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Europa Mercato o Europa Politica

di Alain de Benoist - 01/05/2014

 

Signore e signori, amici cari,

ancora un quarto di secolo fa, l’Europa appariva come la soluzione a tutti i problemi. Oggi viene invece percepita come un problema che va ad aggiungersi agli altri. Per effetto della disillusione piovono critiche da ogni dove, e alla commissione europea si rimprovera di tutto e di più: di moltiplicare i contrasti, d’ingerire in questioni che non le competono, di voler punire chiunque, di paralizzare le istituzioni, di essere organizzata in maniera incomprensibile, di mancare di legittimità democratica, di annientare la sovranità dei popoli e delle nazioni, e di non essere più nient’altro che una macchina per non governare. Nella maggior parte dei paesi, le opinioni positive sull’Unione Europea sono in caduta libera da almeno dieci anni. La proporzione di coloro che, in Francia, ritengono che “l’appartenenza all’Unione sia un male” è perfino salita dal 25 % nel 2004 al 41 % nel 2013. Ancor più di recente, un sondaggio Ipsos rivelava che il 70 % dei francesi desidera “limitare i poteri dell’Europa”.
È un fatto assodato che oggi l’UE attraversi una crisi di legittimità senza precedenti. Ed è un ulteriore fatto che lo spettacolo da essa offerto non abbia nulla di entusiasmante. Ma come siamo arrivati a tutto questo?

La “decostruzione” dell’Europa comincia all’inizio degli anni Novanta, con i dibattiti in merito alla ratificazione del trattato di Maastricht. È a partire da quest’epoca che l’avvenire dell’Europa è apparso altamente problematico e che numerosi europei hanno iniziato a perdere la fiducia. Nel momento in cui la globalizzazione dava origine a ulteriori timori, la gente si è resa conto che “L’Europa non garantiva un miglior poter d’acquisto, un miglior regolamento di scambi commerciali nel mondo, una diminuzione delle delocalizzazioni, un regresso della criminalità, una stabilizzazione di mercati del lavoro o un controllo più efficace dell’immigrazione. Anzi al contrario”.  La costruzione europea è apparsa, dunque, non come un rimedio alla globalizzazione, quanto invece una tappa della globalizzazione stessa.
Fin dagli albori, la costruzione dell’Europa si è sviluppata a discapito del buonsenso, e sono stati commessi quattro errori: 1) Essere partiti dall’economia e dal commercio anziché partire dalla politica e dalla cultura, immaginando che per un effetto di rimbalzo, la cittadinanza economica si sarebbe automaticamente tradotta in quella politica. 2) Aver voluto creare l’Europa a partire dall’alto, anziché dal basso. 3) Aver puntato su un allargamento frettoloso a paesi poco preparati all’ingresso in Europa, preferendolo a un approfondimento delle strutture politiche già esistenti. 4) Non aver mai voluto prendere una decisione chiara in merito alle frontiere dell’Europa e alle finalità della costruzione europea.

Ossessionati dall’economia, i padri fondatori delle Comunità Europee hanno deliberatamente lasciato da parte la cultura. Il loro progetto originario mirava a fondere le nazioni in aree d’azione del tutto nuove in un’ottica funzionalista. Per Jean Monnet e i suoi amici, si trattava di pervenire a un mutuo intrecciarsi di economie nazionali, tale da rendere necessaria l’unione politica nel rivelarsi meno costosa della disunione. Non dimentichiamo d’altronde che il primo nome dell’“Europa” fu quello di “Mercato comune”. Questo iniziale economismo ha finito per favorire la deriva liberale delle istituzioni, oltre alla lettura essenzialmente economica delle politiche pubbliche che sarà effettuata a Bruxelles. Ben lungi dal preparare l’avvento di un’Europa politica, l’ipertrofia dell’economia ha rapidamente portato alla spoliticizzazione, alla consacrazione del potere degli esperti, e in ultima analisi all’applicazione di strategie tecnocratiche.

Nel 1992 con il trattato di Maastricht si è passati dalla Comunità Europea all’Unione Europea. Questo slittamento semantico è anch’esso rivelatore, essendo naturalmente ciò che è “unito” meno forte di ciò che è “comune”. L’Europa di oggi è, dunque, prima di tutto l’Europa dell’economia e delle logiche di mercato, secondo il punto di vista delle élite liberali che la vorrebbero semplicemente come un vasto supermercato obbediente in maniera esclusiva alla logica del capitale.

Il secondo errore, come ho già detto, è stato quello di voler creare l’Europa a partire dall’alto, ovvero a partire dalle istituzioni di Bruxelles. Nelle intenzioni dei fautori del “federalismo integrale”, una sana logica avrebbe al contrario voluto che si partisse dal basso, dal quartiere e dal vicinato verso il comune, dal comune o dall’agglomerato urbano verso la regione, dalla regione verso la nazione, dalla nazione verso l’Europa. Il che avrebbe permesso in particolar modo l’applicazione rigorosa del principio di sussidiarietà. La sussidiarietà esige che l’autorità superiore intervenga nei soli casi in cui l’autorità inferiore sia incapace di farlo (è il principio di competenza sufficiente). Nell’Europa di Bruxelles, dove una burocrazia centralizzatrice tende a regolamentare ogni cosa attraverso le sue direttive, l’autorità superiore interviene ogni volta si ritiene in grado di farlo, con il risultato che la Commissione decide su tutto in quanto si giudica onnicompetente.

La denuncia di rito, da parte dei sovranisti, dell’Europa di Bruxelles quale “Europa federale” non deve quindi trarre in inganno: per via della sua tendenza ad attribuirsi autoritariamente tutte le competenze si costruisce al contrario su un modello ampiamente giacobino. Ben lungi dall’essere “federale”, è anche giacobina all’estremo, in quanto coniuga autoritarismo punitivo, centralismo e opacità.

Il terzo errore è consistito nell’allargamento sconsiderato dell’Europa, quando invece sarebbe stato necessario privilegiare l’approfondimento delle strutture già esistenti, aprendo al tempo stesso un dibattito politico in tutta Europa per tentare di stabilire una posizione consensuale in merito alle sue finalità. Tutto ciò si è visto in maniera particolare al momento dell’allargamento ai paesi dell’Europa centrale e orientale. La maggior parte di questi paesi hanno chiesto di aderire all’Unione Europea solo per beneficiare della protezione della NATO. Parlavano di Europa, ma non sognavano altro che l’America! Da tutto ciò sono risultate una diluizione e una perdita di efficacia che hanno rapidamente convinto tutto il mondo che un’Europa a venticinque o a trenta era semplicemente ingestibile, opinione ancor più rafforzata da inquietudini culturali, religiose e sociali legate alle prospettive di adesione della Turchia.

Tenuto conto della disparità dei livelli economici, delle condizioni sociali e dei sistemi fiscali, l’allargamento frettoloso dell’Unione Europea ha inoltre scatenato una spinta ricattatoria alle delocalizzazioni a svantaggio dei lavoratori. Ed è infine stato una delle cause principali della crisi dell’euro, a riprova che l’introduzione di una moneta unica, lungi dal favorire la convergenza delle economie nazionali in Europa, ha invece finito per aggravarla al punto da renderla intollerabile.

La sovranità europea risulta ormai introvabile, mentre le sovranità nazionali non sono più altro che ricordi. In altri termini, sono state decostruite le nazioni senza costruire l’Europa. Un paradosso che si spiega quando si è compreso che l’Unione Europea non ha soltanto voluto mettere l’Europa al posto delle nazioni, ma anche sostituire alla politica l’economia, al governo degli uomini l’amministrazione delle cose. L’Unione Europea ha fatto proprio un liberalismo fondato sul primato dell’economia e della volontà di abolire la politica “spoliticizzando” la gestione governativa, vale a dire creando le condizioni in cui ogni ricorso a una decisione propriamente politica diviene inopportuno, se non impossibile.

A questo orientamento liberale va ad aggiungersi una crisi morale. Ossessionata dall’universalismo di cui è stata per molto tempo vettore, l’Europa ha introiettato un senso di colpa e di negazione di sé che ha finito per plasmare la sua visione del mondo, divenendo inoltre l’unico continente che si vuole “aperto all’apertura” senza considerare ciò che a sua volta potrebbe apportare agli altri.

È un fatto assodato che l’Europa, fin dalle sue origini, si sia industriata a concettualizzare l’universale, e che abbia voluto fare di sé nel bene e nel male una “civiltà dell’universale”. Ma “civiltà dell’universale” e “civiltà universale” non sono sinonimi. Secondo un bell’adagio spesso citato, l’universale, nel miglior senso del termine, è “il locale meno le mura”. Ma l’ideologia imperante ignora la differenza fra “civiltà universale” e “civiltà dell’universale”. Su istanza dei suoi rappresentanti, l’Europa è stata destinata all’ignoranza di sé – e alla “ripugnanza” per tutto ciò di cui è ancora autorizzata a ricordarsi -, mentre la religione dei diritti dell’uomo universalizzava l’idea della Inseità. Inoltre, un umanesimo privo di orizzonti si è posto a giudice della storia, facendo assurgere l’indistinzione quale ideale redentore, e mettendo incessantemente sotto processo l’appartenenza che rende singolari. Come ha affermato Alain Finkielkraut: «ciò significa che, per non escludere più chicchessia, l’Europa deve disfarsi di se stessa, “de-originarsi”, conservare della propria tradizione nient’altro che l’universalità dei diritti dell’uomo […] Noi non siamo nulla, è la condizione preliminare perché non siamo chiusi a niente e a nessuno». «Vacuità sostanziale, tolleranza radicale», ha potuto dire nello stesso spirito il sociologo Ulrich Beck – allorché è al contrario il senso di vuoto a rendere allergici a tutto.

Unici al mondo, i dirigenti europei rifiutano di pensare a se stessi come garanti di una storia, di una cultura, di un destino collettivo. Sotto la loro influenza, l’Europa ripete di continuo che il suo stesso passato non ha niente da dirle. Le banconote euro lo dimostrano alla perfezione: non vi si vede altro che strutture vuote, architetture astratte, mai un paesaggio, mai un volto. L’Europa vuol sfuggire alla storia in generale, e alla sua in particolare. Impedisce a se stessa di affermare ciò che è, e non vuol neanche porsi la questione della propria identità per paura di “discriminare” questo o quel suo componente. Quando essa proclama il proprio attaccamento a dei “valori”, è per sottolineare soprattutto che tali valori non le appartengono in quanto suoi, dal momento che si presume che tutti i popoli abbiano gli stessi. Questo accento posto sui “valori” anziché sugli “interessi”, gli obiettivi, o la volontà di sovranità politica è rivelatore di un’impotenza collettiva. L’Europa non sa assolutamente cosa vuol fare. E del resto non se ne pone neanche la domanda, perché a quel punto dovrebbe riconoscere che non vuole nulla. E perché non vuole nulla? Perché non sa più e non vuol più sapere cos’è.

Le conseguenze sono spaventose. Nell’ambito dell’immigrazione, l’Unione Europea si è dotata di una politica di armonizzazione alquanto generosa per i migranti che ormai nessuno Stato può più modificare. In ambito commerciale e industriale, è stato lo stesso rifiuto di ogni “santuarizzazione” a prevalere. La soppressione di ogni ostacolo al libero scambio si è tradotta nell’arrivo massiccio in Europa di beni e servizi fabbricati a basso costo nei paesi emergenti che praticano il dumping sotto ogni forma (sociale, fiscale, ambientale, ecc.), mentre il sistema produttivo europeo si delocalizza sempre più verso i paesi situati al di fuori dell’Europa, aggravando così la deindustrializzazione, la disoccupazione e i deficit commerciali.

La politica estera è il rovescio della medaglia della sovranità nazionale. Dal momento che l’Unione Europea non costituisce un corpo politico, non può ovviamente avere una politica estera comune, ma tutt’al più un’aggregazione congiunturale di diplomazie nazionali accompagnata da una politica “verso l’estero” derivata dalle competenze “comunitarie”. Che sia a proposito dell’intervento americano in Iraq, della guerra in Libia, in Mali o in Siria, che sia riguardo alla Russia o al Medio Oriente, alla Palestina, al Kosovo o più recentemente alla Crimea, gli europei sono stati sempre incapaci di adottare una posizione comune, accontentandosi di allinearsi in maggioranza sulle posizioni americane. Non percependo interessi comuni, non saprebbero neanche avere una volontà comune o una strategia comune.

E tuttavia, malgrado le delusioni suscitate fin qui dalla costruzione europea, un’Europa politicamente unita resta comunque più che mai necessaria. Perché questo? Prima di tutto per permettere a popoli europei da troppo tempo lacerati da guerre e conflitti o rivalità di ogni sorta di riprendere coscienza della loro comune appartenenza a una stessa area di cultura e civiltà e di assicurarsi un destino comune senza mai più doversi contrapporre. Ma anche per ragioni strettamente legate al momento storico che stiamo vivendo.

All’epoca del sistema di Yalta, quando il mondo era dominato dal duopolio americano-sovietico, l’emergere di una terza potenza europea era già una necessità. Questa necessità si rivela ancor più pressante dall’affondamento del sistema sovietico: in un mondo ormai frantumato, solo un’Europa unita può permettere ai popoli che la compongono di rivestire un ruolo a loro misura nel mondo. Per porre fine al dominio della superpotenza americana, occorre restituire al mondo una dimensione multipolare. Ecco un’altra ragione per fare l’Europa.

La globalizzazione, generando un mondo senza l’altro da sé, dove lo spazio e il tempo sono virtualmente aboliti, consacra al tempo stesso l’impotenza crescente degli Stati nazione. Nell’epoca della modernità tardiva – o della postmodernità nascente – lo Stato nazione, entrato in crisi negli anni Trenta, diventa ogni giorno più obsoleto, mentre continuano a crescere i fenomeni transnazionali. Non è che lo Stato abbia perduto tutti i suoi poteri, ma non può più far fronte a imprese che oggi si estendono in scala planetaria, a partire da quelle del sistema finanziario. In un universo dominato dall’incertezza e dai rischi globali, nessun paese può sperare di venire a capo da solo dei problemi che lo riguardano. In altri termini, gli Stati nazionali non sono più le entità primarie che permettono di risolvere i problemi nazionali. Troppo grandi per rispondere alle attese quotidiane dei cittadini, sono al tempo stesso troppo piccoli per far fronte alle sfide e agli obblighi planetari. Il momento storico che stiamo vivendo è quello dell’azione locale e dei blocchi continentali.

In un simile contesto, i “sovranisti” appaiono come uomini che sviluppano spesso delle buone critiche, ma che non portano buone soluzioni. Quando denunciano (non senza ragione) il carattere burocratico e tecnocratico delle decisioni prese a Bruxelles, risulta per esempio facile risponder loro che i burocrati e i tecnocrati degli attuali Stati-nazione non sono certo migliori. Quando criticano l’atlantismo dell’Unione Europea, è altrettanto facile far loro osservare che i governi nazionali si orientano esattamente nella stessa direzione. Assistiamo oggi a un vasto movimento di omogeneizzazione planetaria, che tocca tanto la cultura quanto l’economia e la vita sociale, e  l’esistenza degli Stati-nazione non lo ostacola in alcun modo. I vettori di tale omogeneizzazione nazionale si fanno beffe delle frontiere, e sarebbe un grave errore credere che vi si possa far fronte puntandovi contro. La maggior parte delle critiche indirizzate all’Europa sarebbero dunque altrettanto giustificate in scala nazionale.

Altre critiche sono contraddittorie. Così, sono spesso gli stessi a deplorare l’impotenza politica dell’Europa (riguardo a questioni quali la guerra del Golfo, il conflitto nell’ex Iugoslavia, e così via) e che rifiutano categoricamente di concedere deleghe di poteri necessarie all’instaurazione di un autentico governo politico europeo, l’unico in grado di prendere in materia di politica estera le decisioni che s’impongono.

L’argomento della “sovranità” delle nazioni non ha miglior fortuna. Quando diciamo che l’Unione Europea implica delle rinunce alla sovranità nazionale, dimentichiamo che già da molto tempo gli Stati-nazione hanno perduto la loro capacità di decisioni politiche in tutti i campi più rilevanti. Nell’era della globalizzazione, sono detentori di una semplice sovranità nominale. L’impotenza dei governi nazionali di fronte ai movimenti dei capitali, al potere dei mercati finanziari, alla mobilità senza precedenti del capitale, è oggi evidente. Occorre prenderne atto per cercare le maniere d’instaurare una nuova sovranità al livello in cui abbia la concreta possibilità di esercitarsi, vale a dire precisamente a livello europeo. Altro, ulteriore motivo per fare l’Europa.

Una delle ragioni profonde della crisi della costruzione europea è che, a quanto pare, nessuno è in grado di rispondere alla domanda: cos’è l’Europa? Le risposte non mancano certo, ma sono perlopiù convenzionali e nessuna risulta unanime. Orbene, la risposta alla domanda: cos’è l’Europa? condiziona la risposta a un’altra domanda: cosa dev’essere?

Tutti sanno bene, infatti, che non vi è alcuna comune misura fra un’Europa che cerchi di costituirsi come potenza politica autonoma sovrana, con delle frontiere chiaramente definite e delle istituzioni politiche comuni, e un’Europa che non sarebbe altro che un vasto mercato, uno spazio di libero scambio aperto ai “grandi orizzonti”, destinato a dissolversi in uno spazio illimitato, in larga misura spoliticizzato o neutrale, funzionante soltanto attraverso meccanismi di decisione tecnocratici e intergovernativi. L’allargamento frettoloso dell’Europa e l’incertezza esistenziale che pesa oggi sulla costruzione europea hanno fin qui favorito il secondo modello, d’ispirazione “anglosassone” o “atlantica”. Ora, scegliere fra i due modelli significa anche scegliere fra la politica e l’economia, fra la potenza della Terra e la potenza del Mare. Purtroppo, coloro i quali si occupano della costruzione europea non hanno, in generale, la benché minima idea in materia geopolitica. L’antagonismo delle logiche terrestri e marittime sfugge loro completamente.

Il generale de Gaulle, nel 1964, aveva perfettamente definito il problema quando aveva dichiarato: «Secondo noi francesi occorre che l’Europa si faccia per essere europea. Un’Europa europea significa che essa esiste da sé e per sé, ovvero che al centro del mondo abbia la propria politica. Orbene, è proprio questo ciò che taluni respingono, consapevolmente o inconsapevolmente, pur sostenendo di volerne la realizzazione. In fondo, il fatto che l’Europa, non avendo una politica, resterebbe assoggettata a quella dettatale dall’altra sponda dell’Atlantico, pare loro, ancora oggi, normale e soddisfacente”.

L’Europa è un progetto di civiltà o non è niente. A tale titolo, essa implica una certa idea dell’uomo. Questa idea è ai miei occhi quella di una persona autonoma e radicata, respingendo con un sol gesto l’individualismo e il collettivismo, l’etnocentrismo e il liberalismo. L’Europa che desidero con tutto me stesso è dunque quella del federalismo integrale, il solo in grado di realizzare dialetticamente il necessario equilibrio fra autonomia e unione, fra unità e diversità. Su tali basi, è certo che l’Europa dovrebbe avere per ambizione quella di essere a un tempo potenza sovrana in grado di difendere i propri interessi specifici, polo di regolazione della globalizzazione in un mondo multipolare, e progetto originale di cultura e civiltà.

Per il momento, ce ne rendiamo ben conto, la situazione è bloccata. Vogliamo l’Europa della cultura, e abbiamo quella dei tecnocrati. Subiamo gli inconvenienti dell’introduzione di una moneta unica senza raccoglierne i vantaggi. Vediamo le sovranità nazionali scomparire senza l’affermarsi della sovranità europea di cui abbiamo bisogno. Vediamo l’Europa comportarsi da ausiliaria, e non da avversaria della globalizzazione. La vediamo legittimare delle politiche di austerità, la politica del debito e la dipendenza dai mercati finanziari. La vediamo dichiararsi solidale con l’America nella sua nuova guerra fredda con la Russia, e pronta a firmare con gli americani un accordo commerciale transatlantico che ci ridurrebbe alla loro mercé. La vediamo colpita da amnesia, dimentica di se stessa, e pertanto incapace di trarre dal suo passato dei motivi per proiettarsi verso l’avvenire. La vediamo rifiutarsi di trasmettere quanto ha ereditato, la vediamo incapace di formulare un grande progetto collettivo. La vediamo uscire dalla storia, a rischio di divenire oggetto della storia di altri.

Come uscire da questo blocco? È il segreto del futuro. Qua e là vediamo delinearsi delle alternative, tutte meritevoli di essere studiate, pur sapendo che abbiamo i tempi contati. Ho spesso citato queste parole di Nietzsche, secondo cui: «L’Europa si farà solo sull’orlo di una tomba”. Nietzsche, lo sappiamo, si appellava anche ai “buoni europei”. Ebbene, vediamo di essere dei “buoni europei”: lanciamo a nostra volta un appello affinché si manifesti finalmente lo Stato europeo, il dominio europeo, l’Europa autonoma e sovrana che vogliamo forgiare e che ci eviterà la tomba.

Viva l’Europa, amici miei! Vi ringrazio.

Alain de Benoist.
Simposio Europa-mercato o Europa-potenza del 26 aprile 2014

TRADUZIONE DAL FRANCESE DI MARCO ZONETTI