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Governance, rappresentanza e sovranità

di Eugenio Orso - 11/03/2014

Fonte: pauperclass


La governabilità o (corporate) governance, di cui cianciano in continuazione le sub-élite politiche, particolarmente in occasione di una nuova legge elettorale, è un’espressione mutuata dall’economia aziendale, e significa sostanzialmente governo dell’impresa, o più in particolare, delle spa di diritto privato. Le spa sono strutture in cui gli azionisti, chiamati esoticamente shareholders, la fanno ormai da padroni. Soprattutto se si tratta di grandi azionisti, detentori del pacchetto di controllo, che non necessariamente deve corrispondere alla maggioranza assoluta delle azioni. Per gli interessi di queste minoranze di individui molto potenti, che hanno in mano lo scettro del comando, lavorano direzioni aziendali e consigli di amministrazione L’espressione governance, trasposta su un altro piano, cioè su quello dello stato e della cosa pubblica, oltre a rivelare l’aziendalizzazione di tutto promossa da questo capitalismo (anche di ciò che per sua natura non è mercato e iniziativa privata), segnala che la governance risponde a ben precisi interessi, corrispondenti a quelli degli shareholders, o azionisti, esattamente come accade nelle imprese private e nelle spa.

L’istituto della rappresentanza, nella democrazia indiretta di matrice liberale, è, come sappiamo, cosa ben diversa. E’ una questione originaria non di diritto privato, ma di diritto pubblico è di sovranità. Secondo la favoletta liberaldemocratica, diciamo per semplificare che il popolo, non esercitando in modo diretto e assembleare la sovranità, non potendo decidere secondo le forme della cosiddetta democrazia partecipativa (quella della Polis greca, per intenderci), elegge i suoi rappresentanti che esercitano il potere sovrano. Il fatto che il suffragio sia diventato universale, non più limitato in base al censo o al sesso, non sposta i termini della questione, escludendo la democrazia partecipativa, o diretta e assembleare (Agorà), le cui vestigia sopravvivono nelle forme della consultazione referendaria. La mediazione dei rappresentanti parlamentari è essenziale in liberaldemocrazia.

Come si nota, pur nella semplicità con la quale sono stati esposti i concetti di governance e di rappresentanza, le due cose hanno origini diverse e non sembrano molto compatibili – nello storico conflitto fra Stato e libero Mercato, che nasconde il conflitto fra politica sovrana ed economia liberista – soprattutto se la governabilità di matrice aziendalistica investe lo stato e la cosa pubblica. Eppure le due cose stanno forzatamente insieme nelle democrazie liberaloidi come quella italiana, con l’avvertenza che la governance dello stato è oggi una priorità, anzi, per noi italiani sembra essere la priorità. Una priorità così forte che mette in ombra la questione della rappresentanza, di tutti, minoranze comprese, e quella della sovranità dello stato. Infatti, la nuova legge elettorale è stata elaborata da Renzi e Berlusconi (con Renzi “alter ego” a sinistra di Silvio), proprio in funzione della governance, escludendo con l’imposizione di una soglia minima i piccoli partiti e tendenzialmente le preferenze, a scapito dell’istituto liberaloide della rappresentanza.

Se la governance, mutuata dalle strutture aziendali private in cui c’è gerarchia e non democrazia, diventa il supremo valore da perseguire – a scapito della rappresentanza e rappresentatività del popolo – è necessario individuare a quali interessi risponde, nel concreto, il “governo dell’impresa-stato”. E’ necessario individuare, con altre parole, chi è il vero shareholder, ossia “l’azionista” di riferimento. Tenendo conto della limitazione e “devoluzione” di sovranità che sconta lo stato nazionale italiano, imbrigliato dal sopranazionale neocapitalistico (commissione europide, bce, fmi), considerando quelle che sono le politiche strategiche adottate e chi le detta, non è poi così difficile arrivarci.

La costituzione repubblicana ancora formalmente in vigore, recita nei suoi principi fondamentali, all’art. 1, comma due, “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. All’art. 3, comma due, stabilisce che “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. L’Art. 4, primo comma, dice chiaramente che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Si potrebbe continuare citando altri articoli, ma non sembra necessario, perché è già chiara la distanza fra i principi fissati dalla legge fondamentale dello stato e l’effettiva gestione dello stato in tempi di governance neocapitalistica, “devoluzione” di sovranità e limitazione effettiva della rappresentanza popolare. Esiste una costituzione materiale – molto diversa, se non opposta a quella formalmente in vigore dal 1° gennaio del 1948 – che assicura la governance dello stato nell’interesse esclusivo dello shareholder neocapitistico. L’art. 1 della costituzione formale, secondo il quale la sovranità appartiene al popolo, è destituito di ogni fondamento concreto. Così, la rappresentanza liberaldemocratica diventa, de facto, rappresentanza di interessi privati euroglobalelitisti, in buona misura esterni al paese, e la sovranità deve essere cercata altrove, non appartenendo al popolo.

In conclusione, la governance aziendalistica applicata allo stato è possibile solo in semi-stato privato di sovranità politica, economica e monetaria, esattamente come quello italiano. Un semi-stato opposto a quello di leniniana memoria, perché prelude allo stadio finale neocapitalistico e non all’avvento del comunismo. In questo semi-stato, la rappresentanza – a segnare la distanza fra costituzione formale e costituzione materiale effettivamente applicata (contrapposte, non compenetrate come sosteneva Mortati) – non è più quella del popolo sovrano, ma rappresentanza di grandi interessi privati che riportano a una nuova classe dominante, postborghese e (euro)globale. Quando sostengo che l’Italia è un paese occupato, intendo perciò occupato anche dal punto di vista costituzionale e della legge fondamentale effettivamente operante.