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A proposito del cosiddetto "imperialismo russo" (e della corta memoria dei suoi stigmatizzatori)

di Franco Cardini - 09/03/2014



Ho seguito con attenzione, spesso facendo forza a me stesso, la galleria degli autorevoli commentatori nazionali e internazionali di questi giorni, impegnati tutti a stigmatizzare la prepotenza imperialistica delle Russia di Putin e il suo disprezzo per i diritti della piccola Ucraina che la società internazionale dovrebbe tutelare contro l’arroganza di Mosca. Tralascio al riguardo tutta una serie di commenti storici e politici in quanto sono già stati fatti: io steso ho fatto notare alcune cose, come ricorderete, sulla puntata 11 di “Minima Cardiniana”. 
Prendiamo quindi atto che, nel nome di non si sa bene quale diritto internazionale, la Russia dovrebbe accettare il fatto compiuto non di una libera e corretta consultazione elettorale che ha mutato il corso politico dell’Ukraina, bensì di un golpe messo a punto da una calcolata e spregiudicata violenza di piazza che ha condotto all’espressione di un governo di sedicente unità nazionale che condurrà probabilmente entro breve tempo all’installazione sul territorio di quella repubblica o di quel che ne resterà di un certo numero di missili NATO a testata nucleare puntati contro il territorio russo (è un film già visto sei anni fa in Georgia); e, in forza di quel medesimo golpe che l’ONU rischia di legittimare come libera espressione della volontà di un popolo, essa dovrebbe accettare altresì la perdita delle sue basi militari in Crimea, cioè dovrebbe perdere il suo sbocco al Mediterraneo (la realizzazione di uno scopo al quale la Russia ha teso fino dal XVII secolo: da Pietro I a Stalin). 
Certo, sentendo il presidente Obama giudicare con tanta severità l’intervento russo in un paese straniero, viene da chiedersi se l’inquilino della Casa Bianca si sia mai accorto per caso di che cosa è successo a Kabul nel 2001 e a Baghdad nel 2003, perché anche lì mi sembra di ricordare che in tali occasioni una grande potenza calpestò brutalmente, con un futile pretesto, la sovranità di un piccolo paese (ben più lontano dagli USA, fra l’altro, di quanto l’Ukraina non sia dalla Russia).
D’altra parte l’amico e collega Marco Barsacchi mi fa notare – e io mi trovo del tutto d’accordo con lui – che è alquanto strano il fatto che nessuno, a proposito della crisi ukraina, si sia ricordato di quella kosovara di quindici anni fa, alla quale l’Italia ebbe la vergogna e il disonore di partecipare. 
Allora, dinanzi alla volontà secessionista dei kosovari albanesi e dopo la conferenza di Rambouillet del 6 febbraio 1999 (dopo i quali la Serbia aveva rifiutato al presenza militare della NATO in Kosovo, imposta per appoggiare i secessionisti), il 24 marzo avevano inizio i bombardamenti che provocarono purtroppo, per ritorsione, l’accanimento delle truppe serbe e delle milizia paramilitari che le appoggiavano e quindi l’appesantirsi dei bombardamenti NATO fino a quelli su Belgrado stessa. 
Dal punto di vista del diritto internazionale e della stessa casistica diplomatica, il parallelismo fra la crisi serbo-kosovara e quella ukraino-crimeense stupisce. Ed è tanto spontaneo quanto legittimo chiedersi come mai i kosovari albanesi avessero tanto evidenti diritti del tipo analogo a quelli che la comunità internazionale oggi sembra orientata a negare agli ucraino-russi di Crimea; e perché i primi siano stati pesantemente a suo tempo appoggiati dalla NATO mentre l’appoggio russo fornito ai secondi debba essere internazionalmente illegittimo al punto da provocare quanto meno delle sanzioni contro la Russia. 
Fortunatamente, la Russia di Putin non è la Serbia di Milošević e non accetterà né l’accerchiamento cui la NATO cerca di sottoporla da anni, né l’imposizione di ritirarsi dal Mediterraneo. Quanto a probabili sanzioni e al probabile accodamento del nostro paese a un diktat statunitense-europeo, pensi l’Italia a quanto essa dipende dai rifornimenti Gazprom, a parte le vacue vanterie dei supermanager dell’ENI in materia di scorte energetiche detenute dal nostro paese. A meno che quelle vacue vanterie non celino in realtà le prospettive di altri business, per esempio quelli di eventuali acquisti di gas arabo o cipriota: magari costerebbero di più al contribuente, però garantirebbero buoni profitti a qualche lobby (ma per questo rinvio a quanto con competenza e finezza già osservava Gianni Bonini sul n.3, estate 2013, del periodico trimestrale “If”). 

Franco Cardini