Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La rabbia e la menzogna

La rabbia e la menzogna

di Marco Tarchi - 18/05/2014


 

Corsi e ricorsi storici. Sembrava una teoria ingenua e abbandonata, per quanto illustri fossero coloro che, in epoche diverse, le avevano dato forma e vigore. In epoca di corsa continua al progresso e di tempo lineare dalle propaggini senza confini, era scontato che finisse fuori moda. Eppure, la convinzione che gli eventi umani ripropongano periodicamente scenari già osservati – magari nella versione un po’ ironica di Marx, che alla tragedia vedeva succedere la farsa – sembra conservare un buon numero di adepti. Ce lo dimostra oggi l’Europa, che attende per l’ennesima volta la calata dei barbari sul suo stesso territorio e agita lo spauracchio di un potente nemico pronto a minacciarne le frontiere.

Sul primo versante, l’allarme lanciato dalle classi dirigenti del continente prende di mira la composita armata populista, pronta a invadere il Parlamento di Strasburgo con un plotone di guastatori, intenzionati a turbare la sonnacchiosa e spesso consociativa prassi dell’assemblea con argomentazioni, e magari comportamenti, che non rispettano i canoni del politicamente corretto. Sul secondo, l’obiettivo polemico è la “Russia di Putin” (il legame è d’obbligo, negli interventi dei media), l’orso risvegliatosi dal letargo e tornato famelico, che si è fatto un sol boccone della tutt’altro che maldisposta Crimea e osa compiere manovre militari alle frontiere con l’Ucraina per dare sostegno agli insorti delle regioni orientali del paese, da sempre diffidenti verso Kiev e oggi in scontro diretto con il governo imposto dall’insurrezione di piazza e dalle pressioni di vario genere dell’Occidente euroamericano.

Su entrambi i fronti, la retorica, alimentata come sempre da un controllo quasi totale dei canali comunicativi, si spreca. E punta decisamente a rovesciare sui nemici – quelli che la lingua ipocrita di intellettuali e politici liberali d’ogni sfumatura ci prometteva di aver tolto di scena, sostituendoli con i più garbati avversari, a cui si riservano i piaceri del dialogo e del confronto –, oltre alle intenzioni funeste, la responsabilità dello stato di fatto che oggi li rende “minacciosi”.

L’avvicinarsi della campagna per le elezioni europee del 25 maggio ha infatti comportato il frettoloso oblio di un abbondante decennio di riflessioni, discussioni, mea culpa e lamentazioni sul tema del “disincanto” e/o del “malessere” che, ci è stato detto sino a ieri da studiosi seri e da meno credibili commentatori da talk show, affligge ormai patologicamente le democrazie liberali. Eppure, chi aveva avanzato l’ipotesi che ci fossimo avviati verso una post-democrazia (senza peraltro riempire l’espressione di contenuti coerenti su cui si potesse innestare un’analisi empiricamente fondata) non aveva esitato a prevedere che, se il distacco fra le azioni e le aspettative di eletti ed elettori, governanti e governati avesse continuato ad accrescersi, delusioni e proteste sarebbero lievitate al punto da delegittimare i fondamenti dell’ordine politico. E non erano mancate voci ancor più pessimistiche, che di fronte all’esplosione della crisi economico-sociale iniziata nel 2008, si erano spinte a preconizzare rivolte di massa nei paesi più tartassati, Grecia in testa. Sull’esistenza del circolo vizioso inefficienza governativa-protesta popolare-discredito della classe dirigente nessuno sollevava dubbi, e la ricetta dell’“autoriforma della politica”, per poco credibile che fosse, era indicata come una necessità improcrastinabile.

D’improvviso, dibattito e ammissioni di colpa sono scomparsi – non solo in Italia – dalla scena. Gli stessi politici che avevano assistito preoccupati al crollo degli indici di popolarità hanno abbandonato in fretta il saio del penitente per tornare all’habitus loro più consono, quello dell’arroganza. Noncuranti del ripetersi degli scandali e dallo scarto ben più ampio che in passato fra i classici “paese legale” e “paese reale”, sono partiti all’assalto scaricando ogni critica e accusa sulla controparte. I malfamati populisti.

Costoro, ha detto con una di quelle formule da marketing che gli sono consuete e connaturate Matteo Renzi, oppongono la rabbia, sentimento oscuro e in odore d’impotenza, alla speranza e ai suoi limpidi orizzonti. Che, naturalmente, sarebbero sul punto di svelarsi in tutto il loro splendore se ai politici “responsabili” dei paesi dell’UE venisse assicurato il giusto e solido consenso. Se insomma, come diceva il prototipo destrorso del modello renziano in auge fino a poco tempo addietro, li si lasciasse lavorare in pace.

Fino a qualche tempo addietro, quantomeno, ai movimenti populisti e ai loro capifila, ritualmente accusati di inconfessate ambizioni e palesi atteggiamenti dittatoriali, si attribuiva la capacità di porre “giuste domande”, alle quali, va da sé, si diceva fornissero “cattive risposte”. Ora non più. Tutte le questioni che in quell’ambito vengono sollevate cadono sotto la scure della stigmatizzazione dei politici professionali di destra, centro e sinistra e dei loro fiancheggiatori intellettuali e giornalistici. Si tratti di immigrazione, di euro, di tasse, di delinquenza e sicurezza, di sovranità nazionale, di identità culturali, il confronto è negato e le repliche sono sempre dello stesso tenore: denunce e proposte vengono derubricate a sintomi di risentimento, egoismo, irresponsabilità. Se la parola “avventurismo” non fosse stata resa ridicola dalle verbose discussioni settarie di Terza e Quarta Internazionale, c’è da scommettere che sentiremmo pronunciare persino quella. Quasi inflazionato, invece, è il termine paura. Che, si dice, le formazioni populiste – tutte, nell’arco policromo che va da Beppe Grillo e Matteo Salvini a Marine Le Pen o a Jean-Luc Mélanchon o a Geert Wijlders, passando per l’Ukip e gli Sverigedemokraterna, Ataka e la Fpö, il Danske Folkeparti e la litigiosa coppia ungherese Fidesz-Jobbik, l’Alternative für Deutschland e il Vlaams Belang, i Perussuomalaiset, il Bnp, gli slovacchi e i lettoni e via elencando, e magari infilandoci dentro tanto Syriza quanto Alba Dorata, con un certo gusto dell’eccesso – non si limiterebbero a sfruttare ma addirittura alimenterebbero e diffonderebbero. Come se in politica fosse possibile, alla faccia di Thomas Hobbes che ci ha edificato sopra uno dei pilastri dell’analisi scientifica delle forme di convivenza organizzata, radiare questo cruciale sentimento dalla psiche umana o quantomeno ignorarne il peso sui comportamenti che attengono alla sfera pubblica.

Scavalcando a piè pari le preoccupazioni e gli argomenti che questi malpensanti esprimono, le varie frazioni della classe politica puntano sull’effetto di rassicurazione dei loro messaggi, confidano nell’effetto-annuncio delle promesse che spargono a piene mani (ma l’overpromising non era uno dei caratteri tipici del populismo enunciati dalla letteratura accademica?), fustigano i dubbi dell’opinione pubblica, ne irridono i timori. Lo stile del Berlusconi dei tempi (per lui) d’oro, che scagliava fulmini sui pessimisti, tesseva le lodi della virtù del sorriso e del buonumore, irrideva la sinistra seriosa, se la prendeva con le barbe e gli abiti marroni perché “danno l’aria dello sfigato”, è ormai dilagato ovunque. E se ancora qualche manipolo di nostalgici di epoche concluse si attarda a riproporre ciclicamente l’intenzione di “rifondare” in versione bonsai destre, sinistre e centri, la politica mainstream ha ormai dimostrato, anche in questo campo, che i vecchi spartiacque hanno fatto il loro tempo.

Pare tuttavia che un buon numero di cittadini dei paesi aderenti all’Unione Europea non vedano disegnarsi, dietro il profilo degli esponenti dell’establishment – o, per meglio dire, dei rappresentanti della sua ala politica, senz’altro meno influente di quella economico-finanziaria – l’alba dell’atteso nuovo giorno in cui le angustie attuali si disperderanno come nebbia, ma gli inequivocabili segnali del tramonto. Non la speranza assicurata dalle parole, ma la menzogna testimoniata dai fatti. E contro la prassi delle parole al vento e degli impegni disattesi abbiano deciso di utilizzare l’arma del voto per i reprobi. Saranno probabilmente ancora in molti a non varcare la linea rossa di un dissenso così aperto e a rifugiarsi nell’astensione, e qua e là (Italia in prima fila) è probabile che l’espediente delle “facce nuove” possa servire da specchietto per le allodole e rinviare la resa dei conti, ma è sicuro che quel carattere aleatorio che gran parte degli esperti della materia ha fino a poco tempo fa attribuito ai successi populisti è, nell’insieme, un dato superato. Come hanno ben visto, in studi recenti, due politologi francesi, Dominique Reynie e Chantal Delsol, la crescita dei consensi verso il populismo – o, come a noi pare più corretto dire, la diffusione della mentalità populista – è in discorde sintonia con lo spirito del nostro tempo, delle cui tendenze più estreme e celebrate rappresenta l’inevitabile, se non necessario, contrasto. Quello che Reynie definisce il “populismo patrimoniale” si schiera, su un duplice e convergente registro, a difesa del livello di vita e dello stile di vita di strati sociali che vedono l’uno e l’altro minacciati o già compromessi dagli effetti della globalizzazione, dell’immigrazione di massa, delle politiche neoliberiste. E offre l’unico, se non ultimo, riparo a quanti non accettano la sistematica aggressione, in cui la casta degli intellettuali mediatizzati occupa un ruolo di primo piano, alle forme di vita ed abitudini tradizionali, irrise e disprezzate in nome di un credo progressista che ha tutti i caratteri tipici delle ideologie più intolleranti e decreta l’ostracismo verso i miscredenti e gli apostati.

Identità e radicamento culturale contro cosmopolitismo e omologazione; amore per la stabilità contro culto della precarietà; solidarietà e legami di prossimità contro individualismo e universalismo; buonsenso contro sofisticazione intellettuale; controllo costante su chi governa contro delega fiduciaria. Sono questi alcuni dei punti cardine attorno ai quali si gioca la partita fra populismo ed establishment. E, malgrado gli enormi vantaggi offerti al secondo dalla disponibilità degli strumenti di comunicazione di massa, il risultato dello scontro, sia nell’immediato sia – quel che più conta – in prospettiva, non è scontato.

Più squilibrato appare invece il confronto sul secondo dei versanti che abbiamo indicato in apertura, quello che oppone i cantori dell’occidentalismo scatenatisi sul caso ucraino ai sostenitori di un patriottismo europeo che, per svincolarsi dalla soffocante tutela del gigante d’oltreoceano, puntano a una progressiva integrazione fra il Vecchio Continente e il suo vicino orientale. Su questo fronte, l’apparato massmediale al servizio della causa euroatlantica ha aperto un fuoco incessante, e i motivi dell’accanimento non sono difficili da capire. Da un lato, per gli Usa e per la Nato, che è il loro braccio armato, la conquista di un altro Stato-cuscinetto rappresenterebbe un importante passo avanti nella strategia di accerchiamento della Russia, perseguita dopo il 1989 con vigore non inferiore a quello dei tempi di guerra fredda. Dall’altro, la raffigurazione del potere moscovita nelle vesti di un pericoloso nemico accampato alle frontiere consentirebbe ai dirigenti dell’Unione Europea di scaricare verso l’esterno – con un escamotage ben noto ai teorici della politica – una parte delle preoccupazioni, attenzioni e tensioni che la attanagliano all’interno, e nel contempo di contrapporre al dichiarato terzaforzismo di molti partiti populisti (non tutti, perché la retorica anti-islamica ha aperto in alcuni di essi, dopo l’11 settembre 2001, tanto prospettive di sfruttamento elettorale quanto brecce nelle precedenti volontà di autonomia nazionale e continentale) un ancor più pronunciato afflato filo-statunitense. I due fattori, coordinati, lasciano prevedere che, malgrado lo smacco subito in Crimea, e anzi ancor più in conseguenza di esso, la presa non verrà lasciata per un pezzo.

Sull’oggetto della contesa si esprimono, in questo fascicolo, molte voci, il che ci esime dal dilungarci nel commento. Non possiamo tuttavia non far notare come, anche in questo caso, ipocrisia e menzogna si siano confermati ingredienti fondamentali nell’opera di imbonimento dell’opinione del pubblico. Inchieste e dibattiti non ci hanno risparmiato pressoché nulla, in questo repertorio di malafede. Per limitarci al caso italiano, quando ancora la sorte della Crimea sembrava in bilico, i canali radiotelevisivi di Stato non hanno esitato a farci ascoltare la voce della “presidentessa dell’associazione degli italiani di Kerch” (incantevole estrema propaggine orientale della penisola), discendenti di marinai e commercianti colà emigrati nel Seicento da tempo impegnati nel tentativo di ottenere la cittadinanza italiana e con esso il diritto a ricevere da Roma una pensione, la quale ci ha testimoniata la sua felicità nell’ipotesi di diventare cittadina dell’UE. Né ci è stata risparmiata la lacrimosa vicenda di una vecchia signora tartara deportata da Stalin, che al rientro nel 1990 nel villaggio natio ha trovato la sua casa occupata da sgarbati russofoni. Ma, soprattutto, attorno a questi episodi, si è montato un vero e proprio spettacolo a fini di delegittimazione delle ragioni degli abitanti, in grande maggioranza desiderosi di staccarsi dall’Ucraina: esaltando le “decine” di attivisti della causa persa della fedeltà a Kiev e avanzando dubbi sulla correttezza delle procedure referendarie, intervistando a senso unico esponenti di minoranze etniche timorose dell’egemonia russa a scapito dei rappresentanti del gruppo maggioritario, paventando scomparse e rapimenti mai verificatisi di dissidenti locali.

A Crimea ritornata alla madrepatria, le cose sono ulteriormente peggiorate. Alle notizie false – l’infarto di Yanukovich, le invasioni di carri armati – si sono alternate le insinuazioni, i silenzi, l’uso sistematico dei due pesi e due misure. Tutto ciò che nell’insurrezione di piazza Maidan era stato esaltato – gli attacchi alle forze speciali di sicurezza, le defezioni dei poliziotti, le occupazioni degli edifici pubblici, le barricate, la cacciata dei politici del governo locale – è stato deplorato quando si è svolto a Donetsk, a Lugansk o a Mariupol. Il severo monito del “non si spara sul proprio popolo”, che era stato scagliato contro il governo legittimo di Kiev durante gli scontri nella capitale così come, a suo tempo, contro i governi di Assad, Gheddafi e altri capi di Stato e di governo invisi all’Occidente, è stato completamente dimenticato quando i beneficiari del colpo di Stato ucraino hanno lanciato nella regione del Donbass, con la benedizione di Obama, Hollande, Cameron e Merkel, l’operazione eufemisticamente definita “antiterroristica” contro gli autonomisti. E, sommo della vergogna, persino gli oltre quaranta militanti russofoni bruciati vivi nel palazzo dei sindacati a Odessa dai sostenitori del governo di fatto ucraino – che, caso strano, nessun giornalista definisce “di destra”, malgrado il colore di chi lo sostiene politicamente o con le armi – sono stati sottaciuti, relegati a breve di cronaca. C’è da immaginarsi a quante ore di trasmissione e prime pagine avremmo avuto diritto se l’orrenda vicenda si fosse svolta a parti invertite…

Insomma, sia all’interno sia all’esterno, quella che la classe dirigente europea – di destra, di sinistra e di centro – ha deciso di giocare nelle partite in cui è oggi coinvolta è la carta della falsificazione dei fatti, della negazione dell’evidenza, dell’ipocrisia, dell’eufemismo, della retorica che oscilla fra il bastone di moniti e minacce e la carota delle promesse destinate a sfumare una volta incassati i dividendi elettorali. Sono, va ricordato ancora una volta per onestà intellettuale, risorse cui la politica ha sempre fatto ricorso, spesso con profitto. Quel che dispiace è che a farne un uso smodato e a tratti indecoroso siano gli esponenti di regimi che si dicono democratici, fra i cui requisiti dovrebbero figurare la trasparenza e la responsabilità degli atti. Tradendo ormai sistematicamente gli ideali della democrazia, e confidando di farla franca grazie al sostegno di intellettuali e media, costoro si espongono inevitabilmente agli effetti della delusione che hanno provocato. Il malessere si è trasformato in risentimento, in rabbia. Sulla legittimità di questi sentimenti non può esserci dubbio. Sulla loro forza, e sulla capacità di questa di trasformarsi nel motore di un’auspicabile reazione, sarà solo il prossimo futuro a fornirci dati attendibili. Quel che è certo è che, in questo frangente, schierarsi contro l’establishment è, per chi si riconosce nelle idee difese da questa rivista, un dovere e un impegno etico.