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Raffigurare il Buddha

di Cinzia Pieruccini - Luca Siniscalco - 06/04/2014

Fonte: luukmagazine

Twelve-Armed Chakrasamvara and His Consort Vajravarahi India, west Bengal or Bangladesh, ca. 12th century Phyllite H. 5 in. (12.7 cm); W. 3 1/8 in. (7.9 cm); D. 1 1/2 in. (3.8 cm) Gift of Mr. and Mrs. Perry J. Lewis, 1988 Photo: courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Twelve-Armed Chakrasamvara and His Consort Vajravarahi India, west Bengal or Bangladesh, ca. 12th century
Phyllite H. 5 in. (12.7 cm); W. 3 1/8 in. (7.9 cm); D. 1 1/2 in. (3.8 cm) Gift of Mr. and Mrs. Perry J. Lewis, 1988 Photo: courtesy of The Metropolitan Museum of Art

L’arte buddhista dell’India settentrionale e del Tibet giunge al newyorkese Metropolitan Museum of Art con ventitré pezzi di rara bellezza. L’esposizione “Tibet and India: Buddhist Traditions and Transformations”, aperta al pubblico sino all’8 giugno 2014, intende infatti colpire lo spettatore occidentale mediante una potenza estetica dal fascino universale ma, insieme, fondata su precisi stilemi iconografici.

La mostra esamina le modalità figurative fondamentali attraverso cui la sensibilità spirituale buddhista, in particolare della corrente Vajrayana, ha trovato espressione artistica. Un vivido immaginario religioso e folkloristico promana da sculture di pietra e bronzo, manoscritti miniati e antichi thangka, stendardi dipinti o ricamati dalla profonda valenza spirituale.

Il transito della cultura buddhista dall’India settentrionale al Tibet – con le millenarie conseguenze storiche, politiche, religiose e artistiche che il fenomeno ha comportato – è tema centrale di un’esposizione che non rifiuta il dialogo con la modernità, presentando due opere di artisti tibetani contemporanei come Gonkar Gyatso (n. 1961) e Tenzing Rigdol (n. 1982), costretti a confrontarsi con le medesime problematiche estetiche dei propri antichi predecessori: come offrire rappresentazione iconica al Buddha senza scadere nella reificazione o nel tradimento della sua sacra verità?

Per orientarci in questo complesso e intrigante panorama culturale abbiamo chiesto l’aiuto diCinzia Pieruccini, che attualmente insegna Indologia e Storia dell’Arte dell’India nell’Università degli Studi di Milano e ha da poco pubblicato con Einaudi un poderoso manuale in due volumi diStoria dell’Arte dell’India, un percorso straordinario dalle origini preistoriche all’indipendenza del 1947 tra sculture, templi e dipinti ispirati alle grandi correnti religiose e filosofiche del Subcontinente, quali buddhismo, induismo e jainismo.

Seated Buddha Reaching Enlightenment Central Tibet, 11th–12th century Brass with colored pigments H. 15 1/2 in. (39.4 cm); W. 10 7/16 in. (26.5 cm); D. 8 5/8 in. (21.9 cm) Purchase, Lila Acheson Wallace, Oscar L. Tang, Anthony W. and Lulu C. Wang and Annette de la Renta Gifts, 2012 Photo: courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Seated Buddha Reaching Enlightenment Central Tibet, 11th–12th century
Brass with colored pigments H. 15 1/2 in. (39.4 cm); W. 10 7/16 in. (26.5 cm); D. 8 5/8 in. (21.9 cm) Purchase, Lila Acheson Wallace, Oscar L. Tang, Anthony W. and Lulu C. Wang and Annette de la Renta Gifts, 2012 Photo: courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Cominciando dalla presente mostra del Met: può aiutarci nella comprensione di questa particolare iconografia del Buddha?
Si tratta di una iconografia celebre, dalla lunga tradizione e molto antica. Nata in India, è riconoscibile in base alla posizione delle mani: una è raccolta in grembo, l’altra tocca la terra. É questa la disposizione iconica nota come Bhumisparshamudra, “posizione della mano che tocca la terra”. L’immagine raffigura il Buddha nell’atto di raggiungere l’illuminazione, mentre chiama la terra a testimone del fatto che egli non è mai vacillato dal suo voto.

Ratnasambhava, the Buddha of the Southern Pure Land Tibet, late 11th Century Mineral and organic pigments on cloth Image: 30 3/4 × 22 1/2 in. (78.1 × 57.2 cm) Framed: 38 1/2 × 30 in. (97.8 × 76.2 cm) Lent by Michael J. and Beata McCormick Collection Photo: courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Ratnasambhava, the Buddha of the Southern Pure Land Tibet, late 11th Century
Mineral and organic pigments on cloth Image: 30 3/4 × 22 1/2 in. (78.1 × 57.2 cm) Framed: 38 1/2 × 30 in. (97.8 × 76.2 cm) Lent by Michael J. and Beata McCormick Collection Photo: courtesy of The Metropolitan Museum of Art

In Italia la Storia dell’Arte buddhista e induista viene affrontata solo a livelli accademici molto specialistici. Da cosa dipende e perché secondo lei sarebbe importante farla riscoprire anche al grande pubblico?
In Italia effettivamente l’arte indiana, nelle sue varianti, non è immensamente nota e popolare. Ciò dipende dal fatto che non disponiamo di una vasta tradizione di studi su questo tipo di arte. É vero che vi è un centro di studi importantissimo nell’Università di Roma, a lungo connesso all’IsMEO, fondato da Giuseppe Tucci – e in seguito diventato IsIAO –, ma in questo contesto è stata studiata soprattutto l’arte del Gandhara, con ricerche nell’area pakistana e afghana. L’arte dell’India è insegnata anche in altre università italiane, per esempio a Venezia, Torino e Lecce, ma non costituisce una disciplina diffusa.

A mio avviso, quanto viene studiato a livello universitario assume una ricaduta importante nella divulgazione, di converso quanto viene poco affrontato in questo modo rimane sconosciuto anche al grande pubblico.

In Italia c’è peraltro da molto tempo un forte interesse popolare per l’India, ma spesso le iniziative non scientifiche in merito hanno assunto toni più da New Age che da approccio serio, importando in Occidente un Oriente malcompreso e “tradito”.

In ambito artistico vi sono comunque punte di eccellenza: il Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci”, il Museo d’Arte Orientale di Torino e la Sezione di arte del Gandhara al Museo Archeologico di Milano sono ad esempio stupendi. Certamente l’arte indiana, nella sua ricchezza, meriterebbe un’ampia divulgazione, di contro a prospettive eurocentriche ed esotiste, per la conoscenza di un patrimonio unico di bellezza.

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Seguendo a ritroso la diffusione del buddhismo, giungiamo al subcontinente indiano. La cultura di queste terre è quanto mai variegata e stratificata, dunque è molto difficile poter fornire una panoramica in poche righe. Generalizzando, per quanto possibile, quali sono le grandi correnti che attraversano la Storia dell’Arte dell’India?
In primo luogo dobbiamo rilevare come dell’arte indiana conosciamo soltanto quanto ci è rimasto: essenzialmente monumenti in pietra. Sono andate invece perdute le architetture in legno e in massima parte la pittura parietale, che pure aveva un ruolo rilevante.

L’arte dell’India, prescindendo dalla fase arcaica della civiltà della Valle dell’Indo, comincia con unaprima fase buddhista, le cui massime espressioni si collocano dal III sec. a. C. fino al VII sec. d. C. circa. Grossomodo dal V sec. d. C. al XIII sec. d. C. si ha invece il trionfo dell’arte templare hindu e jaina, con il declino del buddhismo, che si ritira nelle regioni nord-orientali. Attorno al 1200 avviene l’invasione islamica: sotto i sultani di Delhi, i Mughal e i sultani del Deccan fiorisce una grande arte islamica. Ai templi hindu, costruiti con trabeazioni e ricchi di immagini divine e antropomorfe, succedono moschee e mausolei edificati con archi e cupole, privi di immagini. Dall’XI secolo circa in poi ci è pervenuta anche la miniatura, che in seguito diventa un’espressione artistica importantissima delle corti islamiche e dei principati hindu.

Gonkar Gyatso, born Lhasa 1961 Dissected Buddha Tibet, 2013 Collage, stickers, pencil and colored pencil and acrylic on paper 9 ft. 2 1/4 in. × 90 1/2 in. (280 × 229.9 cm) Promised Gift of Margaret Scott and David Teplitzky © Gonkar Gyatso

Gonkar Gyatso, born Lhasa 1961 Dissected Buddha Tibet, 2013 Collage, stickers, pencil and colored pencil and acrylic on paper
9 ft. 2 1/4 in. × 90 1/2 in. (280 × 229.9 cm) Promised Gift of Margaret Scott and David Teplitzky © Gonkar Gyatso

L’India è attualmente soggetta alle spinte molto forti della modernità e della globalizzazione. A suo parere in che modo la tradizione artistica, buddhista in special modo, viene reinterpretata nella contemporaneità?
Questa domanda, che ben si collega alle due valide opere di Gyatso e Rigdol esposte al Met, necessita di una premessa sulle sorti del buddhismo in India. Questa religione, sorta nell’area nordorientale del Paese, si è diffusa per molti secoli nel subcontinente per poi essere sostituita, come già accennato, dall’induismo. Il buddhismo si è allora ritirato nelle zone settentrionali da cui aveva avuto origine; nel frattempo, si era tuttavia diffuso nel resto dell’Asia. L’invasione islamica ha poi annientato gli ultimi centri indiani buddhisti, distruggendo i monasteri rimasti in Bihar e Bengala. Vi è oggi una ristretta minoranza di buddhisti in India, ma si tratta per lo più di buddhisti “di ritorno”: negli anni Cinquanta del Novecento è avvenuta una sorta di conversione di massa –  con numeri peraltro assai esigui se contestualizzati in India – per iniziativa dello studioso e attivistaB. R. Ambedkar, in opposizione alle caste tradizionali come atto di ribellione dal forte connotato politico e sociale.

Nelle due opere citate esposte al Met si percepisce la volontà di conciliare la tradizione con linguaggi pittorici internazionali, comprensibili nel resto del mondo. Consideriamo a titolo esemplificativo la creazione di Gyatso: vediamo un’iconografia tradizionale del Buddha, che esprime un significativo religioso condiviso, associata a una disgregazione che trasmette la visione individuale del Nirvana, come immaginato dall’artista. Si può inoltre dedurre anche un tentativo di oltrepassare mediante lo stile astratto l’antropomorfismo, per giungere al livello spirituale ineffabile del Nirvana, ove la persona si dissolve.

A cura di Luca Siniscalco

Pieruccini

“Storia dell’arte dell’India – vol. I Dalle origini ai grandi templi medievali” di Cinzia Pieruccini, Einaudi, immagini, pp. 386.
“Storia dell’arte dell’India – vol. II Dagli esordi indo-islamici all’indipendenza” di Cinzia Pieruccini, Einaudi, immagini, pp. 420.