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Per chi o per cosa dipingeva, l’uomo preistorico?

di Francesco Lamendola - 06/04/2014


 

 

Le caverne dell’uomo preistorico sono ricche di dipinti, le rocce d’ogni parte del mondo sono piene di antichi graffiti raffiguranti svariati soggetti, specialmente animali, ma anche scene complesse: uomini e donne al lavoro, o mentre danzano ed eseguono cerimonie; o, ancora simboli astratti di difficile interpretazione, e mani impresse sulle pareti con tinture vegetali di svariati colori.

Tutte queste opere, disseminate ai quattro angoli del globo terracqueo e distribuite lungo un arco temporale che copre svariate migliaia di anni, si trovano sia presso i popoli cacciatori, pescatori e raccoglitori, sia, più tardi, presso i popoli pastori ed agricoltori, creando non pochi grattacapi agli studiosi della preistoria, specialmente se di formazione evoluzionista, portati a vedere nell’uomo preistorico un semplice primate un po’ evoluto e dunque, verosimilmente, poco interessato agli aspetti estetici e spirituali dell’esistenza e tutto concentrato, invece, su quelli di ordine strettamente materiale, legati alla sopravvivenza e alla comodità.

A volte non solo le pitture, i graffiti e le sculture, ma gli stessi luoghi naturali assumono le forme di opere d’arte, certamente avvolte da un significato magico-religioso di problematica definizione: si pensi soltanto, per fare un esempio clamoroso, ai cosiddetti “mounds”, alle colline artificiali rinvenute in svariate località del Nord America, create dai Pellerossa con la forma di animali ritratti in dimensioni gigantesche (lunghe anche decine o centinaia di metri), per esempio di serpente, ma visibili e riconoscibili come tali solo dall’alto: e pertanto, a quel che ne sappiano – se non si vogliono scomodare gli extraterrestri con i loro dischi volanti o altri fattori che esulano da ciò che è terrestre - di fatto invisibili a qualunque osservatore. Oppure si pensi agli animali giganteschi, come ragni ed uccelli, raffigurati nel suolo del deserto di Nazca, sulla costa del Perù, anch’essi scoperti solo di recente, proprio perché impossibili da vedere e da riconoscere stando a terra, ma solo innalzandosi a bordo di un mezzo aereo.

Spesso l’arte preistorica, specialmente la pittura, è stata realizzata all’interno di caverne buie, dove non esisteva illuminazione naturale e dove a stento potevano introdursi poche persone: non si trattava di pitture, quindi, eseguite per essere ammirate; non, almeno, nel senso che noi attribuiamo oggi alla contemplazione estetica. Per chi, dunque, o per che cosa l’uomo preistorico dipingeva le sue figure, nell’oscurità delle caverne o sulle rocce assolate dei deserti, come nell’Hoggar o nel Tibesti sahariano?

La prima cosa da chiarire, in effetti, è il concetto stesso di “arte”. È chiaro che si tratta di vedere se quel che noi, uomini moderni, imbevuti di cultura scientifica e plasmati da secoli di pensiero razionale, intendiamo per “arte”, sia valido anche per i nostri antenati di 5.000, 10.000 o 20.000 anni fa. Qui, però, sorgono immediatamente delle difficoltà insormontabili: perché sappiamo bene che un paradigma culturale non può comprendere, se non dal punto di vista puramente esteriore, i valori e gli ideali di un altro paradigma culturale; e, nel caso delle società preistoriche, spesso ci mancano perfino i dati materiali, sicché perfino tale comprensione esteriore ci risulta problematica – figuriamoci la comprensione profonda dei fattori immateriali.

In altre parole, la verità è che noi non sappiamo affatto in base a quali categorie estetiche l’uomo preistorico dipingesse le pareti delle caverne; anzi, per dir meglio, non sappiamo nemmeno se in lui esistesse un senso estetico a prescindere dal senso religioso, dalle pratiche magiche, dal suo universo totemico; né sappiamo in quale relazione fosse il suo senso del bello con le necessità della vita quotidiana. L’unica cosa che sappiamo è che egli soleva dipingere anche le proprie abitazioni, e non solo degli appositi luoghi cerimoniali, per cui si potrebbe forse dedurre che – proprio come i nostri bisnonni della civiltà contadina pre-industriale – non riservava un luogo a parte o un concetto indipendente per le realizzazioni del bello, ma le vedeva come un tutt’uno con la vita d’ogni giorno.

Detto questo, siamo pressoché certi che i riti di propiziazione della caccia, impregnati di pensiero magico, necessitavano di una rappresentazione mimica della caccia stessa, che avveniva nel corso di apposite cerimonie; e possiamo immaginare – ma senza una effettiva certezza – che l’uomo preistorico dipingesse l’animale da cacciare, il cervo, il bisonte, l’uro, il mammut, per propiziare la caccia e per accompagnare le relative cerimonie. Non siamo però assolutamente in grado di decidere se tutti gli animali raffigurati dagli artisti preistorici avessero questa precisa funzione o se egli non li dipingesse anche per il puro e semplice piacere di ammirarli, di decorare la propria abitazione, di esprimere il proprio senso estetico.

Bisogna tener presente che la preistoria occupa un lungo arco di tempo; l’uomo di Neanderthal, in Europa, compare circa 130.000 anni fa e si estingue circa 30.000 anni fa; alcune opere “d’arte”, come la famosa Venere di Willendorf, risalgono addirittura al Paleolitico; altre, come alcuni dipinti della Grotta di Altamira, in Spagna, dovrebbero risalire a 25.000-35.000 anni fa (la datazione al radiocarbonio è controversa per la maggior parte delle pitture e dei graffiti preistorici). Esistono anche pitture e manufatti artistici assai più recenti, fino all’avvento dell’agricoltura e al sorgere dei primi nuclei abitativi di tipo “urbano”. In uno spazio di tempo così grande e nel contesto di società così diverse, è certo che dovettero esistere differenti modi di intendere la pittura rupestre: questo, però, non ci esime dal porci la domanda complessiva sul significato che a tali manufatti attribuivano coloro che li eseguivano, spesso con gusto raffinato, con una eccezionale capacità di stilizzazione e con un vivissimo senso del colore.

Ha scritto in proposito John Waechter – autore peraltro rigidamente evoluzionista - nella monografia «L’uomo nella preistoria» (titolo originale: «The Man Before History», Lausanne, Elsevier Publishing Projects, 1976; traduzione di Celso Balducci, Roma, Newton Compton,  1979, pp. 134-35):

 

Era naturale che gli studiosi della preistoria si dovessero rivolgere ai dati antropologici per spiegare le finalità dell’arte preistorica. La spiegazione più ovvia (“l’arte per l’arte”), anche se può essere un motivo valido per buona parte delle decorazioni su oggetti d’uso personale, non può certamente essere estesa fino a comprendere la massima parte dell’arte delle caverne (per quanto si possa essere tentati di vedere, nei segni tracciati sulla creta con le dita, degli scarabocchi fatti per passatempo). Solo una piccola parte della produzione artista dell’Uomo Preistorico si è conservata, ma si può ragionevolmente supporre che la maggior parte delle dimore permanenti fosse decorata, anche se solo le sculture hanno resistito alle intemperie degli ultimi 12.000 anni. Pur non potendo negare finalità decorative ad una porzione dell’arte nelle sezioni abitate di caverne e ripari, non possiamo spiegare in questo modo la massima parte delle opere superstiti, scoperte in punti delle caverne pressoché inaccessibili e che dovevano essere privi di illuminazione naturale.

L’antropologia offre due spiegazioni possibili per le opere conservatesi nei più remoti recessi delle caverne, opere che dovevamo essere realizzate tra grandi difficoltà e probabilmente erano destinate   ad essere viste da pochissime persone. La prima motivazione fa capo alle concezioni proprie del totemismo. Volendo semplificare una questione piuttosto complicata, diremo che gruppi o “clans” (o in qualche caso singoli individui) si associano a un determinato oggetto, generalmente un animale o un vegetale, ritenendo di avere con esso un rapporto particolare. Alcuni “clans”, per esempio, di Australiani, praticano complesse cerimonie in onore del loro “totem”, cui possono partecipare soltanto gi iniziati. Si è ipotizzato che questo possa rendere conto almeno di parte di parte degli animali raffigurati sulle pareti delle caverne: ciascun animale sarebbe stato disegnato nel corso di un rituale totemico.

L’altro motivo possibile, che sembrerebbe conformarsi meglio ai dati di fatto, è la magia simpatica, grazie alla quale il cacciatore acquisisce potere su un animale tracciandone l’immagine prima di accingersi a dargli la caccia; inoltre, riproducendone l’immagine, può far sì che aumenti il numero di animali di quella specie. Questa concezione della magia legata alla caccia è stata convalidata dai molti animai raffigurati con ferite o con lance che sporgono dal fianco.

Esempi sia di totemismo sia di magia simpatica possono osservarsi presso i moderni popoli cacciatori e queste due teorie sembravano dare un’adeguata spiegazione anche dei dipinti meno accessibili. Non occorreva una grande fantasia per evocare immagini di cerimonie negli oscuri recessi di una caverna, soltanto con qualche semplice lume che gettava ombre fantasmagoriche, mentre gli anziani della tribù praticavano riti magici o iniziavano alla virilità terrorizzati giovanetti

Di recente si è cercato di abbandonare queste idee per cercare altri motivi per l’arte delle caverne. Un’analisi condotta su un gran numero di animali dimostra che determinate specie tendono ad essere collocate in particolari punti della caverna: bisonte, cavallo, bue e mammut si trovano per lo più in posizione centrale nell’ambiente principale, orso e leone si trovano verso l’interno, mentre il cervo è in posizione laterale. Non si tratta di una disposizione assolutamente costante e probabilmente vale soltanto per le epoche più tarde, per le quali disponiamo di materiale sufficiente a detta analisi. Quanto poi all’interpretazione, questi dati non ci sono di grande aiuto.

La questione si è ulteriormente complicata in seguito ai nuovi tentativi di interpretazione dei segni e dei simboli trovati nell’arte delle caverne. L’eminente studioso francese di preistoria André Leroi-Gourhan vede, nella maggior parte dei segni, dei simboli sessuali, con forme larghe, che rappresentano l’elemento femminile, e forme sottili, per quello maschile. Pur essendovi alcuni esempi sicuri di simboli sessuali femminili, come quello di Angles sur l’Anglin, non è facile capire come certi segni di carattere più astratto possano adattarsi a questo ruolo. Fino ad ora non si sono trovati simboli fallici abbastanza convincenti, che rappresentino il sesso maschile, e i segni sottili sono suscettibili di molteplici interpretazioni. Tale concezione è stata allargata fino ad attribuire agli animali un carattere sessuale indipendente dal sesso dal sesso dato loro dall’artista. Attualmente i segni sottili, che sembrerebbero lance, sono considerati come un’indicazione del sesso dell’animale a cui si associano, per cui il cavallo, lo stambecco e il cervo sarebbero maschili, mentre il bisonte, i bovini e il mammut sarebbero femminili. Per il momento queste idee non ci fanno avanzare di un passo rispetto a prima, ma almeno dimostrano come qualsiasi interpretazione debba essere preceduta da un’analisi ben più sistematica dell’arte, in confronto a quanto è stato tentato dai primi studiosi della preistoria.

Prima di accogliere o di respingere qualsiasi teoria fra quelle citate, e in special modo quelle più recenti, occorre avere ben presenti due cose: prima, che l’arte, della quale cerchiamo di stabilire i motivi, copre un arco di 20.000 anni, abbastanza lungo da permettere a qualsiasi idea  di formarsi e di essere rigettata; secondo, che trattiamo l’arte quasi fosse parte di una sequenza culturale ininterrotta mentre in realtà vi sono almeno quattro stadi – Aurignaziano, Perigordiano, Solutreano e Magdaleniano – che hanno scarsissime probabilità di essere collegati fra di loro.

In questo campo dell’archeologia, saremo sempre a corto di risposte; e per questo l‘arte rimarrà sempre uno degli aspetti più attraenti della preistoria.»

 

“Ignoramus et ignorabimus”, dunque: senza questo atteggiamento fondamentale di umiltà, non è possibile porsi nei confronti del problema dell’arte preistorica.

Compito della scienza, però, è farsi delle domande, così come lo è della filosofia: domande legittime, purché non si pretenda di trovare a ciascuna di esse la risposta, sempre e comunque, anche quando i dati di cui si dispone siano insufficienti e anche quando ci sfuggano irrimediabilmente le coordinate dell’universo mentale e spirituale dell’uomo preistorico, autore di tali espressioni “artistiche”.

Ammettere il nostro limite, riconoscere che esiste un confine oltre il quale non possiamo spingerci, se non avanzando congetture gratuite o, peggio, proiettando sull’uomo preistorico forme mentali tipicamente moderne, cosa evidentemente sbagliata, dovrebbe far parte del nostro abito intellettuale. Così, ad esempio, si farebbe del freudismo a buon mercato se si volesse interpretare come simboli fallici e come riferimenti sessuali tutti quei tratti che paiono somigliare vagamente a un pene o richiamare la conformazione degli organi genitali esterni, sia maschili che femminili. La psicanalisi junghiana, d’altra parte, ci insegna che all’interno di ogni essere umano esiste anche un inconscio collettivo, nel quale si sono depositate, stratificandosi e sviluppandosi in forme simboliche universali, le esperienze antichissime di tutta la nostra specie; e questo ci vieta di escludere a priori che, nelle pitture dell’uomo preistorico, così come negli altri suoi manufatti di carattere artistico, sia presente anche, e sottolineiamo “anche”, una simbologia di tipo sessuale.

Il male è quando si pretende di fornire una spiegazione univoca ed esaustiva per tutte le svariate manifestazioni estetiche dell’uomo preistorico; e un male ancora più grande è quello di escludere, sulla base di un pregiudizio culturale squisitamente moderno, che quei nostri antichissimi progenitori fossero incapaci di provare un senso estetico spassionato, tale da spingerli a produrre ed ammirare le manifestazioni del bello in quanto tale, senza ulteriori fini.

La stilizzazione dei bisonti, delle giraffe, dei leoni, dei cavalli, che si ammirano in numerosissimi dipinti e graffiti preistorici, stilizzazione che si avvicina curiosamente ai procedimenti di scomposizione geometrica del cubismo, sembra appartenere, appunto, alla categoria del “bello per il bello”, o, in certi casi, sembra scaturire da quella ricerca di essenzialità espressionistica che ha condotto l’arte moderna da un certo naturalismo “ingenuo” alle forme, sempre più astratte e rarefatte, dell’informale, passando attraverso il sentimento soggettivo dell’artista.

Tutto sta a vedere chi fosse, realmente, l’uomo preistorico.

Se ci si ostina ad immaginarlo come un bestione tutto muscoli e brutalità, come una specie di scimmione unicamente proteso a soddisfare necessità di tipo materiale, riesce poi difficile, molto difficile, arrivare a capire come egli abbia potuto pervenire a manifestazioni artistiche così affascinanti e sofisticate; come abbia potuto trasformare dei semplici calchi colorati delle proprie mani in qualcosa di altamente fantasioso e suggestivo, o come abbia potuto, con pochissimi tratti di colore, estremamente sobri e semplificati, dare un’idea così plastica ed efficace di un animale in corsa, di un uomo che incocca una freccia al proprio arco, o di un gruppo di donne curve nel lavoro dei campi.

Forse sono proprio i nostri pregiudizi scientisti ed evoluzionisti che andrebbero rivisti. Forse è proprio l’immagine dell’uomo preistorico che dovremmo modificare: non creatura recentemente e quasi inspiegabilmente evoluta da forme inferiori, ma creatura spirituale, semmai decaduta da forme superiori di organizzazione, di pensiero e di civiltà – come insegnano tanti racconti che recano un riflesso della Tradizionale primordiale, da quello biblico a quello platonico relativo all’Atlantide…