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Come gli Alleati, per viltà e insipienza, abbandonarono Kolčak al suo destino

di Francesco Lamendola - 27/04/2014

 

 

 

Ci fu un momento in cui l’ammiraglio Kolčak, Supremo Reggitore della Russia in funzione anti-bolscevica, parve sul punto di prevalere sull’Armata rossa di Trotzkij e di potersi spingere fino alla conquista di Mosca, attraverso gli Urali, partendo dalle sue basi nella Siberia Occidentale e agendo in cooperazione con gli altri eserciti “bianchi”, primo fra tutti l’Esercito volontario del generale Denikin che, dalla regione a nord del Caucaso, minacciava sia il Volga che l’Ucraina.

Quel momento decisivo, in cui le sorti della guerra civile russa furono in bilico e sarebbe bastato poco perché i bolscevichi ricevessero un colpo irreparabile, si delineò nella primavera del 1919, particolarmente nel mese di aprile. Fino a quel momento le truppe dell’esercito di Kolčak avevano effettuato un’ampia avanzata su tre fronti: a Nord, sotto il comando del generale Gajda, in direzione di Arcangelo, partendo da Perm, conquistata nella vigilia di Natale del 1918; al centro, sotto il comando del generale Chanzin, verso Ufa, che cadde in marzo; a Sud, sotto il comando del generale Dutov, in direzione di Samara, Kazan e il fiume Volga.

Fu in quel momento che i capi di governo alleati, riuniti a Versailles per la Conferenza della pace, ebbero la sensazione che si fosse giunti a un passo dal crollo del regime sovietico, e fecero sapere all’ammiraglio che avrebbero il suo sforzo, rifornendolo di denaro e materiali, purché avesse dato garanzie atte a tranquillizzare i loro alleati minori, polacchi e finlandesi, timorosi di un ritorno dell’imperialismo russo. In realtà l’esercito siberiano, composto da circa 110.000 uomini (contro i 95.000 rossi), avanzava con estrema fatica, spossato dalle marce e dalle difficoltà nei rifornimenti; ma Lloyd George, Clemenceau e Wilson si preoccupavano già delle garanzie “democratiche” che l’ammiraglio doveva fornire, come se la sua vittoria fosse ormai cosa certa. Invece l’Armata rossa, passata la crisi, si stava riorganizzando e preparava la controffensiva, che venne lanciata in aprile al centro dello schieramento, verso Ufa, che cadde il 9 giugno. Le migliori risorse vennero avviate dai bolscevichi contro Kolčak, considerato, in quel momento, l’avversario più pericoloso; a Denikin si sarebbe pensato dopo. Superati gli Urali, i Rossi presero Celjabinsk il 25 luglio e raggiunsero il fiume Tobol, dove fecero una sosta di alcuni mesi; in ottobre ripresero l’offensiva e travolsero le ultime difese, conquistando Omsk, la capitale del governo siberiano, alla metà di novembre, mentre infuriava un’epidemia di tifo petecchiale. Ormai l’armata bianca era in piena dissoluzione: 50.000 uomini vennero catturati al momento della presa di Omsk e il resto si ritirò lungo la Transiberiana, in disordine, senza più alcuna speranza di ripresa.

Avrebbero potuto andare diversamente le cose se gli Alleati avessero dato a Kolčak, che pure era stato spinto dagli Inglesi a mettere in piedi una forza antibolscevica in Siberia (lui, proveniente dal Giappone, si era offerto di andare a combattere la Germania in qualsiasi posto e, in un primo tempo, Londra lo aveva destinato al fronte mesopotamico, contro i Turchi) un sostegno pieno e convinto, allorché, in marzo e aprile, le sue forze stavano avanzando vittoriose, da Est, in direzione di Mosca, e il territorio da lui controllato ospitava una popolazione di almeno sette milioni di persone? È difficile dirlo; in realtà, oggi sappiamo che la sconfitta di Kolčak fu resa pressoché inevitabile dai sospetti incrociati e dalle reciproche gelosie degli Alleati. Fino a quel momento, l’ammiraglio era stato sostenuto esclusivamente dai Britannici, e particolarmente dal capo della missione militare inglese in Siberia, generale A. F. W. Knox; le truppe siberiane erano armate ed equipaggiate direttamente dalla Gran Bretagna.

Ma i Francesi non vedevano Kolčak di buon occhio: essi avevano puntato sui socialisti rivoluzionari, eredi della disciolta Assemblea costituente, e soprattutto sulla Legione cecoslovacca, la maggiore forza militare organizzata presente allora in Siberia (circa 45.000 uomini perfettamente armati dall’Intesa e posti sotto il comando del generale francese Junin); mentre Kolčak aveva preso il potere a Omsk, il 18 dicembre 1918, mediante un colpo di Stato che aveva appunto esautorato il Governo Provvisorio Panrusso, con gran dispetto dei Cecoslovacchi, che erano rimasi a guardare. Quando, poi, il 22 dicembre, i Socialisti rivoluzionari avevano tentato una insurrezione armata, erano stati repressi con durezza spietata: 500 persone erano state fucilate e, da quel momento, Kolčak, per i Francesi, era divenuto qualcosa di peggio che uno scomodo alleato: un reazionario russo dai metodi brutali, che voleva restaurare lo zarismo (anche se ciò non era interamente esatto) e, per giunta, una pedina britannica, che Londra giocava con disinvoltura per i suoi vecchi e nuovi interessi strategici in Asia: garantire la sicurezza dell’India e, possibilmente, mettere le mani sui giacimenti petroliferi di Baku, sul mar Caspio.

Il terzo “grande” di Versailles, il presidente americano Wilson, era contrario, per principio, alla politica dell’intervento anti-sovietico; si era deciso a mandare in Siberia un contingente di 7.000 uomini, sotto il comando del generale Graves, al solo scopo di controbilanciare la spedizione giapponese, forte di ben 70.000 soldati e motivata, a differenza di quella americana, da evidenti appetiti territoriali, tanto è vero che il governo di Tokyo aveva favorito l’insediamento dell’ataman G. M. Semenov nella Transbaikalia, permettendogli di soppiantarvi, di fatto, l’autorità – puramente nominale - del governo di Omsk. Ai Giapponesi interessavano la Kamciatka, la regione dell’Amur, Vladivostok e la Manciuria settentrionale, con le loro ricchezze naturali: non condurre la lotta a fondo contro i bolscevichi; anche perché ciò avrebbe avuto per effetto la restaurazione di un forte potere russo in Siberia, cosa contraria ai loro interessi. Graves, pertanto, si era attenuto alla linea di Wilson, osservando una strettissima neutralità fra i partiti russi in lotta: le truppe americane si limitarono a fare da spettatrici degli avvenimenti siberiani. Non avevano lo scopo recondito di favorire il recupero dei prestiti concessi alla Russia prima e durante la guerra, come i Francesi, né quello di assicurarsi lo sfruttamento delle ricchezze naturali, come i Britannici.

Orlando, infine, il Presidente del Consiglio italiano, pare sia stato il più lucido, ma era anche quello che aveva la minor forza effettiva da gettare sul piatto (anche se più tardi, per un momento, il governo Nitti avrebbe accarezzato l’intervento armato, ma non in Siberia, bensì nel Caucaso, allo scopo di porre sotto protettorato italiano la Georgia). Egli fu l’unico degli statisti alleati riuniti a Versailles a comprendere che la politica portata avanti dagli Alleati verso la Russia era pericolosamente ambigua e contraddittoria e, soprattutto, inconcludente: negando ogni riconoscimento sia ai bolscevichi, sia ai Bianchi, essi stavano inimicandosi inutilmente i primi, mentre lesinavano il loro sostegno ai secondi, che pure, in teoria, rappresentavano la carta su cui puntare. Di fatto, il corpo di spedizione italiano in Siberia, sbarcato a Vladivostok il 17 marzo 1918 e composto da soli 2.500 uomini (al comando del colonnello Fossini Camossi), dopo aver partecipato ad alcuni fatti d’arme al fianco dei Cecoslovacchi, venne reimbarcato il 9 agosto per Tientsin. L’Italia non aveva alcun tipo di mira nell’ex Impero russo; e, del resto, stremata per lo sforzo bellico e già impegnata in Turchia (sbarco e occupazione di Adalia, il 9 marzo), non intendeva in alcun modo lasciarsi coinvolgere nella guerra civile siberiana.

C’era poi un’altra considerazione che tratteneva gli Alleati dall’impegnarsi decisamente a favore di Kolčak e degli altri generali bianchi.  Essi temevano che i bolscevichi, sentendosi perduti, potessero gettarsi nelle braccia della Germania: la quale, se ciò fosse avvenuto, si sarebbe ampiamente rifatta, a Oriente, in termini economici e strategici, di quel che stava perdendo a Versailles, nei confronti dell’Occidente (la firma del trattato di pace ebbe luogo il 18 giugno, con decorrenza dal 10 gennaio 1920). Il che, dal loro punto di vista, avrebbe significato una autentica disfatta rispetto agli obiettivi finali della guerra, nonostante la vittoria conquistata sui campi di battaglia, a così caro prezzo: ritrovarsi, cioè, davanti a una Germania che, nel giro di pochi anni, grazie alle immense risorse della Russia, sarebbe tornata più forte e temibile di quanto non lo fosse stata nel 1914. E forse, come se ciò non fosse già abbastanza inquietante, una Germania aperta all’influsso del bolscevismo…

Kolčak, dunque, era poco più che un semplice strumento nelle mani dei Britannici: furono loro a indurlo a prendere il potere a Omsk; furono loro a equipaggiare il suo esercito; e furono loro, alla fine, a decidere di abbandonarlo, quando si resero conto che il gioco non valeva la candela e che, in ogni caso, si stava facendo eccessivamente rischioso. Le altre potenze alleate rimasero a guardare, in genere con un atteggiamento di scarsissima simpatia, la politica del Capo supremo russo, in cui vedevano una reincarnazione dello zarismo, con tutti i suoi peggiori difetti. Il giudizio era ingeneroso sul piano umano, perché le intenzioni di Kolčak erano buone (nella Russia odierna è in corso un processo di riabilitazione nei suoi confronti e gli sono stati eretti un paio di monumenti, nonostante l’opposizione dei comunisti) e, semmai, questi aveva peccato di ingenuità, fidandosi delle promesse di Knox, col quale era entrato amicizia; ma, politicamente, bisogna ammettere che non era del tutto infondato.

Così ricostruisce quella vicenda lo storico francese Pierre Renouvin in quel piccolo classico che è la sua monografia su «Il trattato di Versailles» (titolo originale: «Le traité de Versailles», Paris, Flammarion, 1969; traduzione dal francese di Elvira Cantarella, Milano, Mursia, 1970, pp. 116-18):

 

«Tuttavia, all’inizio di maggio [1919], il principio del non intervento, così recisamente enunciato dal presidente Wilson, viene contraddetto. È proprio Llod George, deciso avversario di ogni intervento armato, che sembra aver cambiato opinione. Perché? Perché in questo momento la guerra civile russa assume un aspetto diverso: i capi dei “bianchi” (l’ammiraglio Kolčak ai confini siberiani, il generale Denikin nella Russia meridionale) stanno ottenendo dei successi. “Stiamo assistendo a un vero e proprio crollo del bolscevismo”, dice il Primo ministro britannico. Ora, la probabile vittoria dei “bianchi” desta preoccupazione nei polacchi, che vedono nell’ammiraglio e nel generale una incarnazione del “militarismo” russo. È dunque necessario che Kolčak e Denikin assumano un impegno preciso in merito al regime politico che essi instaureranno dopo la caduta dei bolscevichi: se vorranno continuare a beneficiare di aiuti sotto forma di materiale bellico, dovranno dare e mantenere tali assicurazioni. Wilson finisce con l’accettare questa linea di condotta. Il 24 maggio, i Quattro compilano l’elenco delle condizioni da porre a Kolčak, condizioni che consistono nella promessa di convocare un’assemblea costituente, eletta secondo i principi democratici,  di non ripristinare né i privilegi di classe, né l’antico regime fondiario, di garantire a tutti le libertà civili e religiose,  di rispettare l’indipendenza della Polonia e della Finlandia, come pure l’autonomia dei Paesi Baltici, di demandare alla Conferenza della pace il compito di risolvere la questione della Bessarabia e, infine, di riconoscere i debiti contratti dal governo zarista e, nel 1917, dal governo provvisorio. In cambio di tali assicurazioni, Kolčak potrà beneficiare di generosi aiuti economici e finanziari e ricevere anche l’appoggio di volontari provenienti dai paesi alleati, senza peraltro essere riconosciuto “de jure”. Il 12 giugno l’ammiraglio dà le assicurazioni richieste. Ma, a questa data,  gli Alleati stanno già per abbandonare la loro nuova politica, perché i successi dei russi bianchi sono stati di breve durata:  le truppe di Kolčak, che avevano raggiunto Viatka, sono ora in piena ritirata.

Nel momento in cui si concludono i lavori della Conferenza della pace,  risulta il fallimento di tutti i piani elaborati, uno dopo l’altro, dagli Alleati. Orlando osservava il 27 maggio che due sarebbero state  le possibili politiche: schiacciare il bolscevismo organizzando contro di esso una spedizione militare, oppure stringere con il governo di Lenin “relazioni più o meno normali”. Ma gli Alleati non erano riusciti a fare né l’una cosa né l’altra. “Abbiamo subito, diceva il presidente del Consiglio italiano, le conseguenze più spiacevoli di entrambe queste politiche: non facciamo la guerra, ma siamo egualmente in stato di guerra con la Russia”. E Wilson dichiarava il 20 maggio: “Non mi rammarico più, come facevo qualche mese fa, di non avere una politica per la Russia; nelle attuali condizioni, non mi sembra infatti possibile averne una”.

Perché dunque i Quattro – che in fondo desiderano la caduta del governo bolscevico – si dimostrano incapaci di stabilire ed attuare una linea di condotta politica?

Essi non riescono quasi mai ad accordarsi sul metodo da seguire. Wilson non ha fiducia nell’azione militare: “Tentare di arrestare un movimento rivoluzionario schierando contro di esso degli eserciti equivarrebbe ad impiegare una scopa per fermare l’alta marea”. Lloyd George non si pronuncia sulla loro eventuale efficacia, ma ritiene di non potersi impegnare in operazioni militari, perché, dato lo stato d’animo delle truppe e l’ostilità dei sindacati, avverte la necessità di una rapida smobilitazione, Solo Clemenceau  propenso a tendere la mano ai generali bianchi, a condizione, però, che un loro eventuale successo non porti alla restaurazione della monarchia zarista.

Inoltre sono incostanti: il punto di vista di ciascuno di loro varia col variare delle circostanze.

Lloyd George, che, in febbraio, aveva dichiarato impossibile raccogliere un contingente di volontari per partecipare a un intervento in Russia, non esita ad affermare, in giugno, che “in Inghilterra si potrebbero trovare tutti i volontari che si desiderano”. Il che si spiega, se si pensa che nel frattempo l’Inghilterra ha attraversato una grave crisi di disoccupazione. Wilson, dopo aver ripetutamente  affermato: “Finché il bolscevismo resta entro i suoi confini,  la cosa non ci riguarda…”, dà la sua adesione, quindici giorni dopo, al piano di aiuti a Kolčak, forse perché tiene conto del parere espresso dalla stampa americana. Egli resta però fermo nella sua convinzione che “il solo modo per agire contro il bolscevismo consiste nell’eliminarne le cause, nel porre, cioè, rimedio alle misere condizioni delle popolazioni”. Clemenceau permette, in marzo, che la divisione interalleata sbarcata a Odessa agli ordini di un generale francese, intraprenda un’offensiva contro l’Ucraina; ma un mese dopo acconsente all’evacuazione di Odessa, perché nel frattempo era avvenuto l’ammutinamento della flotta del mar Nero. Tutti e quattro esprimono, in gennaio, la stessa diffidenza nei confronti Kolčak, ma tutti e quattro finiscono, alla fine di maggio, col promettergli aiuto.»

 

È noto come poi sono andate le cose. Abbandonata Omsk il 13 novembre, alla vigilia della sua caduta, il Capo supremo giunse a Irkutsk troppo tardi, quando, alla fine di dicembre, in questa città si era formato un Centro politico dominato dai Socialisti rivoluzionari, che avevano con lui un conto aperto e che lo dichiararono decaduto; così, ai primi di gennaio, egli si dimise dall’ormai inutile carica e la trasmise a Denikin.

In quel momento il treno sul quale viaggiava era stato preso in consegna dai Cecoslovacchi, i quali erano a loro volta in procinto di lasciare la Siberia per l’Europa, via Vladivostok, e, politicamente vicini ai socialisti rivoluzionari, dei quali condividevano le idee, non avevano alcuna simpatia per lui, tanto più che il suo esercito  si era macchiato di atrocità che gli avevano alienato la popolazione civile, anche se egli, personalmente, non ne era responsabile. La vicinanza delle truppe a lui ancora fedeli, comandate dal generale Kappel, decise la sua fine, come già era avvenuto per lo Zar Nicola II e la sua famiglia, un anno e mezzo prima (il 17 luglio 1918, a Ekaterinburg, sul versante asiatico degli Urali).  Consegnato dai Cecoslovacchi al Centro politico il 14 gennaio, dopo che gli era stato promesso di affidarlo invece ai Britannici, venne interrogato, processato e condannato a morte dopo che, il giorno 20, i bolscevichi avevano preso il potere a Irkutsk. L’ordine era giunto direttamente da Mosca  e l’esecuzione ebbe luogo il 7 febbraio 1920, mediante fucilazione; il suo corpo, insieme a quello del suo ministro degli Esteri, V. Pepeljaev, venne poi gettato nelle acque ghiacciate di un fiume che scorre nei pressi della città.

Mentre i Rossi si avvicinavano a Irkutsk da ogni pare, alle truppe di Kappel, abbandonate a se stesse e demoralizzate, non restò che affrontare la traversata a piedi del Lago Bajkal, con i malati, i feriti e con le famiglie, per mettersi in salvo nel territorio ancora controllato da Semenov, l’amico dei Giapponesi: ma molti non vi arrivarono mai, perché, congelati dai venti furiosi del Nord, furono trasformati in statue di ghiaccio. Questa pagina tragica e poco conosciuta, degna di un poema epico, è passata alla storia come la Grande marcia nel ghiaccio siberiano. I soldati di Kappel erano circa 30.000 uomini, più un numero imprecisato di civili. Quanti furono i morti non si è potuto appurare, perché in primavera, con il disgelo, i cadaveri sono scivolati nelle acque profondissime del lago, dove riposano per sempre.

È cosa fin troppo nota che le ragioni della politica e la condotta morale non vanno molto d’accordo. Resta da chiedersi se gli Alleati, e soprattutto i Britannici, agendo come agirono nei confronti dell’ammiraglio Kolčak, non abbiano commesso, oltre che un atto moralmente discutibile, anche un tremendo errore politico. Un errore pagato a caro prezzo, prima dalla Russia e poi dal mondo intero.