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I problemi del progresso e i limiti dell’uomo moderno

di Ippolito Emanuele Pingitore - 11/03/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente


Il progresso umano, raggiunto tramite gli sviluppi della scienza ieri e tramite il progresso della tecnologia, degli studi e delle ricerche approfondite oggi, nasconde il grande nemico: la perdita più totale dei valori.

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Può la modernità fare a meno dei valori solo perché ritenuti scomodi o antiquati? È la domanda con cui ogni occidentale dovrebbe confrontarsi giorno dopo giorno, perché se è vero che parlare di valori assoluti è un po’ troppo azzardato, è pur vero che in questo nostro mondo bisogna fare i conti con valori innegoziabili, che trascendono la libera volontà di ognuno. Se la nostra morale fosse <<fatta in casa>> aggiustata a piacimento e utilizzata nel modo più conveniente, il relativismo ci porterebbe ad infrangere le norme della normalità. Ma poi – detto fra di noi- perché i valori consolidati della società occidentale dovrebbero essere messi da parte e ridotti al nudo della relatività in nome di valori di comodo? E la modernità è sempre sinonimo di progresso, di civilizzazione e perfettibilità?
 
 
Partiamo a ritroso con un esempio attualissimo. Vitam impendere vero: sacrificare la vita per amore di verità. Dalle Satire di Orazio l’autodidatta filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau trasse l’ispirazione per mettere a nudo i mali della società moderna, i mali che affliggono l’uomo in un periodo di grande sviluppo culturale, sociale e scientifico. Alle spalle appunto una rivoluzione scientifica, il passaggio dal sistema tolemaico al sistema copernicano, una <<riveduta>> totale della realtà codificata in un linguaggio matematico e il coraggio di un uomo che senza nessuna reticenza è capace di affermare che la società in cui vive è la società dell’apparenza, in cui gli uomini non si lasciano affatto <<penetrare>>. Ma l’analisi di Rousseau è vera. E’ attuale, parla ancora a distanza di duecentosessantaquattro anni. E non solo il pensatore ginevrino ha influenzato direttamente o indirettamente personaggi quali Karl Marx, ma ancora oggi parla con una veemenza tale da muovere i dibattiti relativi alla morale e alla politica e più in generale alla società, dal momento che la filosofia politica è un terreno comune ai più diversi ambiti d’indagine. Nel Discorso sulle scienze e sulle arti del 1750 Rousseau, rispondendo al quesito posto dall’Accademia di Digione che rileva nel Mercure de France (si veda la lettera a Malesherbes del 1762), si scaglia contro lo sviluppo stesso delle scienze e delle arti che, nate dall’otium e dal lusso, non hanno fatto altro che rivestire l’uomo del velo dell’apparenza. Gli uomini non sono capaci più di <<penetrarsi>> vicendevolmente e cioè di scorgere gli uni negli altri la vera umanità. Non è più la società dell’essere, ma dell’apparire. E di certo Rousseau non può fare a meno di ricorrere a modelli di società o ad esperienze del passato nelle quali gli uomini si accontentavano della <<felice ignoranza>> e in cambio vivevano in sani valori, nella virtù e nella forza fisica invece che negli adornamenti fatti solo per nascondere la propria debolezza. L’Accademia, il cui moltiplicarsi in tutta Europa si era verificato a partire dal XVI secolo in città quali Firenze, Napoli o Venezia, d’altra parte si presentava a Rousseau come il luogo in cui preservare la cultura e gli sviluppi stessi della scienza dal <<senso comune>>.
 
 
Ed ecco che le parole del filosofo risuonano nella loro incisività ancora oggi. Il progresso umano, raggiunto tramite gli sviluppi della scienza ieri e tramite il progresso della tecnologia, degli studi e delle ricerche approfondite oggi, nasconde il grande nemico: la perdita più totale dei valori. Si presentano al dibattito pubblico metodi di meccanicizzazione della vita: la clonazione, la fecondazione in vitro, la produzione di armi nucleari e di altre questioni rilevanti al di là delle esigenze puramente pratiche. Si badi bene: non siamo contro il progresso scientifico, ma contro la riconduzione del tutto su un unico binario: la pretesa dell’uomo di innalzarsi al di là della natura. L’Uomo-Dio, l’uomo che si erge come potenza ultima, re del mercato, dei processi di andamento sociale e culturale, re di se stesso, del proprio corpo, tempio personale dei valori più comodi. E se certamente Rousseau fosse vissuto al tempo di oggi, avrebbe constatato con mano la decadenza in nome dell’idolatria del denaro, della ricerca sofisticata di sostituire il proprio ego alla natura. Una mossa solipsistica, egoistica, che si trincera dietro muri di ipocrisia, dietro ventate di autodeterminazione. Liberarsi di Dio innanzitutto, poiché fantasia, poiché mezzo esclusivo di potere da parte delle religioni. Anzi, quando si parla dell’essere limitato dell’uomo la scienza insorge a sottolineare ancora una volta la sua grandezza: il male – sostengono i semidei- è porre sotto la soglia del limite l’uomo. La sostituzione della religione <<della tradizione>> con la religione della scienza, il positivismo, la fiducia nei progressi della scienza e al tempo stesso l’oblio dell’uomo. Era questo quello che Edmund Husserl cercava di spiegare nelle eloquenti pagine della Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale: <<nella miseria della nostra vita – si sente dire – questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balia del destino; i problemi del senso o del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso>>.

 

E se gli antichi politici parlavano di costumi e di virtù, i nostri non parlano che di commercio e denaro, <<secondo loro, un uomo non vale per lo Stato che il consumo che vi fa>>. Non è Karl Marx, è circa un secolo prima Rousseau a tuonare contro la modernità. E allora qual è il compito degli intellettuali? È quello di gridare alle masse che la modernità porta con sé le tracce di un progresso malato. Che poi cambiare il mondo non sia potere di nessuno – secondo la nostra opinione – è un’altra questione. Essere dissidenti significa prendere atto della realtà, delle sue modificazioni, e lasciare che l’uomo si renda conto che sta andando a schiantarsi contro la grande natura. Siamo così fiduciosi nella speranza di poter rimettere in gioco le carte? Il potere di oggi non è il potere di duecento anni fa: il potere oggi si serve di una tecnologia inimmaginabile ai tempi di chissà quale sogno egualitario. E allora il suicidio dell’Uomo-Dio non rimane che l’unico atto degno dell’uomo malvagio. Amen!