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La «Storia di Sicilia» di Ignazio Scaturro, piccolo gioiello dimenticato

di Francesco Lamendola - 19/02/2014


 



 

Quella di Ignazio Scaturro è una figura d’intellettuale pressoché sconosciuta nell’Italia odierna e assai poco conosciuta anche nella sua Sicilia, a dispetto del fatto che  un istituto scolastico, nella sua città natale (un istituto comprensivo, istituito nel 2000, che consta di due scuole d’infanzia, di una scuola elementare e una scuola media), porti tuttora il suo nome.

Chi è, dunque, questo Carneade di casa nostra?

Nato a Sciacca, in provincia di Agrigento, l’8 maggio del 1882, si è laureato in Giurisprudenza all’Università di Palermo ed è morto a Roma il 28 settembre 1956. Uomo di vasta cultura e dagli interessi poliedrici, ha lasciato una notevole massa di opere che abbracciano gli studi di legge, la creazione letteraria e, soprattutto, la ricerca storica. Alla prima categoria appartengono «I casi di collisione giuridica» (1909); alla seconda, l’autobiografia satirica «Io, vero impiegato»; alla terza, «Dove nacque Agatocle», «La contessa normanna Giulietta di Sciacca», «Del Vescovado Triocalitano Croniense» (tutti pubblicati nell’«Archivio storico siciliano»), «Storia della città di Sciacca» (Napoli, 1925) e una incompiuta «Storia di Sicilia» (Roma, 1950).

I suoi interessi storici, dunque, partendo da una base locale, si sono ampliati fino ad abbracciare tutta la Sicilia nel corso della sua lunga vicenda, dal periodo greco fino al Medioevo; la morte, però, ha impedito all’Autore di proseguire nel suo lavoro, che avrebbe dovuto spingersi fino ai tempi moderni, sì da delineare un quadro completo ed esaustivo della storia dell’isola, intrecciata in maniera indissolubile – e ciò emerge chiaramente dal suo lavoro – con la più ampia storia d’Italia, del Mediterraneo e dell’Europa.

La «Storia di Sicilia», così come ci è pervenuta, comprende il periodo che va dal 264 a. C., ossia dalla prima guerra punica, al IX secolo dopo Cristo; è dedicata ad Adolfo Omodeo e non si limita alle vicende politiche e militari, ma spazia dalla storia religiosa, alla cultura, alla letteratura, all’arte, riallacciandosi continuamente alla storia della civiltà nel senso più ampio. Gli eventi, i personaggi e le condizioni siciliani sono visti costantemente sullo sfondo del panorama storico mediterraneo ed europeo e rivelano non l’erudizione, ma la viva e poderosa cultura dell’Autore.

Le vicende che condussero alla fine dell’Impero Romano d’Occidente ci sembrano particolarmente adatte per illustrare questo particolare “taglio” storiografico, per cui ne riportiamo una pagina (da: I. Scaturro, «Storia di Sicilia», Roma, Editrice Raggio, 1950, pp. 271-74):

 

«Il fallimento della spedizione [contro Genserico, nel 468] e l’assassinio di Marcellino acuirono la discordia, già esistente, fra Antemio e Ricimero; mentre Leone, insediato dalle trame di corte, si piegava a far pace con Genserico (470); inizio del pacifico dominio vandalico dell’isola. Ricimero si ritrasse minaccioso a Milano. A nulla valse la fugace conciliazione ottenuta nel 471 per opera di Epifanio, vescovo di Pavia, incaricato di mediazione dalla assemblea provinciale della Liguria. Alla testa di un esercito, quello l’anno seguente corse a Roma , l’assediò e dalle sue truppe fece acclamare imperatore Olibrio, che Leone riconobbe. Trionfava la politica di Genserico. Dopo cinque mesi la città fu espugnata, saccheggiata e incendiata: la terza volta in 62 anni. Antemio preso e trucidato (11 luglio 472). Un mese dopo moriva Ricimero; nell’ottobre dello stesso anno Olibrio. Era l’agonia dell’Impero di Occidente. E con essa gli ambiziosi sogni del re dei Vandali furono a forza spenti dalla barbara energia di Odoacre, che depose l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo (settembre 476), ed ai suoi Eruli, con Alani e Rugi e Sciri e Turcilingi, diede l’Italia come stabile patria e regno. Nell’anno 476 avevano l’Augustolo e Genserico concluso un trattato: il primo gli riconosceva il possesso della Sicilia, l’altro prometteva di astenersi dal correre le coste d’Italia. Ma poiché quel possesso in mano ai Vandali era per l’Italia la perdita del suo granaio e una perenne minaccia, subito Odoacre, verso la fine dello stesso anno 476, riprese le trattative, e si accordò a questi patti: riceveva l’isola in concessione da Genserico, tranne l’angolo di Lilibeo, obbligandosi a pagargli un annuo tributo. Così il vandalo evitava la guerra con la nuova potenza, e conservava sulla Sicilia il diritto eminente. Poco dopo egli moriva (25 gennaio 477). Il regno, da lui lasciato, comprendeva l’Africa,  dalle Colonne d’Ercole alla Grande Sirte, le Baleari, le isole del Tirreno, Corsica, Sardegna e Malta. Ma, scorso un decennio, quando le interne lotte cominciarono  a lacerarlo e svigorirlo, tra il 485 e il 486, Odoacre occupò anche Lilibeo (G. Romano).

Odoacre riconobbe l’imperatore d’Oriente, Zenone, come unico imperatore romano, prese il titolo di patrizio, e governò come vicario imperiale. Ma Zenone, vedendolo condursi a suo arbitrio nelle cose d’Italia e nelle guerre, per liberarsene gli spinse contro  un altro popolo germanico, vicino e molesto, gli Ostrogoti. Pattuì con Teodorico, loro re, la conquista d’Italia in nome dell’Impero, promettendo in compenso ai Goti  terre, a lui il vicariato. Odoacre fu vinto all’Isonzo, a Verona, all’Adda (489-90), assediato e costretto alla resa in Ravenna, e quindi ucciso (493).

Teodorico dal re dei Vandali, Gontramondo, ostile ad Odoacre per l’occupazione di Lilibeo, fu appena giunto in Italia riconosciuto. Ma poiché quelli non cessavano dalle scorrerie sulle coste della Sicilia, egli l’acquistò nel 491, allorché inflisse loro tale sconfitta, che li costrinse a chiedere pace e a rinunciare al tributo. Tuttavia gli animi dei siciliani, greco-romani e cattolici, come erano stati avversi ai Vandali e agli Eruli, lo erano pure ai Goti, barbari anch’essi, e ariani, seguaci cioè d’un cristianesimo semplificato, più atto alle loro menti e libero dalla dipendenza del papa, meno a contatto coi Rimani e più docile  alla volontà regia. Fu merito di Cassiodoro, già consolare nel 489 sotto Odoacre e padre  del senatore Aurelio, averli con la persuasione rimossi da quel pericoloso atteggiamento.

Ma Teodorico non lasciò i Vandali offesi della violenta conquista.  Vagheggiando di congiungere gli stati barbarici di Occidente in uno stabile sistema politico sotto il predominio dei Goti, strinse leghe e parentele. E con quelli volle rendere perpetua la pace mediante le nozze del loro re Trasamondo, salito al trono nel settembre 496, con sua sorella Amalafreda, cui diede in dote Lilibeo. Mille nobili goti l’accompagnarono, la scortarono 5 mila armati. Una iscrizione in marsala attesta che il confine era a quattro miglia dalla città.

Fu Teodorico il più grande dei re barbari del suo tempo. La sua potenza dominò su d’una lunga zona dalle Alpi alle Colonne d’Ercole, e dai Pirenei al Danubio, fino alla confluenza della Sava. Sognò l’egemonia ostrogota su una confederazione barbarica, la romanizzazione dei Goti, la loro pacifica convivenza coi Romani, la tolleranza religiosa, la devozione al suo governo degli uomini colti. Ma fu deluso. I Franchi, nuova potenza, conquistarono quasi tutta la Gallia; il suo governo del pari odioso a Goti e a Romani, cattolici e ariani inconciliabili;  avversi gli intellettuali, e fra costoro vittima massima il poeta filosofo Boezio. L’accresciuto fervore religioso verso la fine del suo regno generò frequenti tumulti contro il re eretico. Anche la Sicilia, sempre romana e grata all’Impero d’Oriente della continua protezione contro le incursioni vandaliche e fervida di monaci cattolici greci, detti “calogeri”, ne fu sconvolta; sì che, non bastando il presidio locale, venne a sedarli l’esercito di Ravenna.

Era la resistenza in nome di Roma, L’amor patrio locale, che permise all’Africa, alla Spagna, alla Gallia di staccarsi all’Impero, lo vietava all’Italia, sua sede venerata. Come Odoacre, anche il dominio  dei Goti ne sarà abbattuto; né poi sarà duraturo quello dei Longobardi.

Triste e stanco morì Teodorico il 30 agosto 526. I Germani lo vantarono come eroe nazionale. L’odio romano invece diffuse la leggenda, narrata da papa Gregorio Magno, che un santo Calogero di Lipari  vide la anima di lui nuda e scalza con le mani cariche di catene, trascinata per le’etere dalle ombre irate di papa Giovanni e del patrizio Simmaco, e, per vendetta delle subite offese,  scagliata entro il vicino cratere di Vulcano. »

 

Oltre che un buon esempio della prosa di Scaturro - sobria, essenziale, aliena da svolazzi retorici- questa pagina ci offre alcune delle più caratteristiche qualità dello storico, prima fra tutte la capacità di cogliere in pochi tratti il nocciolo di una questione, di andare dritto al cuore dei problemi; e inoltre, come dicemmo, la capacità di leggere in filigrana, nella storia della sua Sicilia, la storia del più vasto scenario mediterraneo ed europeo.

Nella disfatta di Antemio e nella proclamazione di Olibrio ad opera di Ricimero, egli vede il trionfo della politica del re vandalo Genserico, mirante a porre sul trono dell’Occidente un uomo a lui gradito; e nell’avvicendarsi di Odoacre a Romolo Augustolo vede non solo la fine “ufficiale” dell’Impero (cosa, in sé, di scarsa rilevanza giuridica, perché già superata dai fatti) e l’avvento dei regno romano-barbarici in Italia, ma anche e soprattutto la necessità, per chi regna in Italia, di assicurarsi il controllo della Sicilia, senza la quale- come avevano ben compreso i Romani sin dalla prima guerra punica, sette secoli prima – il possesso dell’Italia stessa non sarà mai sicuro, la pace non sarà mai assicurata. Così, al debole Romolo Augustolo, che cede la Sicilia ai Vandali, succede il vigoroso Odoacre, che la recupera prontamente, sia pure al prezzo di pagare a Genserico un tributo e di lasciargli il presidio strategico di Lilibeo. Quest’ultima fortezza, peraltro, Odoacre la occupa non appena le circostanze interne del regno vandalo gli consentono di eseguire questa mossa senza esporsi ai rischi di una guerra logorante e dall’esito incerto.

Teodorico, da tale punto di vista, prosegue con energia anche maggiore l’opera di Odoacre, per poi spingersi molto al di là di essa, quanto a vastità e audacia di concezione strategica e – se ci si consente l’espressione, tipicamente moderna - geopolitica. Innanzitutto, Teodorico non si accontenta di avere la Sicilia in feudo, ma la vuole come possedimento pieno; inoltre, non vuole che i rapporti di forza rimangano ambigui, né tollera che i Vandali proseguano imperterriti nelle loro micidiali incursioni navali sulle coste italiane; e, venuto alle armi con essi, assesta loro una formidabile sconfitta. Subito dopo, però, da statista di larghe vedute, non si irrigidisce nella sua vittoria, ma porge la mano al nemico vinto e allaccia una alleanza con esso, mediante il matrimonio tra sua sorella e il nuovo re Trasamondo, cui restituisce di fatto – sotto la forma di dote della sposa – la fortezza di Lilibeo. Teodorico, infatti, guarda lontano: non vuole sfruttare il più possibile il vantaggio temporaneo d’una vittoria militare, come farebbe un politico qualsiasi, ma, da vero statista, desidera ricostruire un quadro di relazioni diplomatiche che assicuri la supremazia al suo regno in tutto l’Occidente e che rafforzi, nel medesimo tempo, un certo qual sentimento di collaborazione, se non proprio di collaborazione, tra i diversi regni romano-barbarici.

Sul piano interno, poi, Teodorico si dimostra  ancor più grande: vagheggia un regno in cui il suo popolo gradualmente si romanizzi, Romani e Goti vivano in armonia, cattolici e ariani si tollerino a vicenda e l’intellighenzia latina collabori lealmente con la corte di Ravenna. La confederazione romano-barbarica che dovrebbe andare dalle Colonne d’Ercole alla Sava potrebbe diventare, veramente, una resurrezione dell’Impero Romano d’Occidente, ma su nuove basi, rinvigorito e rivitalizzato dall’immissione della fresca energia dei popoli germanici.

Così non avviene, e Teodorico assiste al disfacimento del suo sogno: la contrapposizione fra Goti e Romani incrudelisce, come pure quella fra ariani e cattolici; gli intellettuali gli si rivoltano contro, specie dopo il drammatico processo a Boezio; gli altri re barbarici non capiscono, vedono solo i propri egoismi dinastici e nazionali; i Franchi invadono quasi tutta la Gallia, a danno di Burgundi e Visigoti; e l’Impero d’Oriente si prepara, col pretesto della difesa dei cattolici, a riconquistare le perdute province occidentali. Resta, per Scaturro, il giudizio positivo sul re Teodorico: un sovrano che ha saputo guardare molto avanti; troppo avanti, forse, per l’età sua, rispetto alle condizioni storiche date (la “verità effettuale” di machiavelliana memoria).

Il procedere della ricostruzione storica è ponderato, sintetico, consequenziale; i giudizi poggiano solidamente sui fatti, dai quali sono dedotti, talvolta in maniera esplicita, talvolta in maniera appena accennata e quasi implicita. Il lettore non è appesantito da ripetizioni e ridondanze concettuali: le cose sono dette una sola volta, con mirabile densità; ma il quadro d’insieme è completo, convincente, anche per merito di una quantità di riferimenti ulteriori: filosofici, religiosi, letterari, artistici (e ciò ben risulta in altri capitoli dell’opera). Non opera erudita, quindi, ma di vera cultura...