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Qual è il posto dell’uomo nella natura?

di Francesco Lamendola - 29/03/2014


 

 
 

Il filone centrale del pensiero occidentale è esplicitamente o implicitamente antropocentrico: dà per scontato che l’uomo occupi una posizione speciale nella gerarchia degli esseri viventi e costruisce l’etica, l’estetica, il diritto, la politica, l’economia, la scienza, a partire dalla centralità dell’uomo nell’ambito della natura.

Non staremo qui a polemizzare contro questo fatto: i fatti sono fatti e con essi non bisogna polemizzare, bisogna cercare di comprenderli. Sta di fatto che l’antropocentrismo, per secoli e secoli, è stato mitigato, nelle sue conseguenze più brutali nei confronti degli altri viventi e dell’ambiente medesimo, dalla prospettiva teocentrica in cui era inscritto: l’uomo era visto al centro del mondo, ma al di sopra del mondo e dell’uomo stesso vi era Dio, centro di ogni cosa e principio dell’essere, da cui tutto dipende e a cui tutto tende.

L’uomo, pertanto, era visto non come il signore, ma come il custode della creazione; non come il padrone irresponsabile, ma come il soggetto delle proprie azioni, delle quali deve rendere conto, e come colui che, proprio per il fatto di possedere il bene dell’intelletto, che lo rende simile al suo creatore, deve anche assumersi una forte responsabilità nei confronti di quel mondo che gli è stato affidato e che egli deve far fruttificare, ma senza stravolgerlo e anzi rispettandone la bellezza e la dignità intrinseca (si pensi solo al «Cantico delle creature» di Francesco d’Assisi).

Da quando la visione teocentrica ha incominciato a tramontare nel cielo delle coscienze, per essere sostituita dall’adorazione degli idoli materiali – il successo, il potere, il denaro – l’antropocentrismo è diventato non più un modo di considerare l’uomo nella gerarchia della natura, ma come una verità auto-evidente, in nome della quale qualunque manipolazione della natura diveniva lecita e perfino necessaria: e l’abuso degli enti ha avuto inizio, non più mitigato da alcun senso di responsabilità verso una verità superiore, da quando l’uomo ha giudicato che non esiste altra verità fuori di quella, soggettiva, che discende dai suoi giudizi di valore, cioè, in pratica, dalla sua convenienza e dal suo utilitarismo.

Tutto questo è stato sostenuto e messo in pratica non sulla base di una spinta pulsionale incontrollabile, ma proprio sulla base di una giustificazione razionale, costruendo un Logos strumentale e calcolante a misura di tale ebbrezza antropocentrica; un Logos la cui principale ragion d’essere è quella di avallare e legittimare tutte le scelte, tutti gli abusi, tutti gli eccessi che derivano dalla convinzione che l’uomo sia il solo depositario del pensiero razionale e che, di conseguenza (ma qui, a dire il vero, il passo sarebbe assai lungo sul piano concettuale; nondimeno, lo si è compiuto d’un balzo), egli solo, fra tutti gli enti, sia soggetto di diritti  - ma non, curiosamente, dei corrispondenti doveri.

Eppure, privo com’è di artigli, di zanne, di corazza, dal punto di vista fisico l’uomo è uno degli animali più deboli; debole di vista, di udito, di olfatto, uno dei meno dotati per la sopravvivenza; lento nei movimenti e soggetto a infiniti malanni, uno dei più vulnerabili e cagionevoli. Se costretto a misurarsi ad armi pari, soccombe davanti ai grandi felini, all’orso, al coccodrillo, allo squalo: perfino le corna di un’antilope o gli unghioni del formichiere gigante possono ferirlo o anche ucciderlo con estrema facilità.

Che cos’è un essere umano, sia pur grande e robusto, ma disarmato, davanti a un leopardo affamato, un leopardo che abbia già assaggiato la carne umana e ne sia diventato ghiotto? Una misera preda quasi inerme; e si narra di leopardi, di tigri o di leoni antropofagi che hanno terrorizzato, per anni, certe regioni dell’India o dell’Africa, fino a uccidere centinaia di esseri umani. C’è un episodio, narrato da un famoso cacciatore inglese, che bene evidenzia questa condizione di fragilità delle creature umane davanti alla natura selvaggia, che ci piace riportare per meglio illustrare il nostro discorso; e si noti l’assenza di odio da parte dello scrittore, che aveva promesso agli abitanti di aiutarli a liberarsi dall’incubo, ma si rendeva conto benissimo anche della necessità di sopravvivere che muoveva l’animale (da: «Il leopardo che mangiava uomini» (titolo originale: «The Man-Eating Leopard of Rudraprayag», Oxford University Press, 1947; traduzione dall’inglese di Pietro Leoni, Milano, Mondadori, 1951,  1973, pp. 85,  88-89):

 

«Andammo a letto presto quella sera, perché dovevamo partire all’alba la mattina dopo. Mi alzai infatti che era ancora buio, e stavo prendendo la  mia “chota hazri” (colazione leggera consumata al mattino molto presto) quando udii voci concitate sulla strada. Poiché si trattava di una cosa insolita, a quell’ora, uscii per domandare che facessero quegli uomini sulla strada. Vedendomi, quattro uomini avanzarono sul sentiero verso il mio accampamento, e mi informarono di essere stati inviati dal “patwari” per avvertirmi che una donna era stata uccisa dall’antropofago, all’altra estremità del fiume, in un villaggio lontano circa due chilometri dal ponte di Chatwapipal. […]

Una guida che ci attendeva al ponte ci condusse su, per una ripida altura e lungo il versante erboso di una collina e quindi giù, in una valletta rocciosa attraversata da un torrentello. Là trovammo il “patwari” con circa venti uomini a guardia della vittima.

La vittima era una robustissima e bellissima giovane di diciotto o vent’anni. Giaceva prona sul viso, con le braccia lungo i fianchi. Tuti gli abiti le erano stati strappati e portava i segni degli artigli del leopardo dalle piante dei piedi al collo: qui si vedevano anche quattro grandi ferite dovute ai denti della belva. Poca carne era stata divorata dalla parte superiore del suo corpo e poca dalla parte inferiore. I tamburi che avevamo udito mentre salivamo la collina erano battuti dagli uomini che sorvegliavamo la vittima, e poiché erano circa le due del pomeriggio e non vi era alcuna possibilità che il leopardo si trovasse nelle vicinanze andammo al villaggio a prenderci un po’ di tè, conducendo con noi il “patwari” e gli uomini di guardia.

Dopo il tè, andammo a dare un’occhiata alla casa dove la ragazza era stata uccisa. La casa era di pietra, con una sola stanza, situata in mezzo ad alcuni campi a terrazza di circa un ettaro di estensione, ed era occupata dalla giovane donna, dal marito di questa e da un loro bimbo di sei mesi.

Due giorni prima del fatto, il marito era andato a Pauri per testimoniare in una lite per certi terreni, e aveva lasciato suo padre a guardia della casa. La notte del fatto, dopo che la donna e il suocero ebbero consumato il loro pasto serale e stava avvicinandosi il momento di coricarsi, la donna, che aveva appena allattato il bambino, lo affidò al suocero, schiuse la porta e uscì per un bisogno. Ho già menzionato il fatto che non esistono servizi igienici nelle case degli abitanti delle colline.

Quando dalle braccia della madre passò a quelle del nonno, il piccino cominciò a piangere: perciò, anche se si fosse verificato qualche rumore all’esterno, e sono sicuro di no, l’uomo non lo avrebbe udito. Era una notte oscura e, dopo aver atteso per alcuni minuti, l’uomo chiamò e, non ricevendo alcuna risposta, chiamò ancora. Poi si alzò e chiuse in fretta la porta, barricandola dall’interno.

Era piovuto nelle prime ore della sera, ed era facile ricostruire la scena. Poco dopo che la pioggia era cessata, il leopardo, venendo dalla direzione del villaggio,  si era accucciato dietro una roccia del campo, a circa trenta metri sul lato sinistro della porta. Là era rimasto per qualche tempo, forse ascoltando l’uomo e la donna che parlavano. Aperta la porta, la donna si accoccolò sul lato destro di essa, volgendo in parte il dorso al leopardo. Girando attorno alla roccia, la belva aveva allora superato i venti metri che lo separavano dall’angolo della casa e, strisciando sul ventre, lungo la parete della casa stessa, aveva preso la donna alle spalle e l’aveva trascinata verso la roccia. Là, quando fu morta, o forse quando l’uomo, allarmato, l’aveva chiamata, il leopardo l‘aveva raccolta e, tenendola bene in alto, cosicché nessun segno di mano o di piede si poté vedere sul molle terreno arato di fresco, l’aveva portata attraverso un campo, giù per un rialzo alto un metro, e attraverso un altro campo ancora, che terminava, con un muraglione alto quattro metri, al di sopra di un sentiero molto frequentato. Giù da questo muraglione il leopardo era saltato, sempre tenendo coi denti la donna, che pesava circa settanta chilogrammi, e si comprenderà che forza potesse avere dal fatto che, quando atterrò, dopo quel salto, sul sentiero, riuscì ad impedire che qualsiasi parte del corpo della vittima prendesse contatto col terreno.

Attraversato il sentiero era poi disceso lungo il versante della collina per ottocento metri, fino al punto dove aveva denudato la donna e, dopo averne divorato una piccola parte l’aveva lasciata distesa in una piccola radura erbosa, all’ombra di un albero ricoperto da un folto intrico di piante rampicanti.»

 

Che pena e che spettacolo commovente quel grande e bel corpo di donna abbandonato nell’erba, denudato e segnato dai denti e dagli artigli del leopardo, disarticolato come un burattino cui siano stati tagliati i fili; un corpo che fino a poco prima viveva, respirava, parlava, mangiava, allattava il suo bambino; un corpo che era stato sorpreso mentre stava soddisfacendo una necessità fisiologica e che la belva aveva afferrato coi denti e trascinato via senza che ne sfuggisse un solo lamento, portandolo poi con sé come un pupazzo di stracci e abbandonandolo in un angolo della campagna, dopo averne tratto quanta carne bastava per soddisfare la sua fame più immediata.

La maggior parte delle persone, trovandosi davanti a una simile scena, proverebbero, oltre che pietà, un profondo odio e un desiderio di vendetta nei confronti del leopardo: desiderio di vendetta che si potrebbe placare solo con l’uccisione dell’animale. Forse tali sentimenti nascono dal constatare quanto sia fragile e vulnerabile, in realtà, l’essere umano; forse dalla radicata convinzione, da parte degli esseri umani, di meritare un altro destino, in virtù della loro intelligenza e della loro supposta superiorità, che non sia quello di servire da pasto ad un felino che si aggiri in cerca di preda e la cui fame potrebbe essere ugualmente placata da un cervo, da una capra o da una mucca. Ciò significa abbassare la dignità dell’uomo al livello di un qualunque “stupido” erbivoro!

Eppure, se appena si riflette un poco, ci si accorge che l’uccisione della donna ad opera del leopardo non è che un insignificante episodio della vita universale; e che la vita, dal punto di vista puramente biologico, non può perpetuarsi senza la morte: la morte degli uni per la sopravvivenza degli altri. Così funziona il regno della natura: e, dal punto di vista biologico, non vi è nulla da eccepire, perché questo è un fatto e coi fatti, come abbiamo già osservato, non si discute, semmai si deve tentare di spiegarli e, forse, di comprenderli; perché spiegare un fatto o un evento non significa, di per se stesso, averlo compreso.

In senso materiale, l’uomo è un animale, un mammifero, come lo sono il cervo, la capra e la mucca: ovvio, dunque, che il leopardo non faccia distinzione; anzi, se si vuol proprio dirla tutta, ovvio che il leopardo trovi più facile cacciare degli esseri umani anziché gli altri animali selvaggi. Se questo accade di rado, è perché il leopardo, come gli altri predatori, ha compreso che l’uomo, pur essendo fisicamente debole e quasi indifeso, nonché dotato di sensi molto imperfetti, possiede però degli strumenti che suppliscono alla sua debolezza, per cui è meglio tenersi alla larga da lui; ma quando un leopardo è vecchio e i suoi denti sono malandati, ripiegare su delle prede umane è per esso una scelta quasi inevitabile, se non vuol morire di fame.

Certo, non si può non restare turbati davanti a quella vita umana spezzata, a quel bambino che è rimasto orfano e che non vedrà mai più la sua mamma; ma è lo stesso destino che sarebbe capitato a un cerbiatto, a una capretta o a un vitellino. La natura non fa sconti né differenze: sopravvive chi possiede le qualità adatte, gli altri soccombono. Non c’è posto per la pietà, in essa, come non c’è posto per la pietà in una famiglia di Inuit che abbandonano il nonno o la nonna sul ghiaccio, a morire di freddo e di fame: essa non potrebbe sobbarcarsi il lusso di mantenere una bocca inutile, nelle spietate condizioni ambientali delle regioni artiche. Solo in condizioni “artificiali” gli esseri umani possono permettersi il lusso di vedere le cose da un altro punto di vista; ma, finché essi dipendono direttamente dalla natura, dai suoi ritmi, dalle sue leggi, devono adattarvisi al pari di qualunque altro animale.

Il fatto è che l’uomo, dal punto di vista biologico, non può vantare speciali diritti nel mondo della natura: la natura non riconosce speciali diritti a chi non è in grado di farli valere con i fatti. Da ciò, tuttavia, non deriva per niente che l’uomo sia una creatura insignificante, anche se abbiamo definito “insignificante” l’episodio della donna uccisa e divorata dal leopardo. Insignificante appare quell’episodio nel contesto della realtà naturale, perché simile a innumerevoli altri che accadono ogni giorno, ogni minuto, e senza i quali la vita terrestre sarebbe condannata ad estinguersi; ma non certo insignificante dal puto di vista spirituale.

L’uomo possiede una doppia natura, materiale e spirituale (o forse, come pensano alcune correnti esoteriche, una natura tripla, quadrupla, perfino settemplice); è un cittadino di due distinti piani di realtà. Da una parte è figlio della terra, ha bisogni, timori e speranze tipicamente terreni; dall’altro è figlio del Cielo, e la sua chiamata è verso altri orizzonti, verso l’Assoluto. Da quest’ultimo punto di vista, nessuna vita umana è insignificante, come non lo è niente di ciò che accade ad un essere umano. Siamo tutti unici e preziosi; siamo tutti portatori di una storia sacra; sta a ciascuno di noi, comunque, sviluppare le potenzialità superiori dell’anima e non accontentarsi di vivacchiare ai livelli più bassi, come farebbe il pigro inquilino d’un magnifico palazzo, che si adatti a vivere nelle buie e malsane cantine.

Per quanto riguarda il significato della vita del leopardo, d’altra parte, dovremmo essere molto cauti quando esprimiamo giudizi; e così per quanto riguarda il cervo, la capra e la “stupida” mucca. Non ne sappiamo abbastanza per affermare che in essi non sia presente, in forme diverse da quelle che noi conosciamo, un principio di vita spirituale; esistono, semmai, alcuni indizi che porterebbero a crederlo. Questo hanno osservato le persone che vivono a stretto contatto con gli animali; così come hanno osservato qualcosa del genere perfino alcune persone abituate a vivere a stretto contatto con le piante. Vi sono giardinieri che parlano con le piante e che sostengono di notare, in esse, degli indizi di “risposta”; non parliamo di quanti conoscono bene gli animali, per il fatto di condividere con essi emozioni e sentimenti.

C’è un’altra cosa da tener presente. Quando si parla dell’uomo e lo si contrappone all’animale, come se fosse scontata una sua superiorità gerarchica, si pensa sempre, anche da parte dei filosofi, all’uomo o alla donna sani, intelligenti, capaci di libera scelta; ma dovremmo tener presente che vi sono esseri umani sfortunati, nei quali sia la salute che l’intelligenza sono molto compromessi, talvolta fin dalla nascita, e per i quali non è possibile parlare di libero arbitrio, perché dipendono in tutto e per tutto dalle cure e dall’assistenza di altri esseri umani. Ciò equivale a negare che tali individui possiedano lo stesso statuto ontologico e, dunque, lo stesso grado di dignità che si attribuisce ai soggetti “normali”? Sarebbe temerario affermarlo: c’è un mistero, in simili casi, che non si può spiegare in maniera soddisfacente, se lo si considera solo dal punto di vista della ragione. Dal punto di vista della ragione, la nascita di un bambino gravemente handicappato è uno scandalo, così come è una prova durissima sul piano umano, per lui stesso e per i suoi genitori; ma dal punto di vista spirituale? Chi può dire che non vi sia coscienza, che non vi sia un barlume d’intelligenza e di volontà, anche dietro il volto più impenetrabile e dietro il corpo più sofferente? Chi può affermare che simili persone non provino la gioia di essere vive, di respirare, di vedere, di odorare, come la provano le persone che diciamo “normali”, anche se non sono capaci di esprimere i loro sentimenti, né di formulare in parole i loro pensieri?

Eppure, da un punto di vista strettamente biologico, non c’è dubbio che un “intelligente” cane da caccia, o un cavallo, o magari un delfino, sono capaci di prestazioni assai più evolute di quelle di un essere umano mentalmente minorato. Torniamo perciò al punto di prima: la dignità di un essere umano non risiede nel suo essere biologico e nemmeno nella sua intelligenza, se intendiamo quest’ultima come un fattore puramente neuronale, ma in qualcos’altro, in qualcosa che si cela dietro la sua struttura fisica e che, in ultima analisi, non è inseparabile da essa, perché il corpo è pur sempre la veste di una realtà di natura spirituale, comunque la vi voglia chiamare – anima, spirito, o in qualsiasi altro modo -, che non è legata al corpo se non in parte, e cioè, appunto, in senso strettamente fisico e materiale.

Possiamo avventurarci a negare che tale principio sia presente anche negli altri esseri viventi, negli animali, nelle piante? Crediamo di no. Ecco perché dovremmo rinunciare al nostro orgoglioso antropocentrismo e soprattutto alle sue arroganti conseguenze sul piano pratico, relative alla disinvolta manipolazione delle altre creature viventi. Torturare e uccidere le creature non umane per scopi discutibili o ipocriti, dalle futili esigenze della moda alla pretesa sperimentazione scientifica, non è mai lecito: emblematico è il caso della vivisezione della cicala di cui parla Galilei nel «Saggiatore», tipico esempio di insensibilità e di prepotenza umana nei confronti delle altre forme viventi, il tutto giustificato con l’esclusiva del principio razionale e con una “curiositas” senza amore e incapace di compassione verso la sofferenza altrui.

In conclusione: dovremmo rivedere il nostro modo di porci rispetto a noi stessi e rispetto alla natura, evitando i due estremi dell’orgoglio che ci porta a disprezzare gli altri viventi, così come dell’auto-disprezzo che ci porta a ritenerci insignificanti. Nessuno è insignificante, dal punto di vista morale: non lo è l’uomo, neppure quando si trova ad essere gravemente menomato; e non lo sono gli animali, né le piante.

 Tutto ciò che vive merita amore e rispetto, perché è la manifestazione di un disegno universale e amorevole, che si esprime nel linguaggio della bellezza, dello stupore, del mistero.