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Luisa Bergalli Gozzi, o le ambizioni sbagliate

di Francesco Lamendola - 26/03/2014


 

 

 

A fare da battistrada era stata Elena Lucrezia Cornaro, laureata a Padova in filosofia nel 1678 (avrebbe voluto laurearsi in teologia, ma a ciò si era opposto il vescovo): la prima donna laureata nella Repubblica Serenissima di Venezia, in Italia e nel mondo.

Dopo di lei, il XVIII secolo assiste ad una impetuosa avanzata culturale delle donne, ovviamente appartenenti ai ceti superiori, le quali diventano sempre più indipendenti dalla società maschile e incominciano a ritagliarsi spazi d’autonomia anche psicologica nello stesso immaginario maschile, come appare in opere teatrali e letterarie: basti pensare alla «Locandiera» di Goldoni e alla «Moll Flanders» di Defoe, per non parlare della «Pamela» di Richardson.

La figura della “semplice” madre di famiglia e perfino quella della giovane innamorata incominciano ad essere superate; si fa avanti un altro tipo femminile, narcisista, deciso, spregiudicato, freddamente calcolatore, che alimenta ambiziosi progetti di affermazione sociale e culturale; che vuol essere ammirato per le sue doti intellettuali, vere o supposte tali, oltre che per le sue qualità fisiche e per l’eleganza raffinata. Un tipo di donna che punta a conquistare posizioni di prestigio e di potere ora insinuandosi nell’amicizia di personaggi influenti, ora lusingando sprovveduti ma facoltosi ammiratori, e che si serve della sua femminilità per farsi adulare come “intellettuale”, della sua intelligenza per sedurre come femmina. Un tipo di donna poco materna, che fa figli per obbligo sociale ma poi si concentra in tutt’altra direzione: l’arte, la musica, i salotti, l’intrigo politico; che si circonda di amicizie maschili, fra le quali pesca disinvoltamente i suoi amanti, lasciando che il marito faccia altrettanto da parte sua e limitandosi a salvare un minimo di apparenze.

La vita familiare le va stretta, il marito non la interessa, i figli non le bastano, la casa è importante solo come scenografia delle sue serate mondane; compatisce e, in cuor suo, disprezza le parenti e le amiche che non nutrono la stessa ambizione, che si accontentano della loro vita semplice e ritirata. È capace di grandi passioni, ma sa dominarle, dirigerle, sfruttarle; nemmeno l’amore, in fondo, le interessa, se non come specchio del proprio inesauribile narcisismo; può avere tutti gli uomini che vuole, e questo la gratifica, ma le dà anche un senso di sazietà: sogna, forse, l’abbandono totale fra le braccia di un vero amante, di un uomo realmente virile, ma intanto distribuisce i suoi favori agli effeminati corteggiatori che si abbassano a lodare tutti i suoi capricci e che cadono in deliquio davanti alle sue più prevedibili moine. La religione, infine, per lei non significa più nulla, o quasi: è poco più di una ennesima occasione di sfarzo mondano, quando si reca a messa in carrozza e quando va a sedere nel banco riservato, simulando devozione mentre spia, da sotto il velo, gli sguardi incantati dei suoi immancabili ammiratori.

Ama scrivere versi, ama dipingere, ama comporre commedie; vittima di una vera e propria forma di grafomania, non cessa un momento di scrivere lettere (in versi), di comporre epitalami e ogni sorta di poesie d’occasione, di eseguire paesaggi e ritratti, di tradurre opere francesi, di imbastire opere teatrali destinate a qualche recita privata e a qualche lettore da sbadiglio: opere infarcite di storia greca e latina, di eroi ed eroine alla Plutarco, ma pervasi al tempo stesso da una vena languida e sospirosa tipicamente settecentesca. Incapace di silenzio, di riflessione, di giusta valutazione di sé, si sente una grande artista incompresa, si paragona alle scrittrici e alle pittrici del passato, lamenta la spiacevole necessità di doverosi occupare delle banali faccende domestiche, anche se una schiera di balie, cameriere, cuochi e giardinieri manda avanti la casa e si prende cura di tutte le faccende quotidiane, permettendole di passare gran parte della giornata con la penna in mano, davanti a un foglio di carta, sognando la gloria futura o rammaricandosi della scarsa sensibilità dei contemporanei e delle ingiustizia del secolo che non le riconosce i suoi meriti, né le concede i meritati trionfi.

La vicenda di Luisa Bergalli, nota anche come la prima moglie dello scrittore Gasparo Gozzi – fratello, a sua volta, del più celebre Carlo, il commediografo rivale di Goldoni – si inserisce in questo clima culturale e rispecchia, se non tutti, alcuni di questi caratteri psicologici, che si potrebbero chiamare, forse, proto-femministi, poiché anticipano atteggiamenti e indirizzi che saranno poi ripresi e sviluppati da altre generazioni di donne “intellettuali” ed “emancipate”.

Nata a Venezia nel 1703 da famiglia piccolo borghese, ma apprezzata da alcuni protagonisti della vita culturale per la vivacità del suo ingegno, debutta a soli ventidue anni con il melodramma «Agide», che riscuote un certo successo grazie all’intervento personale di Apostolo Zeno; coltiva anche la pittura, alla scuola della celebre ritrattista Rosalba Carriera, e soprattutto la poesia, componendo una quantità sterminata di liriche, in gran parte d’occasione, e curando una vasta antologia della poesia italiana al femminile, nella quale include le sue stesse opere. Sposa, a trentacinque anni, del non ancora ventiquattrenne Gasparo Gozzi, al quale darà cinque figli, proseguirà una infaticabile, ma disordinata produzione letteraria, alternando alle opere originali le tradizioni (una monumentale storia della chiesa dal francese, in ben trentasei volumi), spesso per necessità finanziaria; così come, per necessità finanziaria, si imbarcherà, col marito, nella maggiore impresa artistico-commerciale, rilevando la gestione del tetro Sant’Angelo di Venezia per la stagione del 1747-48, che si risolverà in un clamoroso fallimento economico e in una delusione anche sul piano delle ambizioni letterarie. Così, fra alti e bassi, finendo sempre più per ripiegare sui versi d’occasione, si spegnerà, poco alla volta, la stagione di Luisa Bergalli, ormai surclassata dall’astro nascente del marito e amareggiata dai mancati riconoscimenti alla propria Musa, fino al 1779, anno della morte. Gasparo Gozzi si risposerà l’anno dopo con la governante francese Sara Cenet, ma morirà a sua volta nel 1786, sempre più depresso e attanagliato da ristrettezze economiche, dopo aver tentato anche il suicidio.

Così Fabio Soldini riassume la vicenda artistica e umana di Luisa Bergalli (in: Carlo Gozzi, «Stravaganze sceniche, letterarie battaglie», a cura di F. Soldini, Venezia, Marsilio, 2006, pp. 30-35):

 

«L’esordio artistico della Bergalli avviene nel 1725 sul palcoscenico del San Moisè, quando è rappresentato “Agide re di Sparta”, un melodramma: il testo era della scrittrice ventiduenne (essendo nata nel 1703), la musica di Giovanni Porta, mentre Apostolo Zeno che aveva di proposito rinunciato  all’ultimo momento  rinunciato all’incarico, che era stato a lui affidato, sicché la direzione del teatro non ebbe scelta; non solo, all’indomani della recita egli segnalò in forma anonima  nel “Giornale dei letterati d’Italia” la giovane di talento. Dal 1718 poeta cesareo a Vienna, lo Zeno stimava Luisa ed era entrato in familiarità con lei, aprendole la casa e la ricca biblioteca e sostenendone l’attività intellettuale. In parallelo a quello teatrale lo Zeno assiste anche, con i suoi consigli, all’esordio critico-letterario: per mesi Luisa Bergalli si occupa di allestire un’antologia con i versi delle scrittrici italiane dalle origini medioevali fino ai suoi tempi, nell’intento di dimostrare che le donne sanno dare “lustro all’Italiana Poesia” quanto gli uomini. L’esito sono i “Componimenti poetici delle più illustri rimatrici d’ogni secolo”, usciti nel 1726, un’’opera incerta sul piano filologico  ma innovativa per la ricchezza di voci, estese nel tempo e nella tipologia (ci sono anche scrittrici “spirituali” come Caterina da Siena), tanto da prospettare  un nuovo “canone di lettura” (Chemello).  Ma nel libro la Bergalli compare in due vesti perché  al ruolo di curatrice, in cerca dei testi e delle notizie biografiche su chi li ha scritti, è affiancato quello di autrice: per la prima volta, e in onorevole compagnia, essa pubblica una scelta consistente  di sue poesie e consegna il suo volto a un ritratto, nell’antiporta del primo volume. Teatro e poesia saranno i due filoni principali dell’attività creativa di Luisa, anche se almeno a un terzo, la pittura, si applicò per un certo tempo con impegno ed abilità, sotto la guida di Rosalba Carriera. […]

Il matrimonio non allontana la Bergalli da penna e calamaio, ma la conciliazione tra doveri familiari e pratica della scrittura  si farà difficile con gli anni. Intanto Luisa , dopo l’antologia delle rimatrici del 1726,  aveva continuato a scrivere versi propri, per lo più d’occasione, ma anche a curare versi altrui. Due sono le raccolte significative:  nel 1736 le “Rime” di Antonio Sforza, uno dei suoi maestri, e nel 1738  le “Rime” di Gaspara Stampa; questo secondo volume rappresenta uno dei momenti più importanti  del riconoscimento pubblico delle qualità poetiche della Bergalli, curatrice dell’edizione; nella seconda parte infatti compaiono numerosi componimenti poetici di scrittori contemporanei che lodano sia la produzione letteraria della Stampa sia quella della Bergalli, a essa paragonata. Giudizio d’altra parte  certificato dall’accoglienza in varie accademie, tra cui l’Arcadia. […]

Scrittura teatrale e scrittura poetica dunque caratterizzano il lavoro creativo della Bergalli.  Ma se si ripercorre di nuovi la sua vicenda biografica, si incontrano due altre esperienze culturali, continue comunque, l’una di breve durata, l’altra prolungata nel tempo. La prima è l’impresa del teatro Sant’Angelo. I coniugi Gozzi sono mossi dal desiderio di cimentarsi nella realizzazione scenica  dopo varie esperienze di scrittura teatrale – nella direzione di un teatro d’autore in alternativa alla commedia dell’arte -, ma sono mossi anche dalla speranza  di un buon esito sul piano economico. Così nella stagione 1747-1748 organizzano l’intera attività: scrivono i testi, assoldano attori e attrici, dirigono le prove acquistano i materiali necessari e allestiscono gli spettacoli. Gli scarsi mezzi investiti, in particolare la scarsa qualità della compagnia, e l’incerto repertorio proposto dai due coniugi (in genere mantenuto anonimo) fanno sì che l’attesa rispondenza del pubblico non ci sia. L’impresa fallisce, i Gozzi desistono e si ritrovano carichi di debiti. […] La seconda esperienza che impegna la Bergalli per molti ani  della sua vita è ‘attività traduttoria. Sollecitata da Antonio Sforza, suo maestro di lingua italiana e latina, Luisa si cimenta con Terenzio e traduce sei commedie, che pubblica in volumetti a partire dal 1727 e poi raccoglie in un solo libro nel 1733 con il titolo: “Le commedie di Terenzio tradotte in verso sciolto da Luisa Bergalli fra gli arcadi Irminda Partenide e dedicate a sua eccellenza donna  Clelia Grilla Borromea”. […]

Ma accanto alle versioni d’”autore” occorre ricordare che Luisa per anni si  sobbarcata al lavoro oscuro di traduzioni condotte  solo per incrementare le entrate familiari: è impresa immane, cui furono variamente aggregati gli altri familiari e in particolare il figlio Giambattista, della versione  dei 36 tomi della “Histoire ecclésiastique” di Claude Fleury, avviata nel 1740 e andata in porto venticinque anni dopo, nel 1766, quando il Pasquali in società con altri stampatori incomincia a far uscire i volumi in italiano (di essa, e dei tormentati rapporti con l’editore,  si legge in più luoghi dell’epistolario di Gasparo).  Tuttavia sui frontespizi dei numerosi tomi – nell’edizione veneziana e in quelle successive uscire a Napoli, Genova e Siena – non compare il nome della Bergalli, che pure ha pazientemente vergato quelle migliaia e migliaia di pagine, bensì quello del marito, in realtà coinvolto nella traduzione del solo primo volume ma Gasparo Gozzi è considerato ormai un letterato di maggior prestigio della moglie.  È un altro segnale del declino della Bergalli, che non poteva non esserne amareggiata. A consolarla rimaneva un riconoscimento ufficiale  nella repubblica letteraria: la voce elogiativa  a lei dedicata nel 1760 dal Mazzucchelli nel secondo volume degli “Scrittori d’Italia”.»

 

Come dire: la promessa d’un grande futuro ormai dietro le spalle.

Una vita da grafomane, più che da scrittrice; una vita protesa nel vano inseguimento del successo – o forse, semplicemente, nell’esercizio di un bisogno compulsivo di scrivere comunque e di essere perciò ammirata, di primeggiare. Se i riconoscimenti tardano ad arrivare, allora la Bergalli se li fa da sola: si mette da se stessa fra le grandi rimatrici d’ogni tempo, inserisce il suo ritratto a beneficio dei lettori; vuol far vedere che è graziosa, vuole spuntare ogni minimo vantaggio che la natura le ha dato. Mobilita i suoi amici intellettuali, sfrutta le conoscenze, si arrampica non appena intravede uno spazio agibile. Ma i suoi melodrammi sono così così, irrimediabilmente fiacchi; le poesie anche: nulla che si elevi sopra la media del suo tempo e sopra la moda leziosa dell’Arcadia, dei pastori e delle pastorelle. Se il suo nome ancora si ricorda, ma solo da parte di pochissimi, è solo per via del marito e del cognato, che non pare la stimassero troppo, né l’uno né l’altro: così almeno risulta dall’epistolario del primo e dall’autobiografia del secondo.

Una vita all’insegna di ambizioni sbagliate, dunque.

Che c’è di male, in fondo? Sono in tanti a non saper fare un giusto giudizio di se stessi, a illudersi di essere dei grandi: è una debolezza non solo femminile, ma anche maschile. Vero. E tuttavia sembra esserci dell’altro, in un caso come quello di Luisa Bergalli: il montare (ir)resistibile della marea proto-femminista. In nome di una malintesa uguaglianza di genere, donne come lei cominciano ad avanzare pretese intellettuali, a rivendicare meriti culturali, a sgomitare per farsi avanti, a volte senza troppi complimenti, proprio come la Mirandolina di Goldoni. Non importa se hanno poco talento: potranno sempre sostenere – loro o i loro tardi ammiratori - che le incombenze familiari hanno tarpato loro le ali, che la gelosia dei maschi ha misconosciuto i loro meriti.

Cosa non si direbbe, pur di minimizzare i propri limiti, pur di rimproverare al mondo la propria scarsezza di genialità. La tendenza democratica favorisce questo tipo di persone. Alimenta le loro ambizioni eccessive e mal riposte; poi, se le cose vanno male, o se non vanno bene come esse avrebbero voluto, si può sempre far sentire in colpa la famiglia e mettere sotto processo la società intera, per non aver compreso quanto esse valevano.

Pare che in esse manchi la capacità di formulare le sole domande che dovrebbe farsi, non soltanto uno scrittore o una scrittrice, ma qualunque persona matura e consapevole: chi sono io? Che cosa sono stato chiamato a fare, nella vita? E sto seguendo la strada giusta, sto mettendo a frutto i miei talenti, oppure sto inseguendo irrealistiche chimere per ambizione mal riposta, per smodato desiderio di emergere? E, se sto mettendomi su quest’ultima strada, son capace di domandarmi cosa si nasconda dietro questa ambizione sproporzionata, e quale scomoda verità su me stesso mi stia sforzando d’ignorare? Son capace, per una volta, d’interrogarmi con sincerità e di chiedermi perché dedichi tanto impegno nell’ingannare me stesso, nel mettere a tacere la mia vera vocazione, nel trascurare ciò che potrei fare bene, ciò in cui la mia vita si potrebbe realizzare, diventando un successo?

Quante occasioni mancate di vera realizzazione in altri ruoli, in altri ambiti che sarebbero più confacenti alla propria natura; quanta pienezza di vita e serenità di affetti sprecate, dietro queste ambizioni sbagliate, che allontanano dalla via più vera e più naturale per comprendere se stessi e il proprio posto nel mondo.

Ma questo è un discorso che non piace, specialmente oggi; che fa montare sulle furie molta gente.

E tuttavia, se è vero che capire e riconoscere se stessi è la cosa più difficile da farsi, è altrettanto vero che è anche la più necessaria…