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Non ha mai fine la ricerca del sapere

di Giovanni Reale - 18/02/2014




Mi sono innamorato della filosofia già al liceo, nella seconda metà degli anni Quaranta dello scorso secolo. Tutto è cominciato da una conferenza tenuta da un giovane studioso, che voleva far conoscere le novità dell’epistemologia, allora ignota. Ha portato tre manuali di fisica: quello del nonno, quello del padre e il suo. Ha letto le prefazioni di ciascun manuale, in cui si diceva che le teorie della fisica erano verità universali e necessarie. Poi ha letto ciò che i tre manuali dicevano sul calore, ed è risultato che sostenevano tesi fra loro contraddittorie: a partire dal fluido calorico del manuale del nonno al richiamo della dottrina sugli atomi del suo. Dunque, risultava che le dottrine fisiche non erano affatto universali e necessarie.
La cosa mi ha sconvolto, in quanto avevo sempre letto e sentito che le verità scientifiche sono incontrovertibili. Naturalmente, ho subito pensato alla geometria, richiamando alla mente quanto spesso sentivo dire, ossia che una determinata cosa era vera quanto era vero che la somma degli angoli di un triangolo è di trecentosessanta gradi. Ma mi è stato presto dimostrato che questo rimane vero solamente nell’ambito della geometria euclidea, perché in quelle non euclidee la somma degli angoli di un triangolo è superiore o inferiore a trecentosessanta gradi.
L’epistemologia dimostrava che le tesi delle scienze sono coerenti e consistenti solo nell’ambito di un determinato paradigma, e mutano completamente quando muta il paradigma. Popper ha inoltre presentato prove convincenti che le tesi della scienza sono tali, solo se e nella misura in cui sono «falsificabili».
Ben si comprende, di conseguenza, in che misura la filosofia, rimasta a lungo soggiogata dalle scienze dopo la rivoluzione scientifica, torni a imporsi come necessaria, in quanto aiuta le scienze e gli scienziati a comprendere l’identità che è loro propria, e quindi ad autoconoscersi. Alcuni scienziati hanno già tratto cospicui vantaggi da questo, ma non sono pochi (e con loro gran parte dell’opinione pubblica) che rimangono ancorati a una concezione assolutistica della scienza, trasformata in un vero e proprio idolo.
Ricordo due significativi esempi. All’università di Parma (dove ho insegnato per un paio d’anni filosofia morale), uscendo dall’aula ho trovato alcuni studenti iscritti alla facoltà di matematica, che mi hanno domandato che cosa potevano rispondere al professore di geometria, il quale voleva dimostrare che, sulla base di un certo teorema, non era possibile l’esistenza di Dio. Io, stupito, ho domandato che tipo di geometria seguiva quel professore, e alla risposta che si trattava della geometria euclidea, non ho esitato a rispondere che quel teorema nelle geometrie non euclidee aveva altro senso, e che, comunque, le scienze non possono in alcun modo pretendere di avere a che fare con realtà che non rientrano nel loro ambito. Robert Edward, padre della fecondazione in vitro, premio Nobel, in una intervista sulla sua scoperta scientifica ha affermato: «Fu un enorme successo che andò ben oltre il problema della fertilità. Riguardò anche l’etica del concepimento. Volevo scoprire chi fosse davvero al comando, se Dio stesso o gli scienziati. Ho dimostrato che noi eravamo al comando».
Solo la filosofia può smitizzare tali convinzioni. Popper ha precisato: «Il vecchio ideale dell’episteme — della conoscenza assolutamente certa, dimostrabile — si è rivelata un idolo. (…) La concezione sbagliata della scienza si tradisce proprio per il suo smodato desiderio di essere quella giusta».
La scienza ha un valore conoscitivo, ma non è l’unico tipo di sapere, e Nicholas Rescher precisa: «Anche nell’ambito strettamente cognitivo, la conoscenza scientifica è soltanto uno dei vari tipi di conoscenza: ci sono altri progetti epistemici e intellettuali ugualmente validi».
Ma che cosa ne è oggi dei grandi problemi metafisici da cui la filosofia è nata, e in base ai quali si è sviluppata? Jürgen Habermas con la sua «filosofia post-metafisica» afferma che sui grandi problemi metafisici e morali «la filosofia non è più autorizzata a intervenire in modo diretto», e che deve limitarsi «ad indagare le caratteristiche formali dei processi di autocomprensione, facendo astrazione dai loro contenuti».
Ma, se fa questo, la filosofia non solo rinuncia a essere ciò che è stata per secoli, ma non risponde a quei problemi ultimativi che l’uomo non può non porsi, perché costituiscono un bisogno essenziale della sua stessa natura. Durante una mia lezione, colpita da certe idee ontologiche dei filosofi greci di cui parlavo, un’allieva mi ha detto che sua sorella, di tre anni, le aveva posto la domanda: «Perché ci sono le cose?». E mi è stato riferito dai genitori che il loro figlio di tre anni e mezzo aveva fatto questa domanda: «Perché mi avete fatto?». Si tratta di problemi che in filosofia sono stati espressi nella formula di Martin Heidegger: «Perché c’è l’essere e non il nulla?». E sono i problemi che i bambini formulano con il loro linguaggio, non appena si aprono con l’intelligenza alla realtà, e che non possono essere dimenticati.
Qualche studente si è talvolta lamentato con me di non trovare nella filosofia risposte definitive, come desiderava. E la stessa cosa mi è stata detta più volte da varie persone, che respingevano la filosofia per le sue contraddizioni. In risposta, io citavo loro un pungente aforisma di Nicolás Gómez Dávila: «Lo stupido si scandalizza e ride quando si accorge che i filosofi si contraddicono. È difficile far capire allo stupido che la filosofia è proprio l’arte di contraddirsi reciprocamente senza annullarsi»; e, aggiungevo, non solo senza annullarsi, ma arricchendosi dialetticamente proprio in questo contraddirsi.
E subito dopo citavo il grande Platone, anche oggi il filosofo più letto e amato, che spiegava come sophos , ossia sapiente, sia solamente di Dio, mentre l’uomo, per sua natura, è philo-sophos , ossia ricercatore e amante della sapienza.
L’uomo è, in effetti, per sua natura, homo viator , continuamente in cammino. E le idee che cerca e trova non possono mai essere ultimative, perché è sempre in viaggio, e non è mai alla meta. Ma proprio per questo, come Eros, che per Platone è filosofo per eccellenza, l’uomo può trovare nella filosofia quelle ali che gli permettono di volare molto in alto, al di sopra della realtà puramente fisica del contingente, e di realizzare, in questo continuo cercare, la sua vera natura spirituale. E credo che sia proprio per questo che i testi dei filosofi siano, oggi, sempre più ricercati. Forse l’uomo comincia a sentire il forte desiderio di uscire dalla gabbia del pianeta in cui si è chiuso con la tecnica, e ricordarsi, come diceva Eugène Ionesco, che «si può guardare il cielo».