Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Ribelliamoci alla dittatura del sistema denaro!

Ribelliamoci alla dittatura del sistema denaro!

di Alain De Benoist - 20/05/2014

Fonte: ideeinoltre


E' uscito da poco per Arianna Editrice il volume di Alain De Benoist “La fine della sovranità. Come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli”. Il libro, come argomenta Eduardo Zarelli nella puntuale e rigorosa prefazione, è l'aggiornamento e il completamento di “Sull'orlo del baratro. Il fallimento annunciato del sistema denaro”, pubblicato sempre da Arianna Editrice nel 2012. Il pensatore francese in questo testo concentra la sua attenzione sul completo svuotamento operato in questi anni dei parlamenti nazionali ridotti, ormai, semplicemente a esecutori di ordini della Commissione Europea. In questo senso vanno pure viste tutte le decisione prese circa il Meccanismo europeo di stabilità, il Trattato sulla stabilità fino alla futura istituzione di un grande mercato transatlantico che di fatto ridurrà l'Europa a vassallo delle decisioni e degli interessi di Washington. Cominciamo dal titolo del libro. Se un paio di anni fa, professore, Lei sosteneva che eravamo “Sull’orlo del baratro” adesso con “La fine della sovranità” abbiamo oltrepassato quel limite, e dunque lo stato-nazione, con i suoi punti di riferimento stabili, non esiste più? Viviamo ormai irreversibilmente in un mondo post-moderno?
R- Se consideriamo che lo Stato-nazione è stata la forma politica più tipica dell’epoca moderna, allora si può dire che siamo effettivamente entrati nell’era post-moderna. Lo Stato-nazione era già in crisi negli anni ’30, come aveva sottolineato Carl Schmitt. Nel corso degli ultimi decenni è stato progressivamente privato della sovranità in tutti gli ambiti: la sovranità politica, a causa della sua dipendenza dai mercati finanziari; la sovranità economica, per l’influenza delle multinazionali; la sovranità militare, per la presenza della NATO; la sovranità monetaria, a causa dell’introduzione dell’Euro; la sovranità in termini di budget, per rispondere alle esigenze del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Ciò non sarebbe del tutto grave se la sovranità tolta agli Stati fosse stata trasferita e affermata con maggiore forza a livello sovranazionale. Ma così non è stato: la sovranità è sparita in una sorta di “buco nero”. Ne risulta che le sovranità nazionali non sono altro che un ricordo, mentre la sovranità europea è più che mai introvabile. La sola vera sovranità che esiste oggi è quella del sistema del denaro.

Nel primo capitolo, professore, Lei affronta il tema della mondializzazione.
Ci può spiegare che cosa intende con questo termine e perché è cosi importante tenerne conto per capire oggi le dinamiche del capitalismo e il ruolo che gli Stati hanno in questi anni assunto in relazione a essa?
R-Di solito, distinguiamo la globalizzazione (o mondializzazione) culturale, la globalizzazione tecnologica, quella finanziaria, sociale, ecc. In realtà, tutte queste forme di globalizzazione derivano dalla globalizzazione economica e finanziaria, per la semplice ragione che l’elemento economico è necessariamente l’elemento dominante di una società di mercato, e che, per i liberali, solo l’economia intesa come libero confronto degli interessi di ciascuno è atta a regolare i rapporti tra gli individui. La globalizzazione, dunque, deve essere compresa prima di tutto come una tendenza all’interdipendenza globale e all’interconnessione generalizzata, in primo luogo per quanto riguarda i mercati. La globalizzazione tende a integrare i mercati locali in un grande mercato planetario sopprimendo le misure di protezione di cui godevano in precedenza e sottoponendoli alla concorrenza internazionale. La globalizzazione, in altri termini, non è altro che il processo storico-geografico di progressiva espansione del capitalismo su scala mondiale, l’espansione planetaria del principio del libero mercato.


In questi anni uno dei temi forti che ha messo in ginocchio le economie di alcuni Stati dell’Ue è stato certamente il debito pubblico. Come è stato possibile, a suo avviso, che questi Paesi siano stati costretti ad adottare politiche di rigore con tagli profondi alla sanità, all'istruzione, ai servizi sociali, ai trasporti e, nonostante questo, la voragine del debito pubblico non solo non tende a diminuire ma addirittura aumenta? Al riguardo ci sono precise responsabilità? E si possono evidenziare delle cause precise per tutto ciò?
R- La politica del debito pubblico è una politica di tipo usuraio, la cui causa prima è l’indipendenza che è stata accordata alle Banche Centrali. A partire dal 1973, allo scopo di combattere l’inflazione, gli Stati hanno impedito a se stessi di chiedere prestiti alle proprie banche centrali (Banque de France, Banca d’Italia, ecc.), che fino a quel momento prestavano denaro agli Stati a tassi molto bassi o nulli. Per finanziare i loro deficit, gli Stati si sono quindi posti alla dipendenza degli istituti bancari e dei mercati finanziari, che concedono prestiti a tassi molto più elevati (mentre tali istituti bancari possono, loro sì, rifornirsi dalle banche centrali a un tasso molto basso). L’indipendenza della Banca Centrale Europea (BCE) ha poi coronato il tutto.
Ben inteso, le banche richiedono un tasso di interesse tanto più elevato rispetto a quanto loro stesse ritengano le economie nazionali più o meno in cattivo stato. Per ottenere tassi di interessi più bassi, gli Stati si sottomettono dunque ai requisiti delle organizzazioni internazionali che, conformemente alla dottrina liberale, pensano che il risanamento delle finanze pubbliche passi per delle “cure di austerità”. In realtà, ciò che si osserva è il risultato contrario. Le politiche di austerità provocano un abbassamento del potere d’acquisto, quindi della domanda, quindi dei consumi, quindi della produzione, e di conseguenza un aumento della disoccupazione, della deindustrializzazione e del numero di delocalizzazioni. In fin dei conti, le entrate fiscali diminuiscono invece di aumentare. Per assolvere i loro debiti, gli Stati devono allora continuare a chiedere prestiti al settore privato, anche solo per finanziare gli interessi su tali debiti. Questi nuovi prestiti appesantiscono di nuovo il debito pubblico, facendone aumentare ancora gli interessi. La Francia, per esempio, deve chiedere in prestito ogni anno 50 miliardi di euro al solo fine di rimborsare gli interessi del suo debito pubblico (è la voce di budget più consistente dopo l’educazione pubblica). Si entra così in un ciclo senza fine.


L'esplosione della bolla finanziaria, provocata dalla crisi dei subprime, ha avuto conseguenze così gravi per l'economia reale da indurre i governi della zona Euro a firmare il trattato di istituzione del Meccanismo europeo di stabilità (MES) e il TSCG che obbliga gli Stati a conseguire una serie di rapporti molto rigidi tra PIL e debito pubblico. Al di là degli aspetti tecnici di tali provvedimenti qual è la "ratio" che caratterizza queste decisioni, che vengono presentate dalle autorità dell'Ue come necessarie?
R-Le disposizioni del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) mirano a imporre a tutti gli Stati le stesse regole in materia di indebitamento e di deficit pubblico, regole che sono praticamente inapplicabili perché, nella maggior parte dei paesi europei, la loro applicazione sfocerebbe in un rafforzamento delle politiche di austerità che sarebbe politicamente e socialmente insostenibile.
In questi anni, dalla Grecia all'Italia si sono avvicendati governi tecnici che hanno fatto dell’austerità il presupposto imprescindibile di ogni decisione. Di fatto però questa politica economica ha creato povertà e disoccupazione (specie giovanile), ha costretto alla chiusura centinaia di migliaia di imprese (con numeri che si registrano di solito dopo una guerra) ha comportato tagli, ha imposto riforme del mercato del lavoro cancellando diritti conquistati dopo anni di durissime lotte sociali. Tutto questo in nome del dogma liberista secondo cui i mercati, in quanto sarebbero "intrinsecamente" efficienti, riporteranno in positivo, prima o poi, la crescita dell'economia dei Paesi che attualmente attraversano una grave crisi economica e sociale. Nel frattempo, però cresce il malcontento verso l'Euro visto come il nemico da abbattere. A Suo avviso l'uscita dall'Euro sarebbe la soluzione per uscire da tale crisi?
R-Sono abbastanza combattuto su questo punto. L’istituzione di una moneta unica non era in sé una cattiva idea, tanto che si poteva sperare che l’Euro si imponesse progressivamente come moneta di riserva internazionale rispetto al dollaro. Il problema è che la Germania ha preteso (e ottenuto) che il valore dell’Euro fosse fissato allo stesso livello del vecchio Marco tedesco, rendendo così l’Euro fin da subito inutilizzabile per i paesi il cui livello economico era nettamente inferiore a quello della Germania. Ora, una moneta unica non può semplicemente essere utilizzata come moneta nazionale da paesi con livelli economici totalmente diversi. Anche in rapporto al Dollaro, si vede oggi come l’Euro sia sopravvalutato. In queste condizioni, l’istituzione dell’Euro non poteva che aggravare gli effetti della crisi finanziaria del 2008 e della crescita vertiginosa dell’indebitamento pubblico che tale crisi ha provocato. Nonostante ciò, bisogna comunque ricordare come i paesi europei che non hanno adottato l’Euro, come la Gran Bretagna, non si trovino oggi in una situazione migliore (per non parlare degli Stati Uniti, il cui debito e i deficit commerciali hanno aggiunto un livello fenomenale, quando la Federal Reserve americana dispone, in materia di produzione di moneta, di mezzi che la BCE non ha).
Un ritorno alle valute nazionali, accompagnato a una svalutazione di queste monete, potrebbe aiutare a uscire dall’impasse. Ma potrebbe anche provocare una brusca inflazione, di entità difficile da misurare. Con il debito pubblico ancora formulato in Euro, questo verrebbe di nuovo appesantito. Un paese che uscisse unilateralmente dall’Euro si ritroverebbe inoltre piuttosto isolato. La situazione sarebbe diversa se più paesi decidessero di uscire contemporaneamente dall’Euro, ma nell’immediato non si capisce bene quali paesi siano decisi a farlo. Un’altra soluzione sarebbe una svalutazione dell’Euro, ma la BCE non ne vuole sapere. Infine, va da sé che l’abbandono dell’Euro non cambierebbe nulla della natura profonda del sistema capitalista. In ogni caso, se la moneta unica dovesse sparire, ritengo che l’Euro sarebbe da mantenere come moneta comune per gli scambi finanziari con i paesi non europei.


Ruolo subalterno dei parlamenti nazionali nonché del parlamento europeo rispetto alla Commissione Europea e alle lobby della finanza. Depressione economica. Disoccupazione di massa in special modo giovanile.
A fronte di tutto questo da un lato pare manifestarsi una rabbia sorda e si ha l'impressione che prevalga una sorta di rassegnazione cupa. Forse perché manca quel senso di fiducia nel legame comunitario che la società di mercato e l'individualismo imperante hanno contribuito a indebolire se non a spezzare del tutto. Dall'altro, però, crescono partiti e nascono movimenti politici che la stampa ha immediatamente bollato come “populisti”. In Francia il FN di Marine Le Pen, in Inghilterra lo Ukip di Nigel Farage, in Italia il M5S di Beppe Grillo e la stessa Lega di Matteo Salvini.
Che cosa pensa di questi fenomeni?
R-La comparsa e il successo dei movimenti «populisti» in Europa è la conseguenza diretta di una crisi generale della democrazia rappresentativa, le cui cause sono da cercare nella cancellazione della divisione destra-sinistra e nell’ascesa di una “Nuova Classe” politica dalla quale il popolo è tagliato fuori. Nel corso degli ultimi decenni, la gente ha visto succedersi governi “di destra” e “di sinistra” che praticavano la stessa politica e non riuscivano, né gli uni né gli altri, a risolvere i problemi concreti. In parallelo, la globalizzazione ha accelerato i processi di immigrazione, disoccupazione, le delocalizzazioni, innescando così una catena di “terrori morali”. Avendo constatato che i grandi partiti classici non li rappresentano più, che l’alternanza ha sostituito l’alternativa, il popolo si è allontanato dalla “Nuova Classe”. Alcuni hanno trovato rifugio nell’astensionismo, altri si sono rivolti ai movimenti “populisti”, visti come “l’ultima chance”.
Ma bisogna anche sottolineare che, dal punto di vista della scienza politica, il “populismo” è diventato anche una categoria “minestrone” che comprende un po’ tutto, e allo stesso tempo oggetto di repulsione. In realtà, il populismo non è un’ideologia, bensì uno stile. Tale stile si può associare agli orientamenti ideologici più vari. Se si guardano da vicino i diversi movimenti che Lei cita, si vede comunque che, al di là di quanto possano avere in comune, emergono anche profonde differenze. Il Fronte Nazionale in France, per esempio, ha un programma economico e sociale nettamente “orientato a sinistra”, mentre la maggior parte degli altri partiti populisti sono decisamente dalla parte dell’economia capitalista liberale. Allo stesso modo, il FN è accanitamente giacobino e antiregionalista, mentre la Lega Nord e il Vlaams Belang in Belgio hanno opinioni totalmente opposte. E si potrebbero fare molti altri esempi.


In un capitolo molto denso e fondamentale del suo testo Lei ricostruisce, in modo assai efficace, sia sotto l'aspetto storico sia sotto quello economico, le tappe di un processo che dovrebbe portare alla nascita del Mercato Mondiale Transatlantico.
Ci può spiegare perché è così importante e perché è così pericoloso?

R-Il 14 giugno 2013, i Governi degli stati membri dell’UE hanno conferito ufficialmente alla Commissione Europea il mandato per negoziare con il governo americano la creazione di un grande mercato comune transatlantico, con il nome di Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (Trasantlantic Trade and Investment Partnership, TTIP). Da allora, il negoziato prosegue senza che il grande pubblico ne sia informato. L’obiettivo è di creare, procedendo a una deregulation generalizzata, una gigantesca zona di libero scambio corrispondente a un mercato di più di 800 milioni di consumatori, alla metà del PIL mondiale e al 40% degli scambi globali. Per gli europei, che si ritroverebbero così definitivamente legati agli USA, questa è un minaccia da temere per almeno due motivi.
Il primo è che il TTIP si dà come obiettivo non solo di eliminare i diritti doganali (cancellando così qualsiasi speranza di istituire un protezionismo europeo), ma anche di abbattere le cosiddette “barriere non tariffarie” (BNT), cioè l’insieme delle norme destinate a rappresentare delle “barriere” al libero commercio. Più precisamente: le norme costituzionali, legali e regolamentari che, in ciascun paese, potrebbero limitare la libertà commerciale intesa come libertà fondamentale. L’accordo prevede che, in tutti gli ambiti, la regola sarà quella di allinearsi al “livello più alto di liberalizzazione esistente”, che significa che la “convergenza” avverrà con l’allineamento delle norme europee alle norme sociali, salariali, ambientali, sanitarie in vigore negli USA. In ambito agricolo, ciò dovrebbe portare all’arrivo massiccio sui mercati europei dei prodotti a basso costo del business agroalimentare americano: manzo agli ormoni, volatili lavati nella clorina, OGM (Organismi Geneticamente Modificati), animali nutriti con farine animali, ecc. Tutte le norme sanitarie europee potrebbero così essere condannate come “barriere commerciali illegali”.
Seconda minaccia: la creazione di un meccanismo di “arbitrato delle controversie” tra Stati e investitori privati. Questo meccanismo, detto di “protezione degli investimenti”, deve permettere alle compagnie multinazionali e alle società private di portare davanti a un tribunale ad hoc gli Stati o le collettività territoriali in caso di modifiche alle legislazioni che siano ritenuto dannose per i propri interessi o che possano limitarne benefici, allo scopo di ottenere un risarcimento. La controversia sarebbe arbitrata in modo discrezionale da giudici o giuristi privati, al di fuori delle giurisdizioni pubbliche nazionali o regionali, e secondo il diritto americano. L’ammontare del risarcimento sarebbe potenzialmente illimitato (vale a dire che non ci sarebbe limite alle sanzioni che un tribunale potrebbe imporre a uno Stato a beneficio di una multinazionale) e la sentenza non sarebbe soggetta ad appello.
Per chiudere è ormai è un luogo comune affermare la superiorità dell'Economico rispetto al Politico. Tuttavia, il Politico non designa solo l'attività di governi, parlamenti o partiti ma anche e soprattutto la funzione politica e strategica in generale. Del resto, il fatto stesso che si parli di "supremazia" dell'Economico solleva la questione della funzione politica dell'Economico e quindi, oggi, del ruolo strategico dei grandi gruppi finanziari.


In Italia è stato un pensatore di formazione marxista (benché ciò possa apparire paradossale), ossia Gianfranco La Grassa, a elaborare un impianto teorico basato proprio sulla necessità di un superamento di una riduttiva e fuorviante visione economicistica, al fine di comprendere la decisiva funzione politica degli "strateghi del capitale" della potenza predominante.
Sull'importanza della funzione politico-strategica dell'Economico, come una specie di Politico a un tempo mistificato e mistificante, Lei è d'accordo?

R-L’ho già accennato sopra: la sola sovranità che esiste ancora oggi è quella del sistema finanziario, per dire a quale livello l’Economico ha superato il Politico. Ma Lei ha ragione nel sottolineare che l’economia ha anche una funzione strategica, le cui conseguenze sono inevitabilmente politiche. Gianfranco La Grassa è in effetti tra coloro che hanno seriamente studiato la questione, specialmente ne “Gli Strateghi del Capitale” (2006), “L’altra Strada. Per uscire dall’impasse teorica” (2013), ecc., ma non è il solo. Per l’Italia, si può ugualmente citare l’amico Costanzo Preve, filosofo neomarxista venuto recentemente a mancare. In Germania, l’opera di Robert Kurz sulla “critica del valore” (Wertkritik) merita di essere studiata ed esaminata. Questo aspetto “strategico” è tanto più importante che la Forma-Capitale, oggi più che mai di fronte al problema della “svalutazione del valore”, è sempre alla ricerca di modi nuovi che le consentano di andare più lontano nel processo di sovra-accumulazione del capitale finanziario, che è la sua ragion d’essere.


INTERVISTA A CURA DI: DAVIDE GONZAGA

Si ringrazia la professoressa Beatrice Soriani per la preziosa opera di traduzione.