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Le diverse dimensioni della moralità

di Umberto Curi - 27/04/2014

Fonte: Corriere della Sera




A Venezia, nel sestiere di San Polo, nel muro sopra al numero civico 2.935, si trova un altorilievo raffigurante un volto femminile, chiamato Donna Onesta , termine traslato al vicino ponticello in ghisa che congiunge i sestieri di Dorso Duro e San Polo. Sull’origine di questa denominazione — una fra le più curiose nella pur variegata toponomastica veneziana — ricorrono interpretazioni diverse. Secondo una prima versione, due amici stavano discutendo vicino al ponte riguardo all’onestà della donna. Uno dei due, per manifestare la sua disistima del genere femminile, indicò all’amico l’immagine in marmo del volto della donna visibile sul muro lì vicino, sostenendo che quella era la sola donna sulla cui onestà si potesse scommettere. Più truce, ma non necessariamente più verosimile, la seconda ipotesi. Presso il ponte che si chiamerà della Donna Onesta lavorava uno spadaio, coniugato con una giovane di rara bellezza. Invaghitosi della donna, un patrizio aveva commissionato allo spadaio un coltello. Entrato nella bottega in assenza del marito, il patrizio aveva stuprato la giovane, suscitando in lei un profondo senso di vergogna che la indusse a togliersi la vita, servendosi del pugnale fabbricato dal suo consorte. Più maliziosa, e meno tragica, la terza spiegazione. Il nome deriverebbe dal fatto che nei paraggi del ponte esercitava il più antico mestiere del mondo una meretrice, nota per praticare tariffe ragionevoli, e dunque per un trattamento «onesto» dei propri clienti.
Indipendentemente dalla loro intrinseca plausibilità, e dalle loro differenze, gli esempi ora riferiti convergono nell’indicare un aspetto di particolare rilevanza, e cioè la polisemia del termine «onestà», l’impossibilità di ridurne ad uno il significato. Come è confermato, d’altra parte, dagli usi linguistici nei due ambiti della lingua anglosassone e delle lingue neolatine. Mentre, infatti, nel primo caso honest descrive principalmente l’attitudine a dire la verità, a non ingannare, e coincide perciò con quella che potremmo chiamare onestà intellettuale, nelle lingue romanze il termine è connesso all’aspetto commerciale o economico, e dunque designa un comportamento immune dalla frode o dalla corruzione.
Muovendo da questo riconoscimento, in un saggio ammirevole per la ricchezza dei temi affrontati e per l’originalità del taglio analitico prescelto (Onestà , Raffaello Cortina, pp. 166, € 12), Francesca Rigotti esplora i «molti sensi» di un concetto più complesso e perfino misterioso, di quanto abitualmente si pensi. E lo fa attraversando periodi storici, contesti culturali, universi concettuali diversi, dal protocristianesimo agli enciclopedisti francesi, da Cicerone a Hume, dal nesso onestà-verità fino alla descrizione dei requisiti che fanno di un personaggio un eroe (o un’eroina) dell’onestà. Riprendendo e ulteriormente sviluppando l’approccio di un suo libro risalente al 1998 (L’onore degli onesti , Feltrinelli), l’autrice ricostruisce il percorso che ha condotto ad una graduale contrazione nel significato del termine onestà, giunto ormai a identificarsi con la sola dimensione economica. In omaggio all’estrema limpidezza con la quale è costruito (calzante esempio di onestà intellettuale), il libro si articola in tre parti fondamentali, dedicate rispettivamente all’inquadramento del fenomeno dell’onestà nel linguaggio quotidiano, all’analisi della genealogia storica del concetto, e infine ad una tematizzazione calibrata sull’analisi di alcune coppie concettuali.
Fra i numerosissimi spunti offerti dal testo, due filoni di riflessione appaiono particolarmente pregnanti. Il primo, adombrato nell’aneddoto ricordato in apertura, riguarda la questione dell’onore delle donne, a cui Rigotti dedica tre intensi paragrafi. La scelta di impostare questo tema richiamandosi a Così fan tutte di Mozart-Da Ponte, di per sé appropriata, rinvia tuttavia ad un interrogativo ancor più radicale, relativo alla genesi della communis opinio posta alla base del melodramma. Quale — presunto — fondamento si può invocare (ed è stato effettivamente invocato) per mettere in discussione «la fede delle femmine»? Perché l’onesta condotta delle donne viene fatta consistere sempre e solo nella loro purezza? A domande di questo genere, la risposta più immediata, e per certi aspetti anche più appropriata, è quella che rinvia alla persistenza di un tenace pregiudizio antifemminile, secondo il quale la donna è sesso «debole», non solo e non tanto perché disponga di una minor forza fisica, rispetto al maschio, ma per la sua arrendevolezza alle insidie del sesso.
Questo stesso pregiudizio — ben lungi dal potersi dire del tutto superato al giorno d’oggi — esige d’altra parte di essere in qualche modo spiegato, o almeno ricondotto alla sua più appropriata matrice culturale, che risale ben oltre il melodramma mozartiano. Per questa via, si potrebbe scoprire che in buona parte del mondo greco classico (e prima ancora, in quello arcaico) l’imputazione principale attribuita alle donne si compendia nel termine machlosyne . Le donne — o, meglio, le femmine, visto che questa accusa è rivolta indistintamente ad ogni espressione animale del genere femminile — sono lascive. Storici e logografi, medici, drammaturghi e poeti, concordano nel ritenere che il primo e più importante principio di individuazione del sesso femminile sia l’incapacità di resistere al richiamo erotico. Come risulta, ad esempio, dalla denuncia di Oppiano, il quale descrive indignato le pratiche libidinose di orse e coniglie, disposte ad affrettare il parto, pur di soddisfare il loro sfrenato appetito sessuale. O come è confermato dall’immagine di Pandora, la prima donna, quale emerge dai versi di Esiodo: di aspetto soave e seducente, ma provvista di un’«anima di cagna». O, infine, come è pur indirettamente ribadito dal mito di Pigmalione, il quale rifugge l’amore delle donne, perché scandalizzato dalla loro lascivia, e cerca conforto nella pura bellezza di una statua muliebre da lui stesso costruita. Dove è evidente il tentativo di legittimare (ovviamente, senza riuscirvi) con una presunta motivazione «biologica» la misoginia largamente diffusa nelle società antiche.
D’altra parte, assumendo la prospettiva ora delineata, si comprende per quali motivi le tre figure di «eroine dell’onestà», richiamate nel libro, in realtà corrispondano a personaggi femminili in modi diversi vittime della brutale inclinazione allo stupro da parte di altrettanti uomini senza scrupoli né moralità. Eroine sono dunque (al di là delle differenze) Lucrezia, «onesta moglie di Collatino», di cui scrive Tito Livio, la giovane Pamela, del romanzo omonimo di Samuel Richardson, e Maria Goretti, assurta alla gloria degli altari, per il fatto che, in modi diversi, hanno saputo resistere alle tentazioni del sesso, fino all’estremo sacrificio. Quando è declinata al femminile, l’onestà coincide insomma con la purezza, nel caso di una vergine, o con la fedeltà, nel caso di una donna coniugata. Senza alcun riferimento all’accezione «economica» del termine.
Di tutt’altro segno il secondo ordine di problemi, pertinenti alla sfera politica. Nell’estrema concisione dei riferimenti a questa peculiare accezione dell’onestà, si può cogliere un sia pur velato fastidio dell’autrice per quel vero e proprio pervertimento di valori, che ha di fatto espulso l’onestà dall’ambito della politica. Fino ad accreditare l’insana idea che, per poter essere conforme alle regole della politica, una condotta non possa che essere disonesta. Approdo — questo — malinconico e deprimente. Al quale, con un condivisibile scatto di trattenuta indignazione (e forse — pare di intuire — di personale immedesimazione), Rigotti contrappone la figura di William Stoner, un «eroe normale», il professore protagonista del romanzo di John Williams (Stoner , Fazi), incrollabile nel rifiutarsi di barattare la sua onestà per un avanzamento di carriera accademica.