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Multiculturalismo e interculturalismo

di Giuseppe de Falco - 26/03/2014

Fonte: millennivm


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Quando parliamo dell’uomo e del suo organizzare i confini della propria esistenza parliamo essenzialmente di società. L’essere umano, secondo Aristotele, è Zoon politikon, ossia “animale comunitario”, con ciò intendendo una connaturale tendenza di quest’ultimo all’interazione con i propri simili. Ciò, apparentemente, non desta alcuna sorpresa; se tutti gli animali si comportano in questo modo perché mai l’uomo dovrebbe fare eccezione? Tuttavia questa tendenza all’associazione ha un carattere nettamente più complesso nell’uomo che non nell’animale, essendo in quest’ultimo un impulso dettato unicamente da necessità biologiche e contingenti. Si possono infatti individuare due tendenze fondamentali presenti nell’impulso umano al contatto sociale: anagogica l’una, catagogica l’altra. La prima potremmo caratterizzarla come inerente ad una vocazione comunitaria altamente etica e tendente in fondo, tramite la conoscenza del prossimo, alla conoscenza del Sé immortale, e cioè di Dio, la seconda invece porta l’individuo, similmente all’impulso animalesco, ad associarsi agli altri al mero fine di un appagamento individuale ed egoistico. In ogni caso la natura porta l’uomo ad associarsi coi propri simili e perciò a creare comunità di vario genere, conformazione e grandezza. Tuttavia utopistico e assurdo, oltre che antistorico, sarebbe pensare alla possibilità di esistenza di comunità chiuse e totalmente autarchiche, non aventi la benché minima relazione con l’esterno. Se casi simili, specialmente in determinati periodi e contesti storico-culturali, potevano anche sussistere, cionondimeno si tratta qui di eccezioni a una regola ben diversa. La “regola” è appunto quella di una convivenza di comunità diverse organizzata secondo ben determinati criteri e principi, laddove le varie comunità si trovano a dover interagire le une con le altre. Questo ci porta al punto fondamentale del discorso: quale atteggiamento assumere nel venire a contatto con l’altro? Ciò è storicamente dipeso sempre da un fattore base imprescindibile: l’identità. Ma quali sono i fattori che a loro volta determinano una particolare identità e la differenziano per ciò stesso da un’altra? Senz’altro fra i tratti fondamentali che contribuiscono a determinare un’identità vanno comprese le differenze etniche, linguistiche, religiose e culturali, ma non uno scarso peso ha poi ciò che in senso stretto è il destino storico di una comunità. È evidente, tuttavia, come i rapporti tra comunità con identità differenti siano direttamente condizionati dal grado e dalla misura di questa stessa differenza. Ecco che, per questa semplice ragione, le dinamiche di interazione possibili sono in realtà pressoché illimitate; cionondimeno si possono individuare tre criteri relazionali fondamentali. L’uno è quello che pensa alla comunità umana in senso tendenzialmente chiuso, solido e stabile, concependola come organismo a sé stante e di sé stesso bastante, intrattenendo perciò scarse relazioni con l’esterno, limitate per lo più all’essenziale. Esempi di questo modello possono essere individuati nell’antico Egitto e nel regno d’Israele, entrambe civiltà, non a caso, di stampo teocratico. Un secondo modello è invece quello opposto di società aperta, in un senso affine a quello datole da Popper, in cui la comunità è pensata come elemento mobile e fluido, instabile e in continuo mutamento, e quindi la si concepisce come organismo plastico e malleabile, indipendente da forti logiche identitarie. Simili società sono esistite in forme varie dal paleolitico europeo fino ai giorni nostri, essendo la nostra stessa società iscrivibile, nelle sue linee fondamentali, in un siffatto orizzonte. In terzo luogo esiste invece una possibilità intermedia di società, che potremmo definire semichiusa, caratterizzata da un bilancio equilibrato tra spinta espansiva e di conquista  da una parte e tendenza stabile e sedentaria dall’altra, dove vige un forte senso identitario associato a un istinto, per così dire, avventuriero e dinamico. Esempi di questo modello sono le società prodotte dai popoli indoeuropei, pur nelle loro grandi differenze, oltre agli imperi storicamente noti, da quelli dell’estremo oriente a quelli dell’America precolombiana. Abbiamo dunque tre modelli, di cui i primi due nettamente contrapposti e antitetici. Potremmo, in un certo senso, accostarli ai concetti schmittiani di Terra e Mare, e cioè a società fondate sulle idee di stabilità e durevolezza da un lato, e di fluidità e instabilità dall’altro. Sedentarietà e Nomadismo, Caino e Abele, Agricoltore e Pastore: si tratta di archetipi di grandissima importanza per una comprensione adeguata della storia dei Popoli e delle civiltà, senza la consapevolezza dei quali non è possibile cogliere certe dinamiche profonde e “occulte” del divenire storico umano. Bisogna però evitare categorizzazioni troppo nette, infatti le società che abbiamo definito “semichiuse” rientrano comunque, complessivamente parlando, nel modello terrestre, mentre alcune società “chiuse”, quali appunto le due summenzionate, di fatto presentavano pure tratti più o meno cospicui inquadrabili in un’ottica marittima. Il mondo odierno, d’altra parte, presentandosi, come usava dire R. Guènon, come un’assoluta anomalia, richiede un’assai più complessa e puntuale analisi. È indubbio che ci troviamo in una società “aperta”, ma secondo quali principi è retta codesta società? In una parola potremmo a ragione definirla una sorta di “cachistocrazia” (governo dei peggiori), volendo coniare un termine ad essa appropriata. Per comprendere il senso della “talassocrazia” delle odierne società liberal-capitalistiche occidentali bisogna tener presente alcuni dati simbolici di ordine tradizionale. L’occidente è da sempre associato all’acqua, all’oscurità, all’indistinzione e alla morte del Sole, e, diremmo noi, alla morte di Dio. È qui che dunque l’attuale ciclo è destinato a chiudersi, con la vittoria apparente del molteplice sull’Unitario, dell’ombra sulla Luce e della menzogna sulla Verità. E qui veniamo al punto centrale del discorso. Un tale sistema, per sorreggersi e legittimarsi, ha bisogno, per l’appunto, della predominanza della molteplicità indistinta e frammentata (disanimato atomismo sociale) sull’unitarietà e sulla concordia delle genti (pax hominum). Da qui la spietata logica del divide et impera, da qui lo sradicamento dell’individuo, da qui le assurde politiche di parificazione dei sessi, da qui il genocidio criminale delle differenze culturali, linguistiche e, in ultima istanza, persino etniche. Tutto ciò si fa chiamare, con nome falso e bugiardo, Multiculturalismo. Questo folle progetto punta chiaramente ad eliminare le differenze e non a preservarle, non ad arricchire, ma ad impoverire. Anche un bambino capirebbe, infatti, che due culture si reggono su presupposti affatto diversi, tanto più diversi per quanto più disomogenee siano queste stesse culture, e che la sovrapposizione di due o più culture è contraria persino al più comune buon senso. Le possibili dinamiche sono qui soltanto due: o una delle due culture “fagocita” l’altra e l’assorbe a sé, difatti risultandone comunque, almeno in una minima misura, influenzata, oppure entrambe le culture, nessuna delle due essendo più dinamica e “vitale” dell’altra, finiscono per fondersi a tal punto da risultare indistinte l’una dall’altra. Come si vede in entrambi i casi abbiamo un’inevitabile perdita di almeno una delle due culture. Questo processo è iniziato già, sul piano delle idee, con la concezione astratta e quantitativa dell’uomo presente in nuce nell’ideologia del citoyen della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, dove è espresso a chiare lettere che: “tutti gli uomini sono uguali per natura e davanti alla legge”. Quest’assurdità metafisica, lungi dal proporre una corretta prospettiva di uguaglianza, è difatti alla base dell’attuale concezione anonima e disanimata dell’uomo, in quanto, se non nega esplicitamente le diversità di natura, lo fa comunque implicitamente, in quanto il concetto stesso di uguaglianza proposto dall’Illuminismo, comporta uno svuotamento del momento “qualitativo” inerente appunto alle diversità. In un certo senso si può ben dire che il senso di “Europa” sia iniziato a venir meno con lo smantellarsi dell’ecumene cattolico medievale, in cui, malgrado tutto, convivevano culture simili, seppur comunque diverse, accomunate e riunite dal principio universale imperiale. La storia infatti insegna che dove c’è Impero lì vi è vera Unità, laddove invece con i successivi “stati nazionali” e con le stesse ideologie nazionaliste ottocentesche non si è fatto altro che prendere la via della molteplicità e della frammentazione. L’ultimo passo comportava, ovviamente, la liquidazione di tali ideologie, per poter finalmente giungere nella pienezza del “regno della quantità”. Il luciferino culto dell’individuo, concepito come valore a sé, slegato dal suo contesto sociale d’appartenenza in nome dell’emancipazione e del progresso, è stata la bandiera insanguinata per la quale è stato cancellato ogni argine, abbattuta ogni barriera, abolita ogni decenza, per la quale insomma è dovuto perire ogni crepuscolare residuo di civiltà, pur residuale nella borghese. Col ’68, ma poi ancor più con gli avvenimenti dell’89 e del ’91, e cioè col venir meno di quello che potremmo definire “l’ultimo argine”, la situazione è sempre più quella di un mondo sul punto di venir fagocitato dal Leviatano che, pezzo dopo pezzo, sembra riuscire nel suo satanico intento. Come rilevava già il summenzionato Guènon, seguendo una logica inoppugnabile, il “regno dell’anticristo” è il “regno della Grande Parodia”, ovvero dell’inversione di tutti i valori. Secondo tale schema Guènon identificava questo “regno della Grande Parodia” con un unico dominio globale difatti genocida di ogni differenza e distinzione, e perciò stesso l’esatto opposto del principio di Unità imperiale. L’idea di multiculturalismo si inserisce esattamente in quest’ordine di idee, in quanto, sebbene all’inizio nominalmente riconosca le differenze tra le varie culture, nel suo principio applicativo concreto richiede un appiattimento e una banalizzazione sin anche a un livello, potremmo dire, “larvale” delle stesse, livello in cui la consapevolezza fondamentale “tu-io” viene meno. Carl Schmitt affermava che alla base delle dinamiche di amicizia e inimicizia tra i popoli vi è la dialettica fondamentale “tu-io”, una sensazione prelogica ed essenzialmente istintuale. Un popolo che giunga così in basso nel processo di smarrimento e oblio di sé stesso da arrivare a far cadere questa logica fondamentale è automaticamente da considerarsi senza alcuna prospettiva futura; è, in altre parole, solo un residuo moribondo in attesa del verdetto finale. Per questa semplice ragione è oggi quanto mai opportuno distinguere bene tra “vera unità” e “falsa unità”, ovvero tra multiculturalismo e interculturalismo. Quest’ultimo può a ragione profilarsi come un’alternativa valida a tale problema, in quanto presuppone non già la convivenza di più culture in un medesimo contesto, come nel primo caso, bensì un rapporto quanto più armonico e pacifico possibile, che si ponga come vera fonte di “arricchimento culturale”, garantendo il dialogo ed eventualmente persino scambi culturali tra le stesse. D’altro canto è poi evidente che, nel caso del multiculturalismo, la tanto decantata logica dell’arricchimento culturale e degli scambi sia in verità impraticabile, in quanto i vari popoli si ritrovano immessi in un contesto sempre più neutro e incolore, tale da annullare in partenza ogni tentativo orientato in questo senso. Un’interazione armonica e fruttuosa, eventualmente fatta anche di scambi, è unicamente possibile laddove si mantiene quel rapporto identitario fondamentale “io-altro”, quella coscienza assolutamente imprescindibile che regola le relazioni con l’esterno in base al principio che vi è un esterno proprio perché vi è un interno che si configura secondo determinati criteri. Qui la linea di demarcazione si fa radicale: ci sono gli amici della società aperta e i suoi nemici, per dirla con Popper, c’è chi crede nel primato dell’individuo atomizzato e chi invece in quello della comunità organica, chi concepisce l’uomo come centro egoistico autoreferenziale la cui esistenza parte e si esaurisce interamente in un triste orizzonte di produzione e consumo e chi invece lo vede come parte di un tutto più ampio, riconoscendo in tale partecipazione una possibilità di arricchimento e nobilitazione. Facciamo notare che nei paesi occidentali, in cui il ritmo capitalistico è ormai pressoché assolutizzato, fino al punto che quest’ultimo vi è ormai concepito come qualcosa di totalmente naturale e scontato, si è coniato il nuovo termine “prosumer” a designare il prodotto umano ultimo del regime capitalista: “productor” e “consumer” in un’unica parola, il produttore-consumatore. Non a caso vi è chi ha parlato di questa fase del capitalismo come “kapitalismus sive natura”, ricalcando un famoso adagio spinoziano, dove “kapitalismus” è ormai tristemente sostituito a “deus”. È perciò evidente come ogni barriera identitaria geografica e linguistica, ma ancor prima ideologica e culturale, rappresenti oggi una sfida concreta al sistema del mondo unipolare, quel mondo che, dall’alto della sua tronfia e superba presunzione, tuona: “non avrai altra società all’infuori della mia!” Si tratta di strappare questo velo della “mistica della necessità”, di tornare a credere che un mondo basato su logiche e presupposti diversi non solo è auspicabile, non solo è anzi possibile, ma è addirittura necessario.