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Galilei intellettualizza Dio per poter divinizzare l’uomo

di Francesco Lamendola - 16/03/2014


 


 

Galilei cattivo teologo, cattivo filosofo, cattivo scienziato.

Come teologo improvvisato, sostiene di sapere come funziona la mente di Dio: funziona secondo lo schema della matematica, è una mente di tipo matematico.

Come filosofo, non meno improvvisato, pretende di poter trarre delle conclusioni di ordine generale sul problema della conoscenza, e cioè che la realtà essendo un prodotto della mente matematica di Dio, non può essere decifrata che secondo l’analisi matematica.

Come scienziato, e mediocre scienziato, non si perita di assolutizzare il procedimento matematico e di farne la chiave interpretativa della natura: ma che la natura sia costruita secondo una logica matematica, e che le sue figure fondamentali siano cerchi, triangoli e altre figure geometriche perfette, non si prende la briga di dimostrarlo: lo afferma e basta, col sottinteso che chi non condivide il suo punto di vista è soltanto un povero zuccone.

Anche quando ha torto marcio, come nella disputa con l’astronomo gesuita Orazio Grassi circa la natura delle comete – che per lui sono solo illusioni ottiche, mentre per quello sono corpi fisici reali – sale in cattedra con la massima arroganza, pesta i pugni e incocca le frecce del sarcasmo e della derisione: per i suoi avversari non ostenta che disprezzo, tanto è sicuro di possedere in tasca la verità suprema, lui e lui solo. Si guarda bene dal voler dividere la gloria scientifica con chicchessia: non fa parola dell’ottico olandese che ha inventato il cannocchiale, mentre lui si è limitato ad appropriarsi di tale invenzione; e a Keplero che gli chiede in prestito il famoso cannocchiale, fa orecchi da mercante, tanto è geloso del suo primato.

C’è quasi da meravigliarsi che l’Inquisizione si sia limitata a chiedergli di render conto dell’avere insegnato la dottrina copernicana (la quale, presentata come semplice ipotesi, sarebbe stata comunque tollerata), tanto è grossolana la sua intrusione nel campo della teologia, ove pretende non solo di insegnare agli altri come vada letta la Bibbia, ma non esita a sostenere di saperne, quanto alle proposizioni della matematica, tanto quanto Dio stesso; non solo, di sapere come Dio ragiona, e cioè come  un grande matematico. Che Dio sia essenzialmente amore, non gli passa neanche per la mente, benché dica di rimettersi all’insegnamento della Chiesa per tutto ciò che riguarda la fede. Ma la sua è una finta umiltà: di fatto, egli sostiene, proprio come Giordano Bruno, la dottrina della doppia verità: una per i dotti, e naturalmente per se stesso, ed una per il volgo: la prima come risultato della conoscenza scientifica, la seconda come viene insegnata dalle Scritture, secondo l’interpretazione della Chiesa.

Il Dio di Galilei, dunque, è il diretto progenitore del Grande Architetto dell’Universo che verrà tenuto a battesimo dagli illuministi un secolo e mezzo più tardi: un Dio che va bene per confermare l’eccellenza intellettuale di coloro che lo pongono e ne additano l’esistenza. In altre parole, Galilei, come più tardi gli illuministi, ha bisogno di intellettualizzare Dio, perché solo così può divinizzare l’uomo; più precisamente: perché solo così può divinizzare la figura dello scienziato; meglio ancora: perché solo così può divinizzare se stesso.

Non gli basta il piacere quasi sensuale, la profonda soddisfazione di risolvere il mistero della natura, e di sapere che egli soltanto è stato capace di farlo, mentre il resto dell’umanità balbettava, incapace di decifrare il “gran libro” da essa rappresentato; non gli basta l’orgoglio di rivendicare per sé solo il merito di tale fondamentale acquisizione, equiparandosi, implicitamente, a un novello Prometeo, che ruba il fuoco agli dèi per beneficare i suoi simili. No: vuole anche sentirsi uguale a Dio.

E lo dice: nel sapere “intensive”, ossia nel sapere qualitativo, che è quello della matematica, egli conosce le cose con lo stesso identico grado di verità con cui le conosce Dio. Lui e Dio sono congeneri; ma lui, in fondo, è più bravo: Dio si è limitato a porre l’enigma, cosa facile, data la sua mente infinita; lui, Galilei, lo ha sciolto, con le sue sole forze umane.

Non gli viene in mente, nel suo delirio narcisistico, che bisognerebbe provare a dimostrare l’equivalenza fra la matematica e la natura; egli ne è convinto, di una certezza che non conosce il minimo dubbio: però non si abbassa a dimostrarlo, pretende che gli si creda sulla parola – cosa, in fondo, legittima, visto che lui è pari a Dio. Chi avanza qualche sia pur minimo dubbio, viene investito dai suoi strali avvelenati, dalla sua derisione, dalla sua ironia acrimoniosa, dalle sue parole affilate come lame di coltello. Lui sa spingersi alla conoscenza delle cause dei fenomeni, mentre i suoi miseri avversari – come il Grassi – si limitano a citare Aristotele: dunque, lui ha ragione e loro torto; non solo: lui sa ragionare da vero scienziato, e loro no.

È quasi incredibile che la stragrande maggioranza degli autori moderni abbiano presa per buona questa ingenua e burbanzosa auto-glorificazione e che continuino a presentarla agli studenti, a loro volta, con le stesse parole di Galilei, con la stessa mancanza di spirito critico e con la stessa pretesa di auto-evidenza. Ma tant’è: da quando il metodo sperimentale di Galilei è stato dichiarato il “vero” metodo della scienza moderna, bisogna che tutto quel che Galilei ha detto venga preso per oro colato; quanto agli scienziati suoi contemporanei, i quali ebbero il torto di non dargli immediatamente ragione in tutto e per tutto (e si badi che, quanto al modello eliocentrico, egli non aveva alcuna prova convincente da addurre: pretendeva che gli si credesse sulla fiducia), gli autori moderni li trattano come già li trattò Galilei: con ironia e disprezzo.

Ha osservato a questo proposito Pietro Emanuele nel suo libro «Nel meraviglioso mondo della filosofia» (Casale Monferrato, Piemme, 1995, pp. 111-14):

 

«È degno di nota che la Chiesa abbia condannato Galilei per la sua astronomia eterodossa, ma non abbia preso posizione di fronte alla sua teoria, indubbiamente insolita, per cui Dio prima ancora di essere amore è anzitutto un supremo calcolatore. Se si accettala sua posizione Dio finisce con l’essere un demiurgo che deve la sua potenza soprattutto alla propria eccellenza matematica. A differenza infatti del demiurgo platonico del “Timeo”, non è suddito di altre potenze ma il suo imperio è di carattere decisamente intellettuale.

Questa posizione, mentre intellettualizza Dio, rischia infatti di divinizzare l’uomo. Per Galilei infatti l’uomo è in grado di calcolare e di giungere a possedere certezze assolute.  Esse sono di natura matematica, e chi le possiede si trova, per lui, ad avere una sicurezza intellettuale non diversa  da quella posseduta da Dio. Galilei ne deduce  che la mente umana sia opera di Dio.

Ma questa deduzione può scaturire solo da una filosofia di tipo galileiano. Non è che Galilei abbia fissato prima l’idea di un Dio  matematico e poi ne abbia  ricavato la medesimezza sostanziale tra la mente umana e quella divina, ma succede l’inverso. Galilei privilegia la matematica perché è convinto che la lingua in cui è scritta la natura sia una lingua matematica e che ciò induca a postulare che anche il suo creatore non possa che avere una mente matematica. Il suo punto di partenza  non è quindi teologico, ma naturalistico. Come scrive Cassirer, “l’accordo generale tra matematica e natura  è per lui una convinzione soggettiva,  anteriore a ogni riflessione filosofica”.

Per questo Galilei non è un teologo, per quanto teorizzi la struttura della mente divina.  È solo dopo aver scoperto che i caratteri della natura sono “triangoli, cerchi e altre figure geometriche” che egli viene a sostenere una corrispondenza necessaria, benché non dimostrabile,  fra le strutture della mente umana, quelle matematiche della realtà e quelle della mente divina.  Ciò non toglie che egli possa anche parlare non da filosofo ma da uomo di fede  quando afferma che la mente umana è opera di Dio, tuttavia anche le sue esternazioni dalla prospettiva del credente sono pervase dallo stupore per il potere scientifico dell’uomo: “quando io vo considerando quante e quanto meravigliose cose  hanno intese, investigate ed operate gli uomini, pur chiaramente conosco io ed intendo esser la mente umana opera di Dio, e delle più eccellenti” (“Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”).

Indubbiamente asserzioni del genere sono più tipiche del filosofo che dello scienziato. Manca infatti la cautela scientifica che dovrebbe sempre aver presente la provvisorietà delle conquiste della scienza. Tuttavia i suoi erano tempi di grandi conquiste, ed è comprensibile che Galilei non dubitasse che i caratteri matematici del libro della natura fossero immutabili. Di qui la sua decisa opzione di considerarsi un “filosofo geometra”.

Quanto all’eventuale accusa di irriverenza che poteva rivolgersi a questa divinizzazione del pensiero matematico dell’uomo, Galilei pensava di ovviarci con la sua distinzione fra conoscenza “intensiva” e conoscenza “estensiva”. È solo da un punto di vista intensivo, cioè della qualità della conoscenza, che l’uomo conosce come Dio, cioè con certezza assoluta. Invece dal punto di vista dell’estensività la conoscenza umana è sempre progressiva e incompleta; a differenza dell’onniscienza divina. Dove l’originalità di Galilei concerne la conoscenza intensiva, poiché qui egli non esita a sottoscrivere  quell’imperialismo del pensiero che giunge a omogeneizzare la mente divina a quella dell’uomo: “di quelle poche cose intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva,  poiché arriva a comprenderne la necessità”.

L’entusiasmo di Galilei per la matematizzazione dell’universo non deriva soltanto dal carattere di certezza della matematica, ma anche dalla soddisfazione che essa offre allo specialista di possedere delle formule ignote al profano in rado di svelare importanti segreti della realtà. È come se il matematico possedesse la combinazione della cassaforte della natura. Finché procede matematicamente il filosofo possiede la stessa certezza della divinità. In questo senso Einstein diceva che “Dio non gioca a dadi”. In quanto la sua conoscenza non è mai aleatoria. Altrettanto vale per l’uomo, e se può incorrere in errore, si tratta solo di errore di calcolo.

Avanzare l’idea che i numeri siano la chiave di tutto, la spiegazione di ogni angolo della natura, trasferisce implicitamente la matematizzazione sul terreno del gioco.  Questo può accrescere il senso di soddisfazione ch anima il matematico, può però provocargli le reazioni negative di chi non accetti l’idea che il filosofo  possa conoscere praticando un gioco. Galilei è andato incontro a due critiche di questo genere.  La prima è quella di padre Mersenne, il quale pur concedeva che la ma tematizzazione galileiana fosse un gioco bellissimo di “corrispondenze  e di combinazioni atto e deliziare le menti più eccellenti”, ma ammoniva che i dogmi della fede dovevano rimanere estranei ad esso.

Una seconda critica è invece provenuta non da preoccupazioni teologiche ma scientifiche. È quella di Husserl nella “Krisis”: per il tipo di scientificità auspicato da Husserl la matematica ha valore soltanto se è legata alle cose. Averla trasformata in una logica formale simile ad un mero gioco ha portato Galilei a una concezione superficiale della funzione della scienza, la quale in lui “procede in modo che non è sostanzialmente diverso da quello del gioco delle carte o degli scacchi”.»

 

Galilei, dunque, è stato il pioniere dell’imperialismo del pensiero logico-matematico, cioè dell’imperialismo scientista: la natura è il cuore del reale; ma la natura è scritta in caratteri matematici; dunque, solo la conoscenza dello scienziato è vera conoscenza, il resto non vale nulla. La fede? Sì, certo: ma bisogna mettere d’accordo la Bibbia e la scienza; e, se sorge qualche problema, è la Bibbia che dev’essere letta in modo diverso. La scienza non sbaglia mai. Nessuna ombra di dubbio, nessun senso di modestia, nessuna accenno di umiltà intellettuale: del resto, perché essere umile? Se la sua conoscenza, in ambito logico-matematico, è pari a quella di Dio, allora ci si può risparmiare la commedia dell’umiltà. L’uomo è un piccolo Dio; anzi, è uguale a Dio.

Galilei, di fatto, non è solo il banditore di una nuova religione gnostica, è anche un riesumatore del pelagianesimo. Il peccato non entra nel suo orizzonte intellettuale, così come non vi entra la grazia: si dirà che questo riguarda la fede, non la scienza; vero, ma è Galilei a invadere il campo della fede, a sentenziare chi è Dio e come si deve leggere la Bibbia.

Ancora oggi si continua a presentare Galilei come una vittima dell’oscurantismo religioso. Certo, fu una vittima del’Inquisizione, come tanti altri. Ma non fu perseguitato per aver difeso la libertà di coscienza, né la libertà di ricerca scientifica. Il suo scientismo era tanto intollerante, tanto fanatico, quanto lo era la religione dei suoi persecutori. Lui ed essi erano fatti della stessa pasta.