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L’empirismo analitico di Bertrand Russell è il suicidio finale della «Philosophia perennis»

di Francesco Lamendola - 01/05/2014


 

 


 

Se Bertrand Russell sia stato un grande filosofo è cosa controversa: per i suoi ammiratori la sua figura si dilata fino ad assumere proporzioni gigantesche e diventare quella di un genio, di un filantropo, di un apostolo dell’umanità; per altri, è stato un buon matematico, ma un pensatore quanto mai sopravvalutato, l’esponente di un empirismo logico dalle vedute ristrette e tuttavia pretenzioso, che ha affossato quel poco che ancora sopravviveva della tradizione filosofica classica in nome di un riduzionismo logico che sconfina nel puro nominalismo.

Che egli sia passato dal platonismo al riduzionismo logico e linguistico più rigorosi, convertito dalla logica matematica di Peano sulla via di Damasco del realismo intransigente, sì da considerare fanatismo o ciarlataneria qualsiasi tentativo di fondare una filosofia dei valori, è cosa che non stupisce più di tanto: tutti hanno il diritto di cambiare idea e non a chiunque si può chiedere la stessa coerenza speculativa di un Berkeley – da Russell deriso volentieri -, il quale dai vent’anni in poi non ha fatto che rielaborare sempre la stessa idea di fondo, l’immaterialismo spiritualistico; colpisce, semmai, la violenza e l’acrimonia con le quali si scaglia contro le concezioni alle quali aveva aderito in gioventù, quand’era sotto la guida dell’idealista Bradley. Ma anche questa non è cosa che debba fare troppa meraviglia, perché lo zelo del neofita è una costante psicologica che si spiega con il desiderio di allontanare da sé ogni sospetto di nutrire ancora qualche residuo o “impurità” delle idee precedenti e, quindi, di non essere abbastanza credibile nel ruolo attuale, il che conduce inevitabilmente a un eccesso di zelo. Neppure sorprende eccessivamente, infine, il fatto che Russell se la prenda tanto calda nei confronti dei “fanatici”, ossia di tutti quei pensatori che, a suo dire, con un modo di pensare troppo idealista, troppo assoluto e troppo monolitico, ostacolano il progresso della ricerca; salvo cadere egli stesso in una specie di fanatismo al contrario, in una specie di conformismo dell’anticonformismo. Anche questo è tipico e potremmo chiamarlo il complesso, da parte del neo-convertito, di voler essere più realista del re, senza rendersi conto di riprodurre in sé le stesse dinamiche di pensiero che egli depreca negli altri.

Quello che fa veramente impressione, nella filosofia di Russell, è l’immensa presunzione e l’altrettanto macroscopica superficialità con cui pretende di affrontare di petto i capisaldi della tradizione filosofica classica, specialmente metafisica; e la banalità e povertà dei metodi con cui si vanta di averla confutata, in nome di un assoluto rigore logico ed epistemologico che, in realtà, esiste più nelle sue intenzioni che nei fatti. Quando passa con disinvoltura dal campo della logica matematica a quello dell’etica, della politica e della filosofia della religione, il suo riduzionismo lo porta a delle semplificazioni strabilianti, a delle approssimazioni sconcertanti, a tutta una serie di affermazioni gratuite e talvolta balorde, spacciate però come qualcosa di assolutamente logico e di ampiamente dimostrato, anzi, di “scientificamente” dimostrato. Crede di essere un grande pensatore e ritiene che ciò lo autorizzi a mostrarsi sempre caustico e irridente nei confronti di tutto e di tutti, tranne che verso la sua stessa concezione filosofica, che egli prende straordinariamente sul serio e di cui intona le lodi con disinvolta partecipazione.

La filosofia, per Russell, deve sforzarsi di assomigliare il più possibile alla scienza, e specialmente alla matematica; deve bandire tutto ciò che non è riducibile alla pura enunciazione e alla possibilità di dimostrazione logico-matematica; deve adottare i procedimenti della logica formale moderna e scordarsi, una volta per tutte, qualunque tentativo di spiegazione complessiva del reale: in breve, deve suicidarsi, deve sopprimersi, e chiamare allegramente ciò che rimane dopo un tale suicidio la vera e sola filosofia possibile, e andar fiera di tale auto-castrazione. Più rigoroso di Hume e di Kant messi insieme, si rifiuta di accordare la minima validità, anzi di prendere affatto in considerazione qualunque proposizione che non sia riducibile al modello di una proposizione matematica. Non solo: egli è convinto di essere un paladino, una specie di crociato del neopositivismo, mandato dalla Provvidenza a liberare il mondo dalle superstizioni, alle false credenze e, ancora una volta, dai malvagi fanatismi che affliggono l’umanità e che tanti dolori hanno causato nel corso della storia.

Ci sono alcuni altri aspetti caratteristici dell’atteggiamento filosofico di Russell: un insopprimibile istrionismo, coniugato a un narcisismo intellettuale che lo spinge a dire continuamente “io”, “per me”, “quanto me”, e a reclamizzare la sua filosofia come la migliore fra tutte; la sua propensione alla battuta caustica, allo sberleffo, alla linguaccia: quando vuole mettere in cattiva luce i pensatori che non gli piacciono, non si perita di tirare qualunque colpo basso, mettendo in scena tutto il repertorio dei peggiori aneddoti sulla vita privata e sforzandosi, nel medesimo tempo, di strappare una risata al pubblico. Prima egli fa di tutto per ridicolizzare l’avversario, poi lo sbaraglia sul piano logico con pacato, misurato distacco, mostrandone le palesi contraddizioni e le incredibili debolezze speculative. È così che, da un ciclo di conferenze tenuto nelle università statunitensi dal 1927 al 1932, prese forma quel monumentale libello che è la «Storia della filosofia occidentale», in cui, contrariamente a tutto quanto ha sostenuto circa la necessità di una speculazione il più possibile scientifica e oggettiva, mostra di non saper scrivere una sola pagina di storia del pensiero, senza mescolare all’esposizione delle idee e dei sistemi altrui i suoi personali pregiudizi, le sue preferenze e le sue idiosincrasie, il tutto con una disinvoltura perfino disarmante.

Russell è fermamente, fermissimamente convinto di essere nel giusto, sempre e comunque; di avere le carte in regole per impancarsi a giudice dell’umanità (vedi l’istituzione del cosiddetto Tribunale Russell per la punizione dei crimini di guerra); e, nello steso tempo, è assolutamente certo di essere la persona più modesta e discreta, nonché l’esponente della filosofia più mite e meno ambiziosa che sia mai stata formulata nella storia. Crede anche di essere particolarmente spiritoso: quando fa le sue mediocri battute, sembra unirsi anche lui alle risate, convinto di averne dette di buonissime, di sapide, di irresistibili: e può darsi che, per quel certo tipo di pubblico americano, lo fossero. Ma è noto che, nell’ambiente culturale americano, anche universitario, a volte basta dire le cose più scontate e banali, ma con una cert’aria d’importanza mista ad una buona dose di lepidezza, per lasciare il pubblico letteralmente incantato e sentirsi complimentare con frasi come: «Oh, you are a philosopher!», con visibile e commossa ammirazione. Non è un pubblico molto esigente ed è facile, per un conferenziere europeo, inorgoglirsi per quei trionfi e perdere il senso delle proporzioni, oltre a quello dei propri meriti: mentre davanti alle stesse frasi ad effetto, alle stesse battute a doppio senso, la maggior parte degli ascoltatori o dei lettori europei non potrebbero fare a meno di sentirsi a disagio e arrossire, imbarazzati.

Scrive, dunque, Bertrand Russell a conclusione della sua «Storia della filosofia occidentale» (titolo originale: «History of Western Philosophy and its Connections with Political and Social Circumstances from the Earliest Times to the Present Day», traduzione italiana di Luca Pavolini, Milano, Longanesi & C., 1967, vol. 4, pp. 1104-1106):

 

«Il metodo empirico analitico, di cui sono andato esponendo in tratti,  differisce da quello di Locke, di Berkeley e di Hume per il fatto d’inglobare la matematica e di sviluppare una serrata tecnica logica. È così in grado, rispetto a certi problemi, di giungere a risposte definitive,  che hanno le caratteristiche della scienza piuttosto che della filosofia. Ha il vantaggio, in paragone delle filosofie dei costruttori di sistemi, d’essere in grado di affrontare i problemi uno alla volta,  invece di dover scoprire d’un sol, colpo una teoria monolitica per l’intero universo. I suoi metodi, sotto questo aspetto, somigliano a quelli della scienza. Non ho alcun dubbio che, fin dove la conoscenza filosofica è possibile, è con tali metodi che può essere perseguita; non ho neppure alcun dubbio che, con questi metodi, molti antichi problemi siano senz’altro solubili.

Rimane, però, un vasto campo, tradizionalmente incluso nella filosofia, per il quale i metodi scientifici sono inadeguati. Questo campo comprende questioni di fondamentale importanza; la sola scienza, per esempio, non può dimostrare che sia cosa cattiva godere nell’infliggere crudeli pene.  Tutto ciò che si può SAPERE, si può sapere per mezzo della scienza; ma ciò che è legittimamente materia di sentimento resta al di fuori del suo terreno.

La filosofia, nel corso di tutta la sua storia, è consistita di due parti, disarmonicamente mescolate: da un lato una teoria intorno alla natura del mondo, dall’altro una dottrina etica e politica intorno alla miglior maniera di vivere. Il non aver distinto le due cose con sufficiente chiarezza è stata origine di molte confusioni. I filosofi, da Platone a William James, hanno lasciato che le loro opinioni sulla costituzione dell’universo fossero influenzate dal desiderio di miglioramento: sapendo, come essi supponevano, quali convinzioni avrebbero reso virtuosi gli uomini, hanno inventato degli argomenti, spesso molto capziosi, per dimostrare vere quelle convinzioni. Da parte mia, rimprovero questa specie di disonestà, sia dal punto di vista morale che da quello intellettuale. Moralmente, un filosofo che impiega la sua competenza professionale per qualche cosa che non sia la disinteressata ricerca della verità è colpevole d’una sorta di tradimento. E allorché suppone, nel corso dell’indagine, che certe convinzioni, vere o false che siano, sono tali da spingere a un buon comportamento, egli limita l’obiettivo della speculazione filosofica in modo tale da rendere la filosofia una cosa banale; il vero filosofo  è pronto ad esaminare TUTTI i preconcetti. Quando, consciamente o inconsciamente, si pone qualche limite alla ricerca della verità, la filosofia viene paralizzata dal timore, e si prepara il terreno a una censura governativa che punisca chi propali “pensieri pericolosi”: infatti il filosofo ha già posto  un’analoga censura sulle proprie indagini.

Dal punto di vista intellettuale, l’effetto delle errate considerazioni morali  sulla filosofia è stato quello di impedirne in larghissima misura il progresso. Io non credo che la filosofia possa dimostrare o negare la verità dei dogmi religiosi, ma da Platone in poi la maggior parte dei filosofi ha considerato proprio compito produrre delle “prove” per l’immortalità  e per l’esistenza di Dio,. Hanno trovato  degli errori nelle prove dei loro predecessori (San Tommaso respinse le prove dio Sant’Anselmo, e Kant respinse quelle di Cartesio), ma a loro volta ne hanno proposte delle nuove.  Per far sembrare valide le loro prove, hanno dovuto falsificare la logica, render mistica la matematica e pretendere che pregiudizi profondamente radicati fossero intuizioni mandate dal cielo.

Tutto ciò è rifiutato dai filosofi che fanno dell’analisi logica l’oggetto principale della filosofia. Essi confessano francamente che l’intelletto umano è incapace di trovare risposte definitive a molti interrogativi  di fondamentale importanza per l’umanità, ma rifiutano di credere che ci sia qualche “più alta” via verso la conoscenza, mediante la quale possiamo scoprire verità nascoste alla scienza e all’intelletto. Di questa rinuncia essi sono stati ricompensati dalla scoperta che a molti problemi, prima avvolti nella nebbia della metafisica, si può rispondere con precisione, e con metodi obiettivi che non introducono nella ricerca nulla del temperamento del filosofo., fuorché il desiderio di capire. Prendete domande come: “Che cos’è un numero? Che cosa sono lo spazio e il tempo? Che cos’è lo spirito e cosa la materia?” Non dico che possano dare subito risposte definitive a tutti questi antichi interrogativi, ma dico che è stato scoperto un metodo, mediante il quale, come nella scienza, possiamo compiere successive approssimazioni alla verità, in cui ogni passo risulti da un miglioramento, e non da un rifiuto, di ciò che è venuto prima.

Nell’accavallarsi dei fanatismi in conflitto, una delle poche forze unificatrici è la verità scientifica, con cui intendo indicare l’abitudine di basare le nostre convinzioni su osservazioni e deduzioni tanto impersonali e tanto immuni da deformazioni locali  e individuali, quanto è possibile a degli esseri umani. Aver insistito per l’introduzione di questo principio nella filosofia, e aver trovato un buon metodo con cui tale principio può esser reso fruttuoso, sono i meriti principali della scuola filosofica di cui sono membro. L’abitudine all’accurata veridicità acquistata attraverso la pratica di questo metodo filosofico può essere estesa all’intera sfera delle attività umane,  producendo, dov’è necessario, una diminuzione del fanatismo ed una accresciuta capacità di reciproca simpatia e comprensione.

Abbandonando una parte delle sue pretese dogmatiche, la filosofia non cessa per questo di suggerire e d’ispirare una via per la vita.»

 

Dunque, per Russell, l’empirismo logico ha il vantaggio di affrontare i problemi gnoseologici uno alla volta; di procedere gradualmente, una questione dopo l’altra, senza l’assillo e la responsabilità di dover spiegare tutto in una volta sola; ha inoltre il vantaggio di essere il modo di fare filosofia che gode della sua approvazione e di essere il solo che, a suo giudizio, può portare a qualche reale progresso nel campo della conoscenza. Aggiunge subito dopo, contraddicendosi, che alla scienza soltanto compete di verificare quello che si può sapere. Non si capisce bene perché, allora, egli si ostini a chiamare “filosofia” quel che dovrebbe chiamare “scienza”; tuttavia lo fa, anzi, si spinge a concludere che la filosofia continuerà sempre ad ispirare il giusto modo di vivere.

La contraddizione, però - secondo lui -, non è nel suo modo di concepire la filosofia, ma nel modo in cui la filosofia è sempre stata coltivata: precisamente, mescolando insieme ciò che non può essere spiegato in maniera rigorosamente logica con quello che, invece, è suscettibile di tale procedimento. Giunge ad accusare di disonestà quasi tutti i filosofi che lo hanno preceduto, una disonestà sia di tipo intellettuale che morale: hanno preteso di far progredire la società umana in base – horribile dictu – alle loro personali convinzioni e inclinazioni, anziché in base allo studio oggettivo di questioni limitate e precise. Per lui tutti i filosofi, o gran parte di essi, da Platone a William James, sono incorsi in questo  “tradimento” (l’espressione è sua, ed egli non la usa in senso metaforico) nei confronti della verità. Hanno servito non già la verità pura e semplice, ma ciò che essi pensavano essere utile al genere umano; hanno prostituito la loro intelligenza e la loro competenza professionale per dei fini non dichiarati e non spassionati; hanno anteposto ciò che, per loro, avrebbe contribuito a rendere gli uomini più virtuosi alla ricerca imparziale del vero. E non basta. Così facendo, essi hanno ridotto la filosofia a una cosa banale, svilendone l’intrinseca dignità e perdendosi in mille sofismi e arzigogoli intellettuali, il cui unico scopo era quello di giustificare le loro stesse tortuosità. Hanno costruito dei ragionamenti capziosi per offrire un sostegno alle loro teorie, ossia per trovare un accordo fra ciò che ritenevano buono e giusto e i dati offerti loro dall’analisi di quello che è la realtà. Inoltre si sono denigrati e sbugiardati a vicenda, sempre, dalle origini fino al presente, particolarmente circa le prove dell’immortalità dell’anima e dell’esistenza di Dio: ciascun pensatore ha preteso di rifondarle e di liquidare quelle avanzate dai suoi predecessori. Avrebbero fatto meglio a lasciar perdere simili questioni, suggerisce Russell in maniera implicita, dal momento che esse non si possono decidere sul piano della logica formale e che, anzi, non hanno alcun senso da tale punto di vista: l’unico che dovrebbe - secondo lui – interessare il filosofo; senza contare che essi hanno alimentato, con un tal genere di ragionamenti, il fanatismo e l’intolleranza da parte dei diversi sistemi etici e religiosi. È nota, in particolare, la polemica di Russell contro il cristianesimo: ma il suo «Perché non sono cristiano» è una lettura alquanto deludente, visto che il cristianesimo da cui si dissocia radicalmente è, per lo più, un avversario di comodo, una testa di turco fabbricata per evidenziarne le assurdità – si tratta del suo metodo di critica preferito, come si è visto – e far rifulgere, per contrasto, la sua razionalità, il suo equilibrio, il suo sano e costruttivo pragmatismo.

E qui viene l’affondo più grave nei confronti dei filosofi che appartengono all’epoca precedente la sua riforma del pensiero: da Platone a San Tommaso, da Cartesio a William James, si sono fatti schiavi dei loro pregiudizi, non hanno avuto il coraggio di affrontare la verità pura e semplice, hanno bloccato il progresso del sapere, banalizzato la filosofia; e, come se tutto ciò non fosse già abbastanza grave, hanno contribuito a creare le condizioni per l’instaurarsi di una società intollerante e totalitaria, che scoraggia la libertà di pensiero ed anzi la perseguita, che impone agli individui le cose in cui devono credere e quelle che devono respingere, insomma che stabilisce la dittatura sopra le menti e le coscienze. E i filosofi hanno in questo la loro grossa parte di responsabilità, perché essi per primi si sono auto-censurati e auto-limitati; mentre il filosofo non deve porre alcun limite alla propria ricerca, esattamente come lo scienziato (e di nuovo appare problematica la distinzione tra le due figure).

Evidentemente, Russell non è neanche sfiorato dal dubbio che il suo ragionamento potrebbe essere rovesciato e che quello che lui propone, ossia ridurre la ricerca filosofica ai metodi e ai contenuti che sono suscettibili di spiegazione logico-matematica, con esplicita esclusione di tutto ciò che attiene alla realtà extra-scientifica, possa essere visto come la più grave delle auto-limitazioni e delle auto-castrazioni del pensiero filosofico, come il suicidio di quella “Philosophia perennis” che, da sempre, non si accontenta di spiegare alcuni singoli problemi del reale, ma ambisce a una visione unificante dell’intera realtà. Non gli viene in mente l’affermazione di Platone, secondo cui è filosofo chi sa vedere l’intero campo del reale, mentre non lo è chi non lo sa vedere; o, se pure gli viene in mente, la considera alla stregua di una mistificazione, di un sofisma, di una forma di presunzione e disonestà intellettuale.

Come gli illuministi del XVIII secolo, egli è convinto che la filosofia, una volta sottoposta alla severa cura dimagrante da lui propugnata, possa fare molto per avvicinare gli uomini alla verità. Oh, intendiamoci: non alla verità su questioni oziose o irrilevanti, come l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio; ma la verità che scaturisce da una serie di domande molto più realistiche e importanti, per esempio che cos’è un numero, che cosa sono lo spazio e il tempo, che cos’è lo spirito e cosa la materia. Domande, come si vede, che possono essere formulate non da quella superata e un po’ ridicola figura di acchiappa-nuvole che è, o meglio che era, il filosofo classico e specialmente il metafisico, ma dal filosofo moderno, ossia dal seguace della logica di Russell: un matematico-scienziato che si attiene sempre e comunque al procedimento logico-formale. Costui, sì, può dare un utile contributo al progresso civile della società; può, inoltre, mostrare al singolo individuo quale sia la giusta via da seguire nella vita (strano, esattamente quel tipo di pretesa che Russell aveva duramente condannato nella “vecchia” filosofia): perché è noto che, per trovare la giusta via nella vita, bisogna aver saputo rispondere alle domande relative al numero, allo spazio e al tempo, alla materia e allo spirito.

Già, lo spirito. Resta da capire come si possa comprendere e spiegare, partendo da simili premesse, cosa sia lo “spirito”; eppure Russell considera tale questione fra quelle che sono suscettibili di trovare una risposta nella sua prospettiva empirico-analitica. Allo stesso tempo, egli insiste sulla gradualità, sulla metodicità, sulla rigorosa analisi logica delle proposizioni: e come si può pensare, percorrendo tale strada, di giungere a qualche risultato in merito alla questione dello spirito? Che cosa è poi lo “spirito”, una volta stabilito che il filosofo non deve occuparsi né dell’anima, né di Dio, né di tutto quello che la metafisica ha sempre considerato il cuore stesso del conoscere? Lo spirito è solo un fascio di percezioni? Benissimo: ma da dove provengono tali percezioni? Non da se stesse, evidentemente: se così fosse, cadremmo in una tautologia. Da dove, allora? Dalle “cose”? Ma le “cose”, intese come una realtà esterna e indipendente dal nostro atto di percepirle, non esistono: su questo punto, perfino Russell è d’accordo. Esistono il calore, il colore, la forma, il  numero e così via. Chi o che cosa, dunque, provoca in noi le percezioni?

Berkeley, il tanto bistrattato Berkeley, se lo è chiesto. E la sua risposta, che a Russell sembra presuntuosa e indimostrabile al tempo stesso, è, forse, la sola risposta umile e onesta che si possa dare, una volta accettate le premesse: non dal soggetto percipiente; dunque, da qualcosa di più grande di lui. Qualche cosa che deve essere una sostanza spirituale; perché, se fosse di natura materiale, non potrebbe trasmetterci alcunché, visto che le nostre percezioni avvengono nella nostra mente e non fuori di essa, dunque sono di natura spirituale. Una sostanza spirituale superiore all’essere umano, allora.

Una volta, al tempo della “vecchia” filosofia, una tale sostanza aveva un nome ben preciso: veniva chiamata Dio.