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«La baionetta del russo mi entrava nella carne insieme a una felicità inaudita…»

di Francesco Lamendola - 18/03/2014


 


 

«La baionetta del soldato russo mi entrava nella carne, spingendo le costole, ed io provai una felicità inaudita, quale non avevo mai provato allora né provai più in seguito».

Queste parole stupefacenti furono pronunciate dal pittore espressionista austriaco Oskar Kokoschka, ormai anziano, nel corso di una intervista per le televisione. Ricordo che da quando le udii, casualmente, moltissimo tempo fa, nel corso di un programma culturale notturno (i migliori programmi culturali, da noi almeno, vanno in onda la notte, in modo che possa vederli il minor numero possibile di persone), esse continuarono a risuonarmi stranamente nella mente, senza più andarsene.

Per tutti questi anni esse hanno continuato a ritornare, a intervalli, come se avessero scavato una nicchia nella roccia, una nicchia definitiva, inespugnabile: intuivo che in esse doveva celarsi un segreto d’importanza decisiva, una di quelle formule che riassumono il significato della vita stessa, della vita e – naturalmente – della morte; e che dalla risoluzione di quel mistero sarebbe dipeso tutto il resto.

Oskar Kokoschka si era arruolato volontario, in uno squadrone di cavalleria, allo scoppio della prima guerra mondiale, anche per dimenticare una travolgente ma fallimentare storia d’amore con la fatale Alma Mahler, una donna che passava per una delle maggiori bellezze di Vienna e che aveva collezionato mariti ed amanti in quantità, tutti intellettuali affermati, passando dall’uno all’altro con un’ansia divorante, con una specie di fame rabbiosa, un po’ come la lupa dantesca.

Dopo un periodo di addestramento (non sapeva nulla di cavalli e non sapeva nemmeno cavalcare), l’artista era stato destinato al fronte orientale, dove, nel 1915, durante la grande offensiva austro-tedesca di Tarnow-Gorlice, ebbe il battesimo del fuoco. Caduto in una imboscata della fanteria russa, nel folto d’una foresta della Volinia, insieme al suo reparto, era stato colpito da un proiettile alla testa ed era rimasto sul terreno, come morto. Più tardi, di notte, un soldato russo gli si era avvicinato e, notando qualche segno di vita, lo aveva trafitto con la lama della baionetta. Kokoschka aveva ancora con sé la rivoltella d’ordinanza e l’aveva puntata verso l’assalitore; ma, pur avendo già il dito sul grilletto, non aveva fatto fuoco. Forse non era più lucido: pare che giacesse sul terreno da alcuni giorni, dopo la prima ferita al capo, che gli aveva provocato allucinazioni e una prima, notevole emorragia; o forse gli era sembrato inutile quell’ulteriore versamento di sangue, sicché non aveva voluto accrescere la strage uccidendo un uomo che, in fondo, stava solo facendo il suo triste dovere di soldato. Sta di fatto che il russo, terrorizzato nel vedere la sua vittima scoppiare in una incomprensibile risata, con gli occhi iniettati di sangue, era fuggito via, lasciando la baionetta e l’intero fucile piantati nel petto del moribondo: e così era incominciata una seconda agonia, sempre nel bosco di betulle, all’ombra delle chiome secolari, in una solitudine fuori dal tempo e dallo spazio.

Certamente Kokoschka, in quei momenti, doveva essersi sentito vicinissimo alla morte; forse pensava di averne già varcato i cancelli: forse il suo spirito vagava in quella inesplorata terra di nessuno che si stende, simile a un regno nebbioso, fra il paese della vita e quello della morte. Quando il russo gli si era avvicinato e, alla luce irreale della luna, gli aveva infitto la baionetta nel costato, premendo contro le costole e trapassando l’uniforme e poi la carne, egli probabilmente aveva provato una stranissima esperienza di dissociazione: il suo corpo era lì, inchiodato accanto al cavallo stramazzato, sul terreno erboso della foresta, nella fresca umidità della notte esalante dalle palude circostanti; ma il suo spirito era altrove, in un altrove inafferrabile e indescrivibile, ove, come in un quadro surrealista, apparivano le cose più strane: per esempio, il sole e la luna che brillavano in cielo simultaneamente.

Le funzioni vitali erano stranamente rallentate, i gesti e le azioni si svolgevano come al rallentatore; ma la mente, pur svagata, aveva conservato, per certi aspetti, una sua eccezionale lucidità; vedeva tutto, registrava tutto, senza paura e senza turbamento. Quella lama della baionetta, per esempio, che entrava nel suo corpo e frugava nella carne, sembrava un oggetto impersonale; e il dolore era tremendo, certo; però, nello stesso tempo, era come se Kokoschka vedesse tutta la scena dall’esterno, come un osservatore spassionato: tali erano la chiarezza e l’oggettività con le quali si rendeva conto di ogni cosa….

Ed ecco l’episodio, così lo riporta Kokoschka nel libro «La mia vita» (titolo originale: «Oskar Kokoschka. Mein Leben», München, Verlag F. Bruckmann, 1971; traduzione dal tedesco di Andrea Shanzer, Venezia, Marsilio Editori, 1982, pp. 92-94):

 

«Qualcosa si muoveva ai margini della foresta. Smontare! Condurre i cavalli! Alcuni volontari si unirono a noi e avanzammo come se andassimo a caccia di fagiani. Il nemico indietreggiava nel profondo della foresta sparando sporadicamente. Così dovemmo di nuovo montare a cavallo, che era sempre la cosa peggiore, perché dal momento del servizio militare obbligatorio, i cavalli requisiti avevano  paura degli spari  e i riservisti arruolati erano pessimi cavalieri. Dopo tutto, erano per la maggior parte solo abituati alle sedie di un ufficio. Nella foresta all’improvviso fummo investiti da una scarica di colpi così fitti e vicini che ci sembrava di vedere passare sibilando  ogni proiettile, come un vespaio spaventato.

Carica! Era venuto il gran giorno, il giorno che anch’io avevo sospirato. Ebbi ancora abbastanza presenza di spirito per spingere il mio cavallo su un lato, fuori dal branco degli altri cavalli imbizzarriti, sembravano inseguiti da spettri, mentre altri ancora sopraggiungevano e galoppavano  sopra agli uomini e alle bestie cadute.  Volevo affrontare da solo l’ignoto e guardare negli occhi  il nemico. Una morte da eroe – perché no? Ma non essere calpestato  a morte come un verme. I russi ci avevano teso una trappola. Avevo localizzato la mitragliatrice russa prima di sentire un colpo sordo alla tempia.

Vedevo contemporaneamente il sole e la luna e la testa mi faceva molto male. Sentivo anche un profumo di fiori, ma non mi ricordavo il nome del fiore per quanto mi spremessi il cervello. E tutto quel gridare intorno a me e il lamento dei feriti che sembrava riempire il bosco - questo mi deve aver fatto riacquistare i sensi. Mio Dio, devono essere agonizzanti! Poi mi concentrai sul fatto che non riuscivo a concentrare lo stivale con la gamba dentro, che si muoveva troppo distante da me, anche se mi apparteneva. Riconobbi lo stivale dallo sperone: contro il regolamento i miei stivali non avevano rotelle aguzze. Sul prato due capitani in uniforme russa stavano danzando un balletto , s’incontravano e si baciavano sulle gote come due ragazze. Nel nostro esercito sarebbe stato contro il regolamento. Avevo un forellino circolare nella testa. Il mio cavallo sopra di me, ha scalciato un’ultima volta prima di morire e questo mi aveva fatto riprendere i sensi. Cercai di dire qualcosa, ma la mia bocca era piena di sangue, che cominciava a coagularsi. Le ombre intorno a me si facevano sempre più grandi e volevo domandare come mai il sole e la luna risplendessero assieme. Volevo indicare il cielo, ma il mio braccio non voleva muoversi. Forse rimasi lì privo di conoscenza per diversi giorni.

Ripresi i sensi solo quando dei portantini nemici mi lasciarono cadere dalla barella come un peso inutile, accanto a un russo sventrato e con tutti i visceri di fuori. Il fetore era così terribile che diedi di stomaco e ripresi del tutto i sensi. Non avevo promesso a mia madre di tornare a casa per una certa data? Non mi ricordavo che data fosse! Cercai di ricordarmela – sì, deve essere vicina. Uno, due, tre, quattro, cinque, contai le mie dita e c’era quel forellino nella mia testa. Ero davvero ancora vivo? Sì, senz’altro. Perché, quando avevo salutato mia madre le avevo dato quella collana di perle di vetro rosso che mi aveva dato una certa signora da conservare [si tratta di Alma Mahler, già sua amante, che fu anche moglie di Gustav Mahler, Walter Gropius e Franz Werfel e che gli aveva ispirato una delle sue opere più celebri: “La sposa del vento”]. Sapevo solo questo. Ma ciò che mi faceva maggiormente inorridire era il fatto di non poter gridare, non potevo emettere alcun suono e questo era molto peggio che vedermi all’improvviso un uomo di fronte. Spalancai gli occhi, cosa che mi fece male, perché erano pieni di sangue, ma dovevo vedere cosa mi avrebbe fatto. In realtà di lui potevo vedere solo la testa e le spalle, ma bastava; aveva un’uniforme russa e quindi era mio nemico. Lo osservai così a lungo che mi parve un’eternità mentre, alla luce della luna, puntava contro il mio petto la lama luccicante della sua baionetta. Nella mano destra, quella che non era paralizzata, sentivo la mia pistola, legata al polso. La rivoltella era puntata al petto dell’uomo. L’uomo non poteva vederla perché, essendo chino su di me, si faceva ombra. Le mie dita tolsero la sicura. Cercai di farlo leggermente, e solo io l’udii, c’era un proiettile in canna,  come voleva il regolamento. Allora la sua baionetta mi forò la giacca e cominciai a sudare dal dolore. Credetti di non poterlo sopportare, e mi dicevo che era solo paura, mentre la baionetta scivolava attraverso la stoffa  della giacca. Una leggera pressione del mio dito, come quella, cari lettori,  da voi esercitata per accendervi la sigaretta con l’accendino, sarebbe bastata per riportarmi vivo a Vienna, a casa, da mia madre. Dopo tutto sono le madri che ci mettono al mondo e non la patria. Ora la punta cominciava a pungere la pelle, a frugare la carne. Le mie costole resistevano allargandosi, non potevo respirare. La mia capacità di sopportazione si andava esaurendo. Era insopportabile. Eppure continuavo a dire a me stesso, mentre diventavo sempre più debole: “Ancora un attimo! Questo russo sta solo obbedendo a degli ordini!”. Poi all’improvviso mi sentii leggero e un’ondata di felicità  - mai più nella mia vita ho sentito la felicità in modo così fisico -  un senso di benessere mi pervase. Ero sollevato dal flusso caldo del sangue dei miei polmoni che mi usciva dalla bocca, dalle narici, dagli occhi e dalle orecchie. Fluttuavo a mezz’aria. Era così facile morire? Risi in faccia a quell’uomo prima di perdere i sensi.  Tutto quello che portai con me fu la vista dei suoi occhi attoniti. Il nemico fuggì, lasciando il fucile infilato nel mio corpo. Cadde per il suo stesso peso.»

 

Provare un’estasi di felicità mentre la vita sta abbandonando il corpo: questa non è solo, come potrebbe banalmente sembrare a un discepolo della psicanalisi freudiana, una forma di masochismo estremo, che esplode tanto più prepotente, quanto più era inconsapevole di sé nella cornice della vita ordinaria, prima che le circostanze eccezionali della guerra la portassero in superficie. No: qui c’è molto di più del masochismo, dell’ansia di punizione e dell’istinto di morte; c’è molto, molto di più del senso di colpa del kafkiano Signor K., o del’Agrimensore K. chiamato al Castello, o del povero Gregor Samsa che si desta, un mattino, tramutato in un enorme, viscido, impotente scarafaggio, suscitando il ribrezzo e il rifiuto dei suoi stessi familiari…

Ci saranno anche queste cose, forse: il senso di colpa, il desiderio masochista della punizione, il piacere inenarrabile di un’esperienza di confine, unica e perciò preziosissima; ma c’è dell’altro: c’è l’intuizione che nel dolore, e solo nel dolore, si rivela talvolta, in presenza di una particolare costellazione di fattori interni ed esterni, il senso più nascosto della vita e della morte; e che tale intuizione, tale scoperta, non sono esprimibili a parole; che non ci sono parole, né ragionamenti, per spiegarla, per raccontarla, o anche solo per alludervi, perché è un’esperienza mistica.

Vi sono esperienze indicibili, perché sublimi; ineffabili, perché sciolte da ogni mediazione, da ogni compromesso, da ogni condizionamento. L’esperienza della morte è una di queste, anzi, è l’esperienza fondamentale, l’esperienza che sta alla base di ogni altra esperienza: e chi l’ha fatta vede cose che gli altri non vedono, ode cose che gli altri non odono, annusa profumi che nessun altro ha mai odorato (si noti che Kokoschka, trafitto da un proiettile al capo, ode un intenso profumo di fiori, che lo investe come un’onda: la sua parte razionale, ancora lucida, si chiede di che fiore si tratti, ma non riesce a stabilirlo, forse perché non è un fiore terrestre).

In simili frangenti, è come se un velo cadesse dagli occhi.

Il fatto che Kokoschka sia sopravvissuto a quelle terribili ferite e che sia tornato nel nostro  mondo per raccontarcele, non dovrebbe farci perdere di vista il punto essenziale: che egli, in quei momenti, era già “di là”, era già “oltre”: ed è stata quella esperienza, l’esperienza di varcare la soglia, a inondare il suo animo  d’una gioia improvvisa e incontenibile, con un senso inebriante di libertà…