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I malpensanti

di Marco Tarchi - 26/03/2014

 

Qualunque studente del primo o secondo anno di una Facoltà di Scienze politiche sa che le leggi elettorali sono uno strumento per eccellenza manipolativo. Servono cioè, a seconda della formula che ne è alla base, a distorcere il rapporto fra la volontà degli elettori, espressa attraverso il voto a un candidato e/o a un partito, e l’esito delle loro scelte, ovvero la presenza nelle istituzioni di eletti che corrispondano alle loro opinioni ed aspettative. Nei sistemi maggioritari uninominali ad un solo turno di voto, ad esempio, in ogni collegio la maggioranza di quanti si recano alle urne abitualmente resta esclusa dalla rappresentanza, giacché risulta eletto solo il candidato che ha ottenuto più suffragi, quale che sia la percentuale raggiunta. Il preferito dal 30% finisce spesso per aver ragione del 70% che non lo gradiva. In modo analogo, seppure con più moderazione, funzionano i sistemi uninominali a doppio turno – che eliminano dalla partita decisiva tutte le “minoranze” (in realtà, non di rado nel loro complesso maggioritarie) che hanno sostenuto candidati giunti dal terzo posto in poi, e quelli proporzionali provvisti di soglie di sbarramento o di circoscrizioni con pochi seggi in palio (dove, per avere un eletto, occorre toccare il 25-30%). Solo i meccanismi proporzionali puri si avvicinano alla capacità di fotografare la realtà delle opinioni e dei desideri del corpo elettorale, anche se mai in maniera perfetta, dato che l’attribuzione dei seggi vi è comunque soggetta a più o meno complicate formule matematiche per il conteggio dei voti eccedenti il quoziente che dà diritto a un singolo seggio (i cosiddetti “resti”).

 

 

Fin qui, il discorso potrebbe sembrare un frettoloso esercizio di competenze tecniche, un vezzo da politologo che poco o nulla ha a che vedere con la riflessione metapolitica che innerva questa rivista. Ma a guardare oltre le apparenze, ci si accorge che le cose stanno ben altrimenti.

Lo spirito del tempo in cui viviamo – e la retorica di tutti coloro che, dopo aver contribuito a forgiarlo, non si stancano di alimentarlo e declinarlo in forme costantemente aggiornate alle proprie intenzioni – ha imposto alla mentalità di gran parte dei nostri contemporanei la convinzione che la democrazia liberale sia la forma più avanzata di convivenza collettiva prodotta dal progredire della civiltà. E che, in quanto punto di arrivo di un lungo e tormentato cammino, costituisca un punto di non-ritorno, un’acquisizione definitiva, che non si ha il diritto di discutere o contestare nel principio ma solo, tutt’al più, nelle sue specifiche applicazioni. Tanto che esportarla anche in paesi che ancora non l’hanno adottata o non la mettono in atto secondo le istruzioni ricevute è diventato un dovere etico. Che può anche comportare il ricorso a strumenti bellici o, nel caso più soft, all’istigazione organizzata e sostenuta con strumenti economici e massmediali di rivolte di piazza e/o di palazzo.

L’imposizione di questo dogma liberale, delle sue premesse ideologiche (ovviamente mai presentate come tali, ma camuffate da esigenze di buonsenso o da commi di un codice morale universale) e dei suoi esiti si fonda sulla ripetizione incessante, attraverso i canali comunicativi, di alcune formule standardizzate. Una di esse è l’esistenza di un “senso della Storia”, veicolo del Progresso, a cui è inutile opporsi, perché “indietro non si può tornare”. Un’altra impone di considerare le istituzioni e le prassi liberali come il frutto maturo di questa marcia del Bene e del Giusto attraverso il tempo. Un’altra ancora obbliga ad attribuire al contenitore politico dell’ideologia liberale l’etichetta di democrazia, perché la parola conserva la promessa di fare del popolo la pietra angolare della legittimità dell’azione dei governanti. A completare il quadro interviene poi la retorica dei diritti, della libertà di espressione, del controllo dal basso, della trasparenza e via enumerando e promettendo.

Perno della concezione liberale della politica è il concetto di rappresentanza. Ignota ai fondatori della democrazia, che la pensarono come luogo di espressione diretta dei voleri della cittadinanza – ovvero di una collettività territorializzata filtrata da rigorosi criteri di esclusione degli “estranei”, che oggi la farebbero apparentare piuttosto a un’aristocrazia allargata –, questa nozione, come ha fatto notare tra gli altri la studiosa inglese Margaret Canovan, è servita ai liberali, più che a consentire alla massa di affidare i propri desiderata a fiduciari scelti per tradurli in realtà, ad estromettere dagli ambiti decisionali il grosso dei cittadini, ritenuti incompetenti e inaffidabili, a beneficio di un ristretto novero di addetti ai lavoro. Costoro – gli eletti – hanno rapidamente compreso quali e quanti privilegi erano connessi alla posizione raggiunta e si sono costituiti in corpo separato (la “casta” di cui oggi tanto si parla), recidendo, con il divieto del mandato imperativo, il vincolo che li avrebbe costretti a sottostare ai diktat dell’opinione pubblica. Non c’è voluto molto perché, così facendo, l’esercizio dell’azione politica nelle istituzioni si trasformasse in una (lucrosa) professione, trasmissibile per via familiare, partitica o clientelare, espropriando il popolo – nel frattempo istigato dalla diffusione della mentalità individualistica, dalla dissoluzione dei corpi sociali intermedi e dall’irrisione dello spirito comunitario a frammentarsi in un pulviscolo di atomi indipendenti – delle sue prerogative di legittimazione, confinate nel dominio cartaceo delle proclamazioni costituzionali.

Perché questo processo si consolidasse e la classe politica potesse perfezionare quei meccanismi di cooptazione elitaria e di circolazione chiusa che le avrebbero consentito di riprodursi più o meno pacificamente – e che sono stati ben studiati già da Pareto, Mosca e Michels – era necessario che fosse ridotta ai minimi termini l’influenza delle pressioni dal basso sulla sfera governativa. E a questo scopo sono serviti due marchingegni: il progressivo riflusso dalle formule elettorali proporzionali connesse al graduale allargamento del suffragio, prodotto dalle mobilitazioni di massa operaie, contadine e piccolo-borghesi di fine Ottocento e primo Novecento, a quelle maggioritarie, e la limitazione degli strumenti di democrazia diretta, a partire dal referendum, dalle petizioni e dalle iniziative legislative popolari.

Queste considerazioni ci riportano al punto da cui siamo partiti. Da qualche decennio a questa parte, in parallelo con lo stringersi della morsa che sulla politica è esercitata da altri ambiti di esercizio del potere – in primo luogo l’economia, in specie quella finanziaria, ma anche la magistratura e gli apparati comunicativi, nonché quel surrogato dell’autorità religiosa che è il ceto dei chierici laici, gli intellettuali “politicamente corretti” –, i regimi liberali hanno teso a svuotare di contenuto, passo dopo passo, tutti gli attributi originari della democrazia. Pur non potendosi rinunciare, per ovvi motivi funzionali (come altrimenti si sarebbe potuto definire il detentore della legittimità del potere?), al richiamo al popolo, se ne è offuscato il profilo esaltando le prerogative dell’individuo e svincolandolo dagli obblighi della sua appartenenza ad ogni entità plurale. Si sono irrise, quando non demonizzate, le ideologie, che avevano fatto a lungo da cemento a solide (e quindi pericolose) identità collettive, degradandole dal rango di ispiratrici di progetti di società e referenti del senso di coesistenza civile alla condizione di utopie fumose e dannose. E, sulla scia, si sono squalificati i partiti che ne erano stati veicolo – e che hanno contribuito al proprio discredito trasformandosi in veicoli degli interessi clientelari e conservativi della classe di quelli che l’uomo della strada definisce “i politicanti”. Inoltre, si è fatto tutto il possibile per neutralizzare la capacità del voto di condizionare l’azione degli eletti. E l’aumento del potenziale manipolativo dei sistemi elettorali è stato lo strumento principale di questa operazione.

Lo vediamo chiaramente ai nostri giorni. In nome di una “governabilità” che peraltro, come si è molte volte dimostrato, nessun marchingegno tecnico può assicurare, poiché spesso gli esecutivi, compresi quelli monocolori, sono minacciati assai più dalle fibrillazioni interne ai partiti che li compongono – ormai ridotti a coalizioni provvisorie ed instabili di interessi di gruppo e appetiti individuali, che escludono la vigenza di qualsivoglia disciplina – che dall’azione delle opposizioni, la rappresentanza istituzionale di cospicui blocchi di popolazione è annientata. Dove vigono i sistemi maggioritari, partiti che godono stabilmente del 15-20% dei consensi sono esclusi dal parlamento e da altri enti elettivi, mentre altri che raccolgono percentuali anche molto inferiori dell’elettorato ma si vedono attribuito un “potenziale di coalizione” dalle formazioni maggiori prosperano (il caso francese, con il Front National da un lato e il Pcf e i Verdi dall’altro ad esemplificare i due casi è il più clamoroso, ma non è unico). Le soglie di sbarramento falcidiano in altri contesti i settori di opinione “non allineati” alle tendenze incarnate dai partiti dominanti, rafforzati da un controllo pressoché monopolistico dei media e dal supporto dei poteri economici. L’obiettivo è sempre ed ovunque lo stesso: imporre e mantenere un bipolarismo del pensiero, che stabilisce i confini del “retto pensare” e distribuisce gli spazi interni dell’accettabilità politica a seconda delle momentanee oscillazioni degli umori della parte privilegiata dell’elettorato – quella che, spesso non arrivando neppure al 50% degli aventi diritto al voto, si spartisce la quasi totalità della rappresentanza – alle incarnazioni “progressista” e “moderata”, “di (centro) sinistra” e “di (centro) destra”, “socialdemocratica” e “conservatrice” del credo ideologico comune. Questa è l’alternanza gradita ai sostenitori del pensiero unico liberale oggi egemone.

L’orrenda proposta di legge Frankenstein in discussione nel parlamento italiano nel momento in cui stiamo scrivendo, un frullato indigeribile di micro-spezzoni di legislazioni vigenti in vari paesi con l’aggiunta di invenzioni caserecce ancor più penose, che mette insieme un enorme premio di maggioranza, l’obbligo a creare coalizioni in cui i partiti minori faranno da portatori d’acqua per i grandi salvo non riuscire a strappare neanche un seggio (ma con la sicura promessa di essere ricompensati in altre sedi a suon di elargizioni clientelari per il sacrificio compiuto), alte soglie di esclusione, liste di candidati bloccate imposte dalle segreterie di partito e persino un ballottaggio fra le due eterogenee agglomerazioni più votate al primo turno, è uno dei più efficaci esempi di questa volontà di annientamento del dissenso e di imposizione del duopolio ideologico liberale. Ad ispirarla è la logica della sopraffazione. O, a voler essere più benevoli, la filosofia di giochi di carte come “rubamazzo” o “asso pigliatutto”. E, al di sopra di esse, la brama di potere assoluto – magari per quinquenni alternativi – di figure dispotiche come Renzi e Berlusconi, sovrani di partiti ormai assuefatti, o in via di assuefazione, alla logica della personalizzazione.

Ma a ridurre ai minimi termini la capacità di espressione popolare e ad isolare i “malpensanti” non ci sono soltanto questi escamotages – che peraltro, se avranno successo nella versione italiana, probabilmente si estenderanno a macchia d’olio in Europa. C’è anche la denigrazione dello strumento referendario. Si pensi a quanto è accaduto di recente in Svizzera, dove una consultazione popolare ha deciso l’istituzione di quote di ingresso nel paese, che ha toccato cifre record di immigrazione, di lavoratori stranieri. A quell’atto sovrano ha fatto seguito una reazione indignata, e a tratti isterica, di governi, partiti e mezzi d’informazione in ogni paese europeo. D’un tratto, la possibilità di espressione democratica è diventata un male da contrastare in tutti i modi. Al governo elvetico si è giunti ad intimare di non tener conto dell’opinione dei suoi cittadini, accompagnando il monito con interruzioni di trattative, revoche di accordi e minacce di sanzioni. E molti commentatori, politici e giornalistici, hanno preso la palla al balzo per attaccare frontalmente l’istituto del referendum, già vilipeso in passato da quanti ne hanno rifiutato l’esercizio quando, ad esempio, si trattava di ratificare o meno i trattati adottati dai governi dell’Unione europea. Ben sapendo – anche per il succedersi di casi significativi di ripulsa delle decisioni delle caste governanti: in Francia, in Olanda, in Danimarca, in Irlanda – che a lasciare le popolazioni libere di pronunciarsi su temi controversi si rischia di constatare lo scollamento delle loro volontà rispetto agli intendimenti dei loro presunti e autoreferenziali rappresentanti, i democratici a senso unico, o per meglio dire i seguaci dell’ideologia cosmopolita e globalizzante del liberalismo a dominante mercantile hanno messo in guardia contro il pericolo referendario. Invitando, laddove questo istituto esiste, a restringerne il raggio di applicazione.

La democrazia, insomma, può esistere solo per i benpensanti. A chi sta fuori dal coro deve essere riservata la pena del silenzio. La regola vige già da tempo nei cruciali canali dell’informazione, a partire da tv, radio e giornali, dove le voci non allineate sono escluse sistematicamente da dibattiti e commenti, secondo la logica magnificamente descritta a suo tempo da Aleksandr Solgenitsin per cui in Occidente chi si vede tagliati i fili del microfono di fatto, in ambito pubblico, non esiste. Ora ci si propone di applicarla con eguale rigore a livello di massa, vietando ai malpensanti di disporre di eletti di propria fiducia e di poter esprimersi con un sì o con un no sulle decisioni che li riguardano.

A questa progressiva anestesia del dissenso si oppone oggi politicamente un unico soggetto. Multiforme, non sempre coerente, diviso, spesso rozzo ed approssimativo nel modo di esprimersi, viscerale, in parecchi casi discutibile negli atteggiamenti e nelle proposte. Eppure, inevitabilmente destinato, almeno in via provvisoria, a costituire un elemento di disturbo, se non un argine, all’omogeneizzazione culturale e psicologica voluta dai signori dell’ordine bipolare, ai restauratori di categorie politiche – sinistra e destra – ormai incapaci di esprimere le vere linee di conflitto della nostra epoca e tuttavia, proprio per questo, imposte come strumenti di diversione di massa all’attenzione (spesso passiva ed acritica) del pubblico media-dipendente. Questo soggetto a suo modo “resistente” è il populismo. Che, al di là degli evidenti limiti, denuncia instancabilmente la mistificazione del principio rappresentativo, l’espropriazione della volontà dei cittadini da parte della casta dei politici di professione, rivendica il diritto dei popoli conservare identità e tradizioni forgiatesi nei secoli, esige un rafforzamento degli strumenti di democrazia diretta – dal referendum ad internet, non senza qualche scivolata nell’utopia della democrazia continua telematica – e di controllo dal basso degli eletti, si oppone allo strapotere della finanza, reclama maggiore equità sociale e deplora tanto gli eccessi di invadenza, in primo luogo fiscale, dello Stato nella vita dei cittadini quanto l’erosione progressiva della sovranità degli enti nazionali a profitto del Moloch burocratico che ha sede a Bruxelles.

Chi ha studiato il fenomeno ne conosce la strutturale eterogeneità. E anche chi lo osserva superficialmente non fatica a rendersi conto delle sue molte ambiguità, a partire dai punti di divergenza che emergono quando si comparano i programmi dei singoli movimenti o partiti che fanno parte di questa famiglia assai sui generis o quando si ascoltano i discorsi, o si osservano gli stili, di Beppe Grillo e di Marine Le Pen, di Geert Wijlders e di Matteo Salvini, di Hans-Christian Strache e del successore di Pia Kjersgaard alla guida del Danske Folkeparti, o degli esponenti dell’Ukip britannica, degli Sverigedemokraterna, di Jobbik, del Vlaams Belang, dei bulgari di Ataka, della lista anti-Euro tedesca dei Veri Finlandesi e così via. Ci vuole poco ad accorgersi che non è facile mettere d’accordo giacobini e autonomisti, sostenitori della laicità e seguaci di tradizioni religiose, liberisti e sostenitori di uno “sciovinismo del welfare”. E a colpire è soprattutto l’attaccamento di ognuna di queste formazioni al proprio popolo e ai suoi supposti interessi, in un’ottica di indifferenza, se non di diffidenza, verso le sorti degli altrui. È, questo, un tratto della mentalità populista che lascia un forte scetticismo sulla possibilità che un così slabbrato arcipelago possa, un domani, confluire in un fronte di resistenza comune al “sistema” che tutti peraltro proclamano di combattere.

Tuttavia, se l’opposizione allo stato di cose vigente si può e si deve condurre, sul piano culturale, con ben maggiore coerenza e raffinatezza, sul piano politico questo appare oggi il panorama reale: i “brutti, sporchi e cattivi populisti” unici disposti ad accettare, sulla scena, di interpretare la parte dei malpensanti. Dall’altro lato, gli educati profeti di una riduzione della democrazia a veicolo di imposizione dell’ideologia consumista, materialista, cosmopolita, livellatrice. Chi è consapevole della posta in gioco, sa da che parte (per ora) stare.