sostanza, il protetto. Eletto dai senatori della Gallia il 10 luglio 455, Avito non era però riuscito né a restaurare le posizioni romane in Gallia e nella Penisola Iberica, né a condurre la progettata spedizione contro Genserico in Africa, le cui incursioni navali rappresentavano una gravissima spina nel fianco per l’Italia. A sventare la minaccia dei Vandali in Italia era stato il generale barbaro Ricimero, che li aveva sconfitti per mare davanti alla Corsica e, per terra, presso Agrigento, dopo di che aveva ottenuto dallo stesso Senato l’incarico di marcare contro l’imperatore, lo aveva sconfitto in battaglia a Piacenza e costretto ad abdicare, scambiando la porpora con il pastorale di vescovo di quella città. Il Senato, però, non si era accontentato di quella mezza misura e Avito, sentendosi in pericolo, era fuggito verso la Gallia, incontrando una morte oscura nel 456, durante il viaggio.

Ricimero attese sei mesi, fino alla morte dell’imperatore d’Oriente, Marciano (gennaio del 457), prima di assumere la carica di “patricius”, che formalizzava il suo potere “de facto” in Italia, sperando che il nuovo sovrano di Costantinopoli avrebbe accettato la sua posizione; e così infatti avvenne. Il nuovo imperatore d’Oriente, Leone, che era a sua volta una creatura del generale alano Aspar, riconobbe Ricimero quale “patricius” per l’Italia e questi, da parte sua, favorì l’elezione imperiale in Occidente, ad opera dell’esercito, di Maioriano, uomo già gradito all’imperatrice Licinia Eudossia, vedova di Valentiniano III, l’ultimo sovrano occidentale della dinastia di Teodosio (ma allora si era auto-proclamato imperatore il senatore Petronio Massimo, subito spazzato via come contraccolpo dell’incursione di Genserico contro la stessa Roma). La proclamazione era avvenuta in aprile e Maioriano attese fino a Natale un riconoscimento da parte di Leone, che non venne; allora, il 28 dicembre 457, si era deciso a indossare la porpora.

I rapporti fra il nuovo imperatore d’Occidente e il suo “patricius” si guastarono in fretta, perché il primo non intendeva limitarsi a recitare il ruolo di docile burattino, ma cercava di perseguire una propria politica, tendente a una effettiva restaurazione del potere romano in Occidente. Maioriano riportò effettivamente alcuni successi contro i barbari sia in Gallia che in Spagna, ma non ottenne il riconoscimento di Leone, né la collaborazione di questi per la progettata spedizione contro i Vandali: la quale fallì prima di cominciare, poiché la flotta romana venne distrutta nella base spagnola di Nova Carthago (Cartagena) da una audace incursione di Genserico , nella primavera del 460). Allora, rientrato in Italia senza gloria e senza esercito, Maioriano venne fatto arrestare e decapitare da Ricimero, stanco di questa sua indocile creatura (7 agosto 461) e desideroso di giungere a un accordo con il terribile re dei Vandali.

Ricimero fece eleggere imperatore un oscuro senatore, Libio Severo (19 novembre 461), che regnò per quattro anni, senza mai esercitare alcun potere effettivo; ma dovette rendersi conto che la sua posizione era diventata insostenibile: minacciato da tutte le parti, sia dall’esterno che dall’interno, con il “comes” Marcellino, un fedelissimo di Maioriano, che si preparava ad attaccarlo dalla Dalmazia, e con Genserico che puntava a porre sul trono di Ravenna  un proprio candidato, Anicio Olibrio (marito di Placidia, figlia di Valentiniano III e di Licinia Eudossia e, dunque, imparentato coi Teodosidi, benché fosse anche il figlio dell’usurpatore Petronio Massimo). Quest’ultima eventualità avrebbe minato le basi del suo potere in Italia, per cui a Ricimero non rimase altra strada che riavvicinarsi al sovrano di Costantinopoli, Leone, per riceverne aiuto contro i Vandali: il prezzo dell’accordo consisté nell’accettare come imperatore d’Occidente un candidato di Leone stesso, il senatore Procopio Antemio. A Ricimero non restavano alternative: nel 464 aveva bensì sventato una minacciosa irruzione di Alani presso Bergamo, sconfiggendoli; ma la sua posizione restava difficilissima, a causa delle continue minacce da parte dei barbari e degli ex seguaci di Maioriano e dell’ormai tiepido appoggio dell’aristocrazia italica, delusa dalla sua incapacità di proteggere i suoi interessi mediante una efficace difesa dell’Italia. Così, morto assai opportunamente Severo (15 agosto 465), forse di malattia, forse avvelenato, Ricimero, dopo un interregno di due anni, accettò la venuta in Italia di Antemio, alla testa di un esercito orientale, accolto con favore dal Senato romano.

Per Ricimero, però, si trattava di una situazione di compromesso, che ripresentava la situazione verificatasi al tempo di Maioriano, con l’aggravante, per lui, che alle spalle di Antemio c’era la forza dell’Impero d’Oriente e, quindi, una più grave minaccia alla sua effettiva indipendenza e sovranità sull’Italia. Si trattava di un compromesso, dunque, destinato a durare fino a quando una delle due parti si fosse sentita abbastanza forte per sbarazzarsi dell’altra. Per intanto, il matrimonio fra Ricimero e la figlia dello stesso Antemio, Alipia, ebbe la funzione di mascherare la tensione latente e di guadagnar tempo; subito dopo Antemio, in collaborazione con Leone, organizzò la grande spedizione contro i Vandali che già Maioriano aveva progettato e che era miseramente fallita. Questa volta si mise insieme una flotta non di 300, ma di ben 1.000 navi, con un imponente corpo da sbarco; ma anche questa volta l’operazione fallì clamorosamente, forse a causa del tradimento dell’ammiraglio orientale, Basilisco, oltre che per la diabolica perizia del vecchio Genserico, il quale riuscì ad incendiare la flotta quando essa era già davanti a Cartagine, nel 468.  Ricimero non aveva svolto alcun ruolo nella spedizione e, anzi, si era tenuto in disparte, sospettoso, perché si rendeva conto di aver tutto da perdere da un successo della flotta romana contro i Vandali; pare sia stato anzi il mandante dell’assassinio di Marcellino, l’ammiraglio della flotta occidentale.

In Gallia la posizione romana si indeboliva sempre più; i Visgoti tornavano a farsi minacciosi sotto la guida del loro re Eurico, invadendo l’Alvernia; due successivi prefetti, Arvando e Seronato, si macchiarono di tradimento, trattando sottobanco con i barbari per cedere le province loro affidate: e l’eco di questi disastri, ripercuotendosi n Italia, portò al punto di rottura le già tese relazioni fra Ricimero e Antemio. Così lo storico e numismatico inglese Michael Grant ha ricordato la vicenda imperiale di Procopio Antemio nel suo celebre studio «Gli imperatori romani» (titolo originale: «The Roman Emperors: A Biographical Guide to the Rulers of Imperial Rome 34 B. C. – 476 A. D.», 1985, traduzione italiana Roma, Newton Compton, 1993, pp. 305-06):

 

«Dopo essersi assicurato l’appoggio del Maestro dei soldati d’Occidente, cioè di Ricimero, dandogli in matrimonio la figlia Alipia,  Antemio partì da Costantinopoli con un gran corteo e una potente armata , e la sua nomina ricevette la conferma non solo del popolo di Roma e dei federati barbari, ma anche del senato. Sulle monete egli si fa vedere con Leone I, ciascuno con in mano una lancia, ma sorreggendo insieme un globo  sormontato da una croce: la scritta dice: “Salus Reipublicae” “il benessere dello Stato”. Leone, da parte sua, fece pubbliche dichiarazioni di affetto paterno di Antemio col quale, dichiarava, aveva diviso il governo dell’universo. Dopo tante disastrose controversie tra i due imperi, questa nuova collaborazione sembrava incoraggiante; ma essa giunse tropo tardi per salvare l’Occidente. E infatti la sua immediata applicazione pratica si rivelò disastrosa. In questo caso la collaborazione prese la forma di una spedizione congiunta contro Gaiserico: anche se le cifre di 1.113 navi e di 100.000 uomini appaiono esagerate, si trattò sempre di un’impresa ambiziosa e di vasta portata. Però il comandante del contingente orientale (Basilisco) non era leale, e la nomina di Marcellino  (comandante militare della Dalmazia) ad ammiraglio dell’Impero d’Occidente contrariò Ricimero. Marcellino assalì le base vandale della Sardegna; frattanto un’altra armata sbarcava in Tripolitania.  Ma, mentre la flotta orientale di Basilisco si avviava a Cartagine, Gaiserico aiutato dal vento favorevole diede fuoco a molte delle navi romane e altre ne distrusse; le rimanenti fuggirono in Sicilia con Basilisco e Marcellino, il secondo dei quali finì assassinato, probabilmente per istigazione di Ricimero. Anche Antemio in Gallia dovette affrontare una situazione peggiore del previsto perché il formidabile re visigoto Eurico, dopo aver assassinato il fratello Teoderico II ed essergli succeduto sul trono (466), sembrava tendesse al’annessione di tutta la Gallia. La nobiltà gallo-romana, sentendosi in pericolo, inviò ad Antemio, in Italia, una deputazione di cui faceva parte anche Sidonio Apollinare, che ora si trovava a dover onorare nei suoi poemi il terzo imperatore successivo. Ed egli vi provvide senza incertezze, inneggiando alla restaurazione dell’unità dell’impero, per cui fu poi ricompensato con la prefettura della città di Roma. Nel frattempo in Gallia le forze di Ricimero mantenevano importanti collegamenti con i Suevi e con il re dei Burgundi Gundioc, che aveva sposato la sorella del primo. Sulla base di tali collegamenti Antemio concesse ai Burgundi  notevoli favori per guadagnarsene l’aiuto contro Eurico.  Ma il prefetto del Pretorio della Gallia, di nome Arvando, fu trovato colpevole  di tradimento e di malversazione, per cui venne mandato a morte,  con la conseguenza che Eurico poté infliggere una grave disfatta all’esercito romano sulla sponda sinistra del Riodano, uccidendo il figlio dell’imperatore,  Antemiolo, e i suoi tre più eminenti comandanti. Antemio non riuscì a conquistare simpatie neanche in Italia, dove suscitavano contrarietà la sua cultura e il modo di vita di ispirazione greca; tra l’altro si diceva che fosse troppo accondiscendente col paganesimo. Dopo le sconfitte patite contro i Vandali e i Visigoti, egli, come era già avvenuto col suo predecessore, cominciò a suscitare sfiducia in Ricimero, e le relazioni fra i due rapidamente si deteriorarono. Si disse che l’imperatore si fosse rammaricato di aver dato la propria figlia in sposa a un barbaro come Ricimero; il quale, da parte sua, fu udito definire il suocero “grecuccio” e “galata”. Il reciproco malvolere ebbe come conseguenza che l’Italia si trovò praticamente divisa in due parti fra loro ostili, cin Antemio che regnava a Roma e Ricimero a Medilanum. Epifanio, vescovo di Ticinum, riuscì a mettere insieme una riconciliazione (470), che però non durò molto perché Ricimero marciò fino alle porte di Roma con l’intenzione di cacciarne il suo ex protetto, mentre per il momento il suo candidato proposto al trono d’Occidente era Olibrio (marito di Placidia Minore, figlia di Valentiniano III), il quale da Costantinopoli si trasferì in Italia. Antemio aveva l’appoggio di una forza armata di Visigoti al comando di Bilimero (probabilmente Maestro dei soldati in Gallia) e, sebbene l’imperatore fosse greco, il senato ed il popolo di Roma, come ultima risorsa, apparentemente, lo preferivano a Olibrio. Fece seguito un assedio della città della durata di tre mesi, con accompagnamento carestia ed epidemie. Alla fine Ricimero portò un violento assalto contro il ponte Elio, davanti al mausoleo di Adriano (in seguito Castel Sant’Angelo). Bilimero fece una valorosa resistenza finché cadde, al che le truppe di Ricimero fecero irruzione in città, sembra anche grazie al tradimento dall’interno. Antemio capitolò, ma, mentre il saccheggio continuava, si nascose fra i mendicanti che stavano intorno alla chiesa di San Crisogono. Scoperto, venne decapitato, nel mese di marzo o di aprile del 472, per ordine di Gundobado, nipote di Ricimero.»

 

In definitiva, si può leggere la breve ma sanguinosa guerra civile tra i partigiani di Antemio e quelli di Ricimero come una manovra di quest’ultimo per giungere a un accordo con Genserico, sulla base di una tregua alle incursioni vandaliche che tormentavano le coste italiane. Fin dall’aprile Olibrio, giunto al campo di Ricimero, era stato proclamato imperatore d’Occidente: a mandarlo era stato proprio Leone, che non aveva compreso la segreta manovra del “patricius”, né le occulte ambizioni di potere dello stesso Olibrio. Ma quest’ultimo regnò, e solo di nome, per un tempo brevissimo: infatti morì di peste, insieme al suo burattinaio Ricimero, il 23 ottobre o il 2 novembre 472. La fine, per il fantasma dell’Impero Romano d’Occidente, si andava ormai avvicinando a grandi passi.