Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Elena è colpevole o innocente?

Elena è colpevole o innocente?

di Francesco Lamendola - 13/04/2014


 

 


 

Elena di Troia, colei che abbandonò il marito Menelao per seguire il principe Paride, sedotta dalla sua bellezza, e che provocò, in tal modo, la sanguinosissima guerra che oppose i due popoli, il greco e il troiano, fino alla distruzione totale e irreparabile della superba città posta presso l’imboccatura dell’Ellesponto, dev’essere ritenuta colpevole o innocente?

È questa la domanda che si pose un filosofo prestigioso, Gorgia da Lentini, il celebre sofista; e se la pose come caso paradigmatico d’una questione, evidentemente, molto più ampia e complessa: la questione del libero arbitrio. Se si giunge alla conclusione che Elena, travolta dalle circostanze, non fu colpevole, se ne può ragionevolmente arguire che gli esseri umani, in linea di massima, non sono meritevoli di biasimo per le cattive azioni che commettono, né, per la stessa ragione, di lode per quelle buone; che non sono dotati, in altre parole, di libero arbitrio.

San Tommaso d’Aquino osserva giustamente che l’arbitrio è la facoltà di scelta, e che la scelta consiste nell’intraprendere una certa cosa in vista di un’altra cosa: questa è la facoltà che ci differenzia dalle creature irragionevoli, le quali – osserva l’Aquinate – non possiedono la facoltà di scelta, ma sono guidate soltanto dall’istinto, come la pecora che per istinto, e non per un ragionamento, fugge all’avvicinarsi del lupo.

Ora, se gli esseri umani sono privi della libertà di scegliere, è evidente che si trovano nelle stesse condizioni degli animali: non sono responsabili né del bene, né del male che compiono; tutto quel che fanno, lo fanno per istinto: e l’istinto non è buono, né cattivo, è semplicemente la forza primordiale che guida la vita degli esseri irragionevoli. 

A Gorgia, però, queste conseguenze importano poco o non importano affatto; e, per la verità, sorge il sospetto che tutta la sua tirata in difesa di Elena altro non sia che una roboante esercitazione retorica, nella quale egli vuol fare sfoggio della capacità di affascinare e manipolare le menti del pubblico, sostenendo, senza batter ciglio, le tesi più azzardate e improbabili, così, per il solo gusto di dispiegare la potenza della parola e di mostrare fino a che punto un buon oratore possa non solo commuovere, ma anche suggestionare ed, eventualmente, trascinare l’uditorio. Gustave Le Bon parlerà, più di duemila anni dopo, della psicologia delle folle, e spiegherà come sia relativamente facile agire su quella misteriosa entità collettiva, ma occasionale e temporanea, che è una folla; ma in Gorgia il concetto è già ben chiaro e individuato: il sofista può, con la magia del suo eloquio, incantare e stregare qualunque uditorio, anche se, probabilmente, non sarà in gradi di persuaderlo, se “persuadere” significa propriamente convincere mediante ragionamenti.

Il fatto che la negazione del libero arbitrio porti dritto al concetto della irresponsabilità circa le azioni umane, ad ogni modo, non dovrebbe influenzare il prendere partito pro o contro di esso, perché le questioni filosofiche non si decidono in base alle conseguenze pratiche da esse scaturenti, ma in base alla loro verosimiglianza e al rigore del ragionamento mediante il quale sono state formulate e, in seguito, accettate o respinte. Bisogna pertanto chiedersi, con mente sgombra da pregiudizi, se sia verosimile ipotizzare che non il libero arbitrio, ma una fatale necessità determini le azioni umane; e non anticipare la risposta con l’affermare che, se il libero arbitrio è una illusione, allora viene a cadere il significato morale della vita umana, anzi, viene a cadere il concetto stesso di “scelta”, dato che scegliere vuol dire operare una libera decisione fra possibilità diverse.

Noi siamo convinti che il libero arbitrio esista, anche se è piuttosto evidente che non sempre le circostanze nelle quali siamo chiamati a scegliere sono del tutto libere; riteniamo, però, che un essere umano normale, il quale si trovi in condizioni di intendere e di volere, conservi un sufficiente grado di libertà interiore per scegliere in maniera responsabile, anche quando le circostanze esterne tendono a esercitare una pressione su di lui.

Lo crediamo, però, non perché temiamo le conseguenze, pessimiste e nichiliste, che deriverebbero dall’ipotesi contraria, ossia che gli esseri umani non dispongano di una reale libertà di scelta; ma perché l’esperienza e l’osservazione, oltre al ragionamento, ci hanno fatti persuasi della realtà del libero arbitrio; mentre è chiaro che il pessimismo e il nichilismo sarebbero inevitabili qualora si dovesse decidere in senso negativo rispetto al libero arbitrio. L’importante è non invertire il giusto ordine di cose e non far scaturire la verità o la falsità di una proposizione filosofica dal giudizio morale derivante dalle sue eventuali conseguenze.

Certo, la portata pratica della negazione del libero arbitrio è tale da far scardinare la morale tuta intera, così come la conosciamo e sempre l’abbiamo conosciuta: se noi non fossimo responsabili delle nostre azioni, ed esse si verificassero per mezzo di noi, ma senza nostra convinta partecipazione, allora le cose accadrebbero “non si sa come”, per parafrasare Pirandello: così, senza una ragione apparente, solo perché noi ci troveremmo in una data situazione ad un dato momento. Allora gli uomini sarebbero ridotti a dei burattini senza volontà, e le loro azioni diverrebbero il frutto del caso, dell’istinto, di una cieca necessità.

Ma vediamo con quali argomenti Gorgia da Lentini sostiene la tesi della incolpevolezza di Elena, riportando i passi salienti del suo «Encomio di Elena» (da: «I Presocratici. Testimonianze e frammenti», a cura di G. Giannantoni e altri, Bari, Laterza, 1981, pp.929-933):

 

«Mi rifarò dal principio del discorso propostomi, ed esporrò le cause per le quali era naturale avvenisse  la partenza di Elena verso Troia. Infatti, ella fece quel che fece o per cieca volontà del Caso, e meditata decisione di Dei, e decreto di Necessità; oppure rapita per forza; o indotta con parole (o presa da amore). Se è per il primo motivo, è giusto che s’incolpi chi ha colpa; poiché la provvidenza divina non si può con  previdenza umana impedire. Naturale è infatti non che il più forte sia ostacolato dal più debole, ma il più debole sia dal più forte comandato e condotto;  e il più forte guidi, il più debole segua. E la Divinità supera l’uomo e in forza e in saggezza e nel resto. Che se dunque al Caso e alla Divinità va attribuita la colpa, Elena va dall’infamia liberata.

E se per forza fu rapita, e contro legge violentata, e contro giustizia oltraggiata, è chiaro che del rapitore è la colpa, in quanto oltraggiò, e che la rapita,  in quanto oltraggiata subì una sventura. Me

Merita dunque, colui che intraprese da barbaro una barbara impresa, d’esser colpito e verbalmente, e legalmente, e praticamente; verbalmente, gli spetta l’accusa;  legalmente, l’infamia; praticamente, la pena. Ma colei che fu violata, e della patria privata,  e dei suoi cari orbata, come non dovrebbe esser piuttosto compianta  che diffamata? Ché quello compì il male, quella lo patì; giusto è dunque  che questa si compianga, quello si detesti.

Se poi fu la parola a persuaderla e a illuderle l’animo, neppur questo è difficile a scusarsi e a giustificarsi così:  la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà. […] Di fascinazione e magia si son create due arti, consistenti in errori dell’animo e in inganni della mente.  E quanti, a quanti, quante cose fecero e fanno credere, foggiando un finto discorso! […] Qual motivo ora impedisce di credere che Elena sia stata trascinata da lusinghe di parole, e così poco di sua volontà, come se fosse stata rapita con violenza? Così si constaterebbe l’imperio della persuasione, la quale, pur non avendo l’apparenza dell’ineluttabilità,  ne ha tuttavia la potenza. Infatti un discorso che abbia persuaso una mente, costringe la mente che persuaso,  a credere nei detti, e a consentire nei fatti. Onde chi ha persuaso, in quanto ha esercitato una costrizione, è colpevole; mentre chi fu persuasa, in quanto costretta dalla forza della parola, a torto vien diffamata. […]

Ecco così spiegato che se ella fu persuasa  con la parola, non fu colpevole, ma sventurata. Ora la quarta causa spiegherò col quarto ragionamento. Che se fu l’amore a compiere il tutto, non sarà difficile a lei sfuggire all’accusa del fallo attribuitole. Infatti la natura elle cose che vediamo non è quale la vogliamo noi, ma quale è coessenziale a ciascuna;  e per mezzo della vista, l’anima anche nei suoi atteggiamenti ne vie modellata. […] Sicché certe cose per natura addolorano la vista,  certe altre l’attirano. Ché molte cose, in molti, di molti oggetti e persone inspirano l’amore e il desiderio. Che se dunque lo sguardo di Elena, dilettato dalla figura di Alessandro, inspirò all’anima fervore e zelo d’amore, qual meraviglia? Il quale amore, se, in quanto dio, ha degli dèi, la divina potenza, come un essere inferiore potrebbe respingerlo,  o resistergli? E se poi è un’infermità umana e una cecità della mente, non è da condannarsi come colpa, ma da giudicarsi come sventura; venne infatti, come venne, per agguati del caso,  non per premeditazioni della mente; e per ineluttabilità d’amore,  non per artificiosi raggiri

Come si può dunque ritener giusto il disonore gettato su Elena,  la quale, sia che abbia agito come ha agito perché innamorata,  sia perché lusingata da parole, sia perché rapita con violenza,  sia perché costretta da costrizione divina, in ogni caso è esente da colpa?

Ho distrutto  con la parola l’infamia d’una donna, ho tenuto fede al principio propostomi all’inizio del discorso, ho tentato di annientare l’ingiustizia di un’onta e l’infondatezza di un’opinione; ho voluto scrivere questo discorso, che fosse a Elena di encomio, a me di gioco dialettico.»

 

Tralasciamo, dunque, l’ultimo malizioso accenno di Gorgia, nel quale egli sembra vantarsi della prodezza di aver capovolto una opinione corrente con la sola forza di persuasione della parola, e tutto questo come un semplice gioco, quasi per fare uno sberleffo all’uditorio. Ciò fa parte della ostentata spregiudicatezza dei sofisti ed è anche l’equivalente di un cartellone pubblicitario: dal momento che essi si facevano pagare profumatamente, si preoccupavano anche di reclamizzare adeguatamente la merce che vendevano, ossia la parola, mostrando fino a che punto questa potesse assicurare una superiorità in qualsiasi disputa, privata o legale.

Gli argomenti con i quali Gorgia sostiene l’innocenza di Elena, o meglio la sua non colpevolezza (i due concetti non sono necessariamente sinonimi, tutt’altro), sono, come si è visto, quattro: 1) ella è stata spinta a partire con Paride da un forza possente di origine non umana: il Caso, la Necessità o la volontà divina; 2) o è stata rapita con la forza e violentata; 3) o è stata persuasa e irretita da Paride mediante abili discorsi; 4) oppure, infine, è stata afferrata e trascinata dalla forza irresistibile dell’amore. Poi Gorgia passa ad illustrare, l’una dopo l’altra, queste quattro possibilità, mostrando – a suo credere – di aver provato che, in qualunque caso, Elena non fu colpevole di quello che avvenne.

Nel primo caso, Gorgia gioca sul fatto che i Greci del suo tempo avevano le idee alquanto confuse circa il Fato: erano d’accordo solamente su un punto, e cioè che ad esso nessuno può opporsi; non solo nessun essere umano, ma, addirittura, nemmeno gli dèi. Lo stesso Zeus, secondo Omero, dovette piegarsi ad accettare la morte di suo figlio Sarpedonte sotto le mura di Troia, perché tale era l’inappellabile decreto del Fato. E Sarpedonte era un semidio! Ma, a un palato filosofico appena un po’ raffinato, la mescolanza o l’intercambiabilità di concetti quali il Destino, il Caso e la volontà divina, suona come una musica estremamente stridente; e la disinvoltura con cui Gorgia li adopera, quasi che vi fosse poca differenza sostanziale fra essi, almeno dal punto di vista delle conseguenze pratiche, non può non apparire eccessiva e totalmente ingiustificata. È pur vero che la religione greca del tempo autorizzava quella confusione ed anzi i suoi seguaci erano ormai assuefatti a convivere con essa: confusione che si trasmise alla religione romana e che solo nella poesia di Virgilio, dunque parecchi secoli dopo, genera aperta inquietudine, insofferenza e perfino ribellione, che si esprime nella celebre, sbigottita domanda (riferita alla persecuzione di Giunone contro il “pius” Enea): «Di tanta ora son capaci i celesti?».

Nel secondo caso, Gorgia prospetta l’eventualità che Elena non abbia lasciato Sparta, né abbia seguito Paride volontariamente, ma che sia stata rapita e sottoposta a violenza: una eventualità che nessuno può escludere, anche se i lettori dell’«Iliade» non hanno affatto questa impressione, quando Elena viene mostrata loro in qualità di moglie o concubina di Paride, dopo che la guerra di Troia, causata dalla sua vicenda, è ormai entrata nel nono anno. Certo a Menelao, il marito abbandonato, piacerebbe crederlo; piacerebbe crederlo anche a quei Greci che, ammirati dalla sua leggendaria bellezza, non riescono a disprezzarla, nonostante tutto il male e tutto il sangue versato che la sua partenza da Sparta, al seguito di Paride, ha provocato. A molti, se non a tutti, piace immaginare che una bella donna sia innocente: lo abbiamo visto nel corso di innumerevoli processi, da quello della celebre Maria Tarnovska a quello, recentissimo, dell’americana Amanda Knox, accusata di un odioso omicidio ai danni dell’inglese Meredith Kercher. Ma è un desiderio irrazionale, che non ha nulla a che fare con le ragioni della giustizia.

In effetti, anche questa è un’idea di origine greca: erano i Greci a dare praticamente per scontata che un bell’uomo, o una bella donna, fossero tali anche moralmente, oltre che fisicamente: la loro idea dell’eccellenza umana li costringeva, quasi, a pensarla in tal modo. Naturalmente, si tratta di una sciocchezza: sia la storia che le cronache sono piene di “bei mostri” d’ambo i sessi, non solo: di persone che hanno sfruttato proprio il fattore “bellezza” per compiere azioni ingiuste e malvagie, contando sul fatto che difficilmente sarebbero state credute colpevoli.

Anche in questo caso, comunque, Gorgia ha buon gioco nello sfruttare una credenza diffusa fra i suoi contemporanei: l’idea, arbitraria e gratuita, che una persona fisicamente bella debba esserlo anche in senso morale, o, quanto meno, che non possa essere capace di commetter intenzionalmente il male. Si tratta, comunque, di una debolezza psicologica di quella cultura e non di un elemento probante sul piano logico: anche qui si conferma il fatto che i sofisti poterono presentarsi come maestri di sapere grazie ad una società che stava vivendo una gravissima crisi di valori, anche se il sapere di cui si dicevano in possesso riposava sul fumo delle parole e non sulla sostanza del pensiero. Furono bravi a sfruttare al massimo l’altrui debolezza, non a creare o sviluppare una forza propria; e questo è tutto.

La terza possibilità considerata da Gorgia è che Elena sia stata persuasa dagli abili discorsi di Paride. E qui egli si lancia in un inno sperticato alla potenza persuasiva della parola, tanto narcisista quanto auto-celebrativo; ma, in effetti, cade nel vistoso infortunio di dare per provato proprio quel che si proponeva di dimostrare. Venditore di parole, non si perita di asserire che, mediante l’abile uso di esse, si riesce a persuadere chiunque di qualsiasi cosa; e non si rende conto che, se ciò fosse vero, sarebbe un argomento che si ritorce fatalmente contro le conclusioni cui vorrebbe tirarlo. Infatti, se è possibile dimostrare che nessuno può resistere al fascino della parola, non è corretto dedurne che Elena fu senza colpa, allorché cedette alle lusinghe di Paride; perché, con la stessa ragione concettuale, si potrebbe rovesciare il ragionamento, e asserire che è possibile persuadere qualunque uditorio della verità contraria: cioè che Elena fu senza dubbio colpevole, e che nessuna attenuante è consentita nel giudicare la gravità del suo gesto.

Questa è la nemesi di tutti coloro che eccedono in furbizia: e i sofisti erano dei furbacchioni che vendevano fumo in cambio di moneta sonante, contribuendo al disorientamento intellettuale e morale in cui era precipitata la società greca in conseguenza della guerra del Peloponneso. Non è mancato chi ha voluto presentarli sotto una luce molto più simpatica e che ha voluto vedere in loro i campioni e gli annunciatori di non si sa quale rinnovamento culturale; ma, così facendo, si è fatto un torto alla verità e si è reso omaggio alla loro lezione mercenaria: che i furboni, purché abbiano la lingua sciolta e sufficiente faccia tosta per non arrossire davanti ad alcuna enormità si possa formulare in concetti, alla fine riescono sempre a prevalere e perfino a passare per dei grand’uomini e per dei maestri di verità. Le cronache culturali dei nostri giorni sono piene di codesti falsi sapienti che riempiono le sale per conferenze e che imperversano nei salotti televisivi: filosofi alla moda, alla moda in tutti i sensi (magari con la permanente ai capelli e la barba tinta), i quali dispensano le loro ineffabili perle di “saggezza” davanti a un pubblico ammutolito e adorante, anche se, in effetti, non fanno che snocciolare astrusità e fumisterie o, peggio, delle piatte e zuccherose sentenze da Baci Perugina.

La quarta eventualità considerata da Gorgia è che Elena si sia innamorata: il che, secondo lui, spiegherebbe tutto e chiuderebbe il discorso, nel senso che se una persona cade in preda all’amore, è evidente che non ci si può aspettare da lei saggezza, prudenza o rispetto delle regole morali e sociali, ma non per sua colpa, bensì perché è caduta nella rete di una forza superiore (come visto nella prima ipotesi). Per la verità, qui e solo qui egli sembra compiere un gesto di audacia intellettuale, perché i suoi contemporanei, generalmente, mostravano  in maniera ben diversa: l’idea dell’amore romantico e passionale, dell’amore che travolge nel suo impeto ogni barlume di razionalità e di senso etico e che, pertanto, rende irresponsabili nei confronti dei propri atti, è un’idea moderna, che comincia a far capolino con Chrétien de Troyes e con i romanzi arturiani, oltre che nella lirica dei poeti provenzali. Anche se alcuni poeti greci sembrano precorrere tale concezione, in particolare la poetessa Saffo, in generale né i Greci, né, dopo di loro, i Romani, mostravano troppa indulgenza per chi si lascia travolgere dall’amore, anche se erano più severi, a tale riguardo, nel giudicare l’uomo che non la donna. Qui, pertanto, si potrebbe parlare di una “modernità” nell’argomentazione di Gorgia; ma, a ben guardare, è molto probabile che egli sfruttasse una tendenza culturale già in atto, quella che incominciava a modificare il proprio atteggiamento verso l’amore passionale e che, in nome dell’edonismo individualista – un concetto che avrebbe fatto fremere di orrore i Greci di una o due generazioni prima – non vedeva niente di male nel fatto che una singola persona cerchi di realizzare la propria felicità anche mettendo in discussione o rifiutando le norme comunemente accettate.

È molto probabile, insomma, che Gorgia sfruttasse, anche in quest’ultimo punto della sua pretesa dimostrazione dell’innocenza di Elena, il flusso della corrente che si stava muovendo all’interno di una società profondamente in  crisi; anche se, nello stesso tempo, egli faceva le viste di assumere una posizione coraggiosamente innovatrice e anticonformista: la solita furbata di atteggiarsi a ribelli e contestatori, quando ormai l’avversario, cioè il modo di pensare tradizionale, regge solo in apparenza, ma in realtà è pronto a crollare alla prima spallata. In altre parole, Gorgia interpretava il comodo ruolo di colui che si scaglia contro la tradizione, quando essa è forte solo esteriormente, ma, in realtà, è prossima al tracollo: ruolo che unisce il vantaggio di passare per dei rivoluzionari a quello di godere dei consensi della effettiva maggioranza, ottenendo così il massimo risultato con il minimo rischio.

Anche in questo caso, si può dire che Gorgia e i sofisti abbiano fatto scuola, specialmente nella cultura di massa della società moderna. Quanti scrittori e pseudo-filosofi si sono eretti a giudici e accusatori dei “benpensanti”, assumendo la maschera dei titani che lottano contro un fortissimo e minaccioso potere costituito, mentre, in effetti, i tempi sono maturi per il crollo di quel potere e dell’ordine sociale sul quale esso si regge; e non solo essi non corrono alcun rischio, ma, addirittura, strappano gli applausi di quelli stessi che, illusi o sciocchi, stanno per ricever in pieno l’onda rivoluzionaria che li spazzerà via. Quanti nobili francesi, alla vigilia della rivoluzione del 1789, andavano in visibilio davanti alle massime dei sedicenti “philosophes” illuministi, le quali, di lì a poco, sarebbero risuonate, per essi, come altrettante condanne a morte, e non solo in senso figurato! E quanti intellettuali di estrazione borghese, nel corso del XIX e del XX secolo, hanno vomitato ogni possibile lordura sui valori della borghesia, prendendosi gli applausi di quelli stessi che essi coprivano di fango, grazie al mito della rivoluzione imminente e della palingenesi che avrebbe rigenerato l’umanità, nel segno della libertà e dell’uguaglianza! Quanti genitori hanno giocato a fare i permissivi con i loro figli, prima e dopo il 1968; quanti professori hanno giocato a fare i teorici della rivoluzione proletaria con i loro studenti; quanti sacerdoti hanno giocato a introdurre lo stile e il linguaggio della lotta di classe nelle loro omelie, nel loro catechismo, nella loro ora di insegnamento della religione cattolica nella scuola media.

Che tristezza. Non c’è niente di più malinconico di codesti conformisti dell’anticonformismo, di codesti professionisti della rivoluzione – culturale, sociale, politica, morale – che non credono in niente, se non nella propria furberia e nella propria ambizione.

Ed Elena, alla fine, era innocente? Impossibile dirlo: questo è un mistero legato alla sua persona; in ogni persona c’è un mistero. Bisogna rispettare tale mistero, che è il mistero del bene e del male. Ma quel che fa Gorgia, è un’altra cosa, completamente diversa: vorrebbe rendere “licito” tutto ciò che è “libito”, per togliere il biasimo delle cattive azioni. Brutto mestiere, quello dell’avvocato difensore senza scrupoli, che farebbe assolvere il peggior criminale (purché lo paghi bene), con la scusa della non responsabilità degli uomini davanti al destino, o al plagio altrui, o all’amore…

Già: quanti crimini vengono giustificati, proprio in nome dell’amore. Sarebbe ora di finirla con la deleteria idea dell’amore romantico che giustifica tutto, perché visto come una forza irresistibile. E sarebbe ora di farla finita pure con i moderni sofisti che predicano il relativismo più estremo, perché solo così possono continuare a smerciare le loro chiacchiere insulse e venali per moneta buona.